L’Europa della speranza e l’Europa della paura

Una riflessione sull’Europa di oggi, sui Balcani e sull’integrazione europea. Senza trascurare l’attualità dei rapporti tra Serbia e Albania e il calcio. Riceviamo e pubblichiamo il testo del discorso che il premier albanese Edi Rama ha rilasciato la scorsa settimana ad una conferenza presso l’Ambasciata italiana di Tirana

27/10/2014, Edi Rama - Tirana

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Edi Rama

Voglio cominciare il mio discorso citando un grande europeista e amico degli albanesi, nonché amico mio. Si chiama Romano Prodi ed è un grande onore averlo qui con noi oggi: “Il fondamento dell’Europa era mettere insieme diversi Paesi per costruire qualcosa di nuovo, chiudere con la tragedia del passato, lavorare insieme, mettere le risorse in comune per costruire un futuro prospero e in pace. Oggi, il presente assorbe il senso del futuro e l’Europa della speranza è diventata l’Europa della paura”.

Credo che l’Europa della paura abbia molte sfaccettature e gran parte di queste ho potuto osservarle in prima persona. Come albanese e come balcanico mi sono sentito in dovere di difendere con grande vigore europeista l’Europa della speranza, davanti ad europei olandesi, inglesi, che l’Europa della paura faceva apparire scettici sull’allargamento stesso.

Ovviamente non ho niente contro olandesi e inglesi, perché di europei impauriti ve ne sono fino ai vertici politici di molti altri paesi membri dell’Unione europea. Invece, albanesi e balcanici disillusi dell’Europa unita, difficilmente li trovi, anche a cercarli nei caffè delle provincie più sperdute, dove bolle il caffè della politica albanese o balcanica, simili tra di loro.

Caro Professor Prodi, l’occasione di oggi mi è propizia per confessarle che l’ho citata assiduamente, negli innumerevoli incontri che ho avuto prima del giorno in cui finalmente ci hanno concesso il tanto atteso status di paese candidato, dopo averlo negato per così tante volte che anche sul numero effettivo di questi rifiuti abbiamo divergenze di vedute con l’opposizione qui in Albania. Il vero numero però non ha molta importanza, certo è che lo status di paese candidato ci è stato rifiutato per più di due volte – e su questo concordiamo con l’opposizione. Lo status per un paese come il nostro ha innanzitutto un altissimo valore simbolico. L’ho citata spesso per alleviare in qualche modo il fardello dell’Europa della paura, spiegando come, grazie a una sua geniale soluzione, offrendo lo status di paese candidato senza negoziati, siete riusciti a offrire a macedoni e albanesi la ragione per abbassare le armi e sedersi insieme al tavolo dei negoziati, che successivamente hanno portato ad uno storico accordo per una pace stabile e duratura, nonostante i molti nodi che rimangono ancora irrisolti.

Quell’accordo storico per i Balcani è forse il più rilevante per spiegare il miracolo dell’Europa della speranza alle persone che auspicano una pace stabile e una prospettiva di benessere duraturo. Lo status di paese candidato ha un valore altamente simbolico, ma nello stesso tempo è profondamente importante per nutrire e avvolgere di spirito europeista i popoli ancora fuori dalle alte mura dell’Unione europea. Ma così come a noi la concessione dello status ha portato a generare una forza propulsiva positiva, allo stesso modo, credetemi, ha generato i dubbi degli impauriti dell’Europa della paura nel momento in cui dovevano concedercelo. Di quella serie lunga di incontri e conversazioni che cominciavano a sembrarmi delle sedute di psicanalisi, mi ricordo ancora – e penso me ne ricorderò a lungo – la frase “Non è in discussione la concessione dello status, si tratta solo del quando”. Una forma perfetta di agonia, per una decisione che ha necessitato di anni per essere assunta. Naturalmente la colpa è tutta nostra se l’Unione europea a cui aspiriamo è quella così come si presenta oggi: una macchina la cui direzione viene decisa dalla tattica e non dalla strategia, dove la velocità viene stabilita dalla paura di non sfiorare niente, possibilmente nemmeno l’aria e non più dal desiderio di toccare l’orizzonte che fin dal principio i padri fondatori hanno disegnato per l’Europa Unita.

Sono molto riconoscente agli organizzatori di questa conferenza, all’Ambasciata italiana e sopratutto all’Ambasciatore Gaiani, sempre fedele alla sua reputazione e a quella del suo paese di tenaci sostenitori del nostro sforzo europeista; all’Università “Nostra Signora del Buon Consiglio” e al professor Ornaghi personalmente, che non si sono mai risparmiati. Nello stesso modo sono molto riconoscente al Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato Italiano, onorevole Pierferdinando Casini, per la sua presenza qui oggi. Indubbiamente sono riconoscente all’uomo che il nostro destino europeo ci ha fatto incontrare nei giorni più difficili della transizione albanese, Romano Prodi, quando da premier italiano – come ha anch’egli menzionato – è venuto in Albania in un periodo di lutto con una missione chiamata Alba e da allora si è sempre impegnato affinché l’alba lasciasse il posto ad un sole raggiante sull’Albania. Il mio riconoscimento infine a tutti coloro che sono venuti appositamente dall’Italia per questo evento.

Lasciatemi però confessare che avrei desiderato molto che insieme a tutti noi – che nel bene e nel male la pensiamo in modo simile – vi fossero anche rappresentanti degli impauriti dell’Europa della paura. Non intendo solamente gli impauriti tra gli italiani – che grazie a Dio, ma anche grazie allo spirito europeista dei politici e dei cittadini italiani, almeno della loro maggioranza, e sotto la leadership del nostro amico e portavoce dell’Europa della speranza Matteo Renzi, hanno scelto la speranza alle ultime elezioni europee – mi riferisco a tutti coloro che hanno smarrito l’immenso senso di grandezza e ispirazione che ha il progetto dell’Europa unita, il quale qui in Albania, ma anche nei Balcani, rappresenta il collante determinante per individui, partiti, pezzi di società civile e stati, che riescono a dividersi su quasi tutto il resto.

Succede questo al punto che un oggetto volante, del tutto innocuo, si rischia venga considerato dagli uni alla stregua di un caccia militare che mette a repentaglio la propria integrità territoriale e di conseguenza sembrano pronti a dichiarare guerra agli altri; da questi ultimi invece si rischia venga battezzato come un “animale mitico” che preanuncia l’ottava meraviglia del mondo. E così si è pronti a dichiararsi guerra a vicenda in nome di una verità che in realtà non è tale né dall’una né dall’altra parte.

Oltre ad andare in una direzione strategica, il progetto dell’Europa della speranza ha compiuto nei Balcani il miracolo di una pace, che solamente qualche anno fa, nemmeno i migliori ottimisti prevedevano potesse essere possibile in tempi brevi. Nel centenario della Prima guerra mondiale, scoppiata proprio da queste parti, nei Balcani, dove per 100 anni abbiamo avuto guerre, conflitti tra i più sanguinari, infinite avversità e innumerevoli divisioni, questa penisola sta vivendo finalmente senza conflitti e senza confini contesi. Per la prima volta, tutti i leader balcanici si sono seduti intorno ad un tavolo, a Berlino, non per continuare le dispute su confini che ci dividono, ma per unire le forze e le energie, per scambiarsi idee, hanno discusso su principi comuni che possano trasformare questa pace in una pace per la quale vale la pena vivere, come diceva il presidente Kennedy. Una pace per cui valga la pena vivere, per noi albanesi, proprio anche per gli enormi sacrifici ai quali siamo stati sottoposti e i dolorosi compromessi che abbiamo dovuto fare.

Senza l’Europa della speranza come comune aspirazione, gli infiniti fiumi di sangue versati nei Balcani non avrebbero portato alla pace tra tutti quelli che fino a ieri vivevano separati dalla violenza tra di loro. Senza l’Europa della speranza come progetto comune, nemmeno la scaramuccia di mercoledì allo stadio di Belgrado, nata come esaltazione di tifosi di calcio e proseguita a livello politico, si sarebbe potuta appianare con una conversazione telefonica tra i due premier, che ha fissato nuovamente una data per un loro incontro che manca da oltre 68 anni.

Senza l’Europa della speranza, oggi e ogni giorno, questa penisola può esplodere nuovamente, proprio come stereotipo vuole, “una polveriera”, per un pallone da calcio e per le innumerevoli ferite che ancora bruciano nel suo corpo stanco e sfinito dalle guerre e dall’isolamento. Non servono spiccate doti di immaginazione per individuare le conseguenze che avrebbe oggi se i Balcani non potessero guardare, anche per poco tempo, all’Europa della speranza e avessero davanti solo l’Europa della paura come traguardo del faticoso percorso di adesione all’UE. Una penisola balcanica che si sentirebbe di troppo, disoccupata e inoccupabile, nel cuore di un’Europa impaurita da se stessa e chiusa in se stessa. Una penisola balcanica che si trova tra oriente e occidente, mentre tenta di diventare parte dell’Europa unita, trasformando la sua straordinaria diversità in forza e che da un lato si scontra con l’agonia di una attesa decisione di allargamento dell’UE e dall’altro con le forme aggressive dell’epidemia del terrorismo islamico o dell’aggressione ai danni di paesi sovrani che avviene proprio ai confini dei paesi NATO.

Tra meno di un mese finalmente diverrà realtà anche un altro sogno antico degli albanesi. Finalmente l’Albania giocherà una partita di calcio con l’Italia. Sicuramente molti albanesi andranno allo stadio con le loro bandiere e se vorranno anche con i loro droni, che oramai si possono trovare nei supermercati tedeschi con il nome di “Albaniche Drone”. Costano, mi sembra, circa 5 euro.

Nessuno sa chi ha pilotato il drone ma sfortunatamente è toccato a mio fratello entrare, senza aver fatto nulla, nella lunga lista dei finti eroi balcanici. Quanti simili eroi, che non hanno fatto niente per essere tali, hanno prodotto i Balcani! Quello che però so sicuramente è che, chi tra noi albanesi, che si tratti di politici, opinionisti o sedicenti patrioti ha voluto continuare il post-partita avviato da politici, opinionisti e giornalisti serbi, facendo proclami partitici e augurandosi l’annullamento della mia visita a Belgrado si sbaglia di grosso. L’annullamento di questa visita in Serbia non sarebbe la risposta adeguata a tutto ciò che ingiustamente è stato perpetrato ai danni dell’Albania e degli albanesi nella capitale serba, bensì costituirebbe l’abbassamento dell’Albania e degli albanesi al livello di una guerra di dichiarazioni sterili, con per conseguenza niente meno che l’aborto del processo storico che ha avuto inizio a Berlino; significherebbe la rottura con le nostre mani, e non più serbe, degli esempi fonti di ispirazione forniti dall’Albania e del ruolo pacifico ed emancipante che gli albanesi hanno assunto nei Balcani; l’interruzione del dialogo e della cooperazione nella regione, dove non la Serbia ma bensì l’Albania ne risulterebbe la grande perdente dato che ne è la più grande azionista. Un annullamento della visita d’altro canto avrebbe dato un ulteriore pretesto all’Europa della paura che avrebbe potuto sostenere che tanto rancore per una partita di calcio non è accettabile e avrebbe fatto ritornare l’Europa ai tempi della Guerra Fredda. Ecco, tutto questo non ci serve, ed è un bene che ne siamo impauriti.

Ho sentito sostenere da alcuni contrari a queste visita a Belgrado che il suo non annullamento sia stato imposto da Bruxelles. Devo dire che Bruxelles ha imposto molte cose in Albania, ma questa proprio no! Non è affatto vero. Così come non è stata Bruxelles a imporre lo slogan “vogliamo l’Albania come l’Europa”! Così come non ci ha imposto Bruxelles nemmeno la firma dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione. Così come, e lo sappiamo bene, non è stata Bruxelles, anzi, a imporci lo status di paese candidato. Così come non ci ha imposto l’aspirazione, il progetto, la strada verso l’Europa della speranza. Non ci impone Bruxelles di essere europei e comportarci come tali, anche quando gli altri – e qui non intendo solo i serbi – si comportano come non europei con noi.

Anzi, che europei potremmo essere noi se la strada dell’integrazione europea la percepissimo come compito assegnato da altri e non come obbligo che abbiamo con i nostri padri, con noi e sopratutto con i nostri figli; che europei potremmo essere se ci comportiamo come tali solo quando gli altri si comportano con noi da europei e non sempre, in modo che i nostri principi europei possano determinare i nostri comportamenti e rispecchiarsi nelle nostre decisioni; che europei potremmo essere se il nostro essere europeo cambia pelle e il nostro essere politico cambia visione e strategia a causa di una partita di calcio, di un pugno di tifosi o di una classe politica dall’altra parte che ha perso la ragione sotto la pressione degli ultrà. Nessuno mi ha chiamato per dirmi “Non annullare l’incontro con il premier serbo”. Perché dico questo? Per una ragione molto semplice: lo ritengo un grande complimento per la nuova immagine che stiamo cercando di dare all’Albania e la fiducia che abbiamo proiettato in questa immagine europea, dopo il grave oltraggio che la politica ha fatto all’immagine del nostro paese con ammuffiti proclami nazionalistici.

A renderci europei o non europei non è nessun altro se non noi stessi. L’Albania europea non è un filo d’erba in un campo da calcio che si spazza via con un calcio, ma è un albero che ha radici profonde nella sua storia. I suoi rami più giovani sono in ogni mente e cuore albanese ovunque viva e crescono nell’Europa della speranza, nell’Europa del sapere, nell’Europa della cultura, nell’Europa della pace e della prosperità, la quale deriva dalla convivenza e dalla pacifica cooperazione.

L’Albania europea non è il luogo dove facciamo a gara su chi la spara più grossa del vicino, anche quando quest’ultimo non è in se stesso. L’Albania europea è il posto scelto come prima stazione europea da Papa Francesco, dove è stato accolto da europei, musulmani e cristiani, che hanno riempito i viali prima ancora che sorgesse il sole. Sicuramente, l’Albania europea non potrà mai essere il posto dove l’Europa unita sia una foglia di fico per nascondere vecchie inclinazioni conflittuali, ogni volta che viene a mancare la ragione.

Sicuramente non mi sono dimenticato che siamo qui oggi per parlare del partenariato strategico tra Italia e Albania. Vi assicuro che non ho esaurito qui il mio discorso per sottolineare la nostra eccellente amicizia, che per noi è imprescindibile.

L’Italia è stata senza ombra di dubbio il partner più vicino e più naturale nella nostra strada verso l’Europa, non fosse anche per la storia e il solito mare che condividiamo. L’Italia è il principale partner commerciale dell’Albania con quasi la metà delle nostre esportazioni e circa il 35% delle importazioni. Per quanto siamo vicini in realtà, i volumi nominali che stanno dietro queste percentuali sono però a mio avviso ancora bassi. Molto bassi. In Albania operano circa 1460 imprese italiane, con capitale italiano o misto, e con attività in settori diversi. Questo numero lo cito per dire che sono tanti, 1460, ma nello stesso tempo per dire che vi è spazio per molto di più. Indipendentemente dal fatto che 1460 imprese italiane siano sempre di più rispetto a quelle di altri paesi, per quello che noi rappresentiamo per l’Italia e viceversa sono molto poche. Il potenziale di cooperazione non sfruttato tra i nostri due paesi è ancora enorme.

Io credo che siano 3 gli aspetti principali che sottolineano questo potenziale e che vanno armonizzati, se vogliamo svilupparlo al massimo. Il primo sicuramente è l’allargamento delle relazioni, economiche, culturali e intergovernative; il secondo è lo sviluppo di cooperazioni innovative; il terzo è una cooperazione più intensa per l’integrazione dei Balcani al loro interno e poi nell’Europa unita.

Su quest’ultimo punto vorrei porre un forte accento perché credo che l’Italia abbia un ruolo molto attivo in questa direzione, considerando non solo i contributi che l’Italia ha dato ai singoli stati balcanici ma anche alle relazioni molto prossime che i singoli stati balcanici hanno con l’Italia.

Concedetemi una piccola digressione. Circa un anno fa mi sono incontrato, qui a Tirana, con Gianni Amelio,a cui mi lega una lunga amicizia. Era la seconda volta che lo incontravo in Albania. La prima volta l’ho incontrato nel 1991/92 se non sbaglio, quando venne per girare L’America, il film che raccontava gli albanesi che scappavano in Italia. L’anno scorso era venuto per girare un film – non conosco il titolo – sugli italiani che emigrano in Albania per trovare un lavoro. Questo non perché l’Albania sia diventato il posto dove tutti gli italiani aspirino a trasferirsi per trovare lavoro, ma sicuramente perché l’Albania è diventata un luogo dove le imprese italiane possono trovare tutto quello che cercano e che oggi non trovano nemmeno in Italia.

Credo che anche in quest’ottica l’Ambasciatore Gaiani meriti un ringraziamento di cuore e per niente formale, perché ha dato una spinta importante alle relazioni tra i nostri due paesi, senza farsi condizionare dagli eventi politici, che prevalentemente in Italia più che in Albania non hanno concesso sempre l’attenzione dovuta a queste relazioni. La creazione dell’Associazione parlamentare di amicizia Albania–Italia, ma anche il gruppo di parlamentari appositamente creato per attrarre investimenti italiani in Albania, credo che siano segnali incoraggianti. Sicuramente Massimo Gaiani è agevolato nello svolgimento delle sue funzioni dal fatto che oltre il 60% della popolazione albanese parla italiano. E’ un dato di fatto che agli ambasciatori dei paesi più euroscettici risulta più difficile spiegare nella loro lingua agli albanesi il perché di tanta paura per il processo di allargamento.

Oltre a questo, credo che l’Italia sia molto importante oggi anche per un’altra ragione. L’Italia oggi è il rappresentante più vicino e più raggiante dell’Europa della speranza, e che rispecchia speranza anche in noi, oltre ad essere piena di speranza anche per se stessa, grazie al suo nuovo governo. Ci sentiamo molto vicini al nuovo governo, non solo perché noi due premier ci assomigliamo, ma sopratutto perché abbiamo scelto entrambi come ministro della Difesa una donna, capendo che non esiste migliore difesa di questa. Credo che l’importante contributo che l’Italia ha dato sia collegato strettamente al contributo che ognuno di noi nei Balcani ha dato affinché le economie della regione si potessero aprire ai grandi investitori e la penisola stessa diventasse più attraente, utilizzando l’Albania stessa come punto di partenza.

Qui vorrei chiudere cogliendo l’occasione per ripetere – e non è la prima volta che lo faccio, e approfittando della presenza del Presidente della Commissione esteri del Senato italiano e sicuramente anche della presenza del Professor Prodi – che l’Italia non può rimanere fuori dal processo che è cominciato a Berlino. E se aspettiamo un anno dalla conferenza di Berlino per rivederci alla successiva conferenza a Vienna o in qualche altra città in Austria, penso che nel mezzo non sia opportuno lasciare vuoti di contenuti o persone. Chi meglio dell’Italia, anche nel quadro della presidenza di turno dell’Unione, può essere testimone e compagna di viaggio in questo processo, considerando il fatto che tutti gli assi identificati come basilari all’inizio del processo, in funzione dell’integrazione e della cooperazione regionale, coincidono anche con gli interessi italiani in Albania e nei Balcani? Si tratta del settore energetico, infrastrutturale per proseguire con il turismo e arrivare fino alle sviluppo delle piccole e medie imprese.

Infine, credo che l’Italia, come miglior rappresentante dell’Europa della speranza, possa aiutarci a trasmettere a tutti gli impauriti dell’Europa della paura, un messaggio: oggi l’Unione europea ha bisogno dell’Albania, degli albanesi, così come anche del resto dei Balcani nella stessa misura in cui i Balcani, l’Albania e gli albanesi hanno bisogno dell’Unione europea. Se questo non è compreso bene oggi, domani potrebbe essere troppo tardi. La storia dell’Europa ha dimostrato che quando ha vinto la speranza, ha vinto il futuro. Quando ha vinto la paura hanno vinto i peggiori istinti, che gli europei per bene, educati ma tendenti all’isolamento dagli altri, non avevano immaginato nemmeno nei loro peggiori incubi.

Grazie

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