Disabili in Croazia: fuori dalle istituzioni, nel mondo

Come altri paesi europei, la Croazia ha iniziato un processo di deistituzionalizzazione delle cura e dell’assistenza alle persone disabili. Tuttavia, come denuncia un recente rapporto di Human Rights Watch, sono ancora 8200 le persone che vivono in strutture residenziali e ospediali psichiatrici in condizioni dure e spesso disumane.

19/11/2014, Rossella Vignola -

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(foto Momo/flickr )

Jelica ha 58 anni, 17 dei quali trascorsi in una struttura per disabili in Croazia. In un’intervista realizzata recentemente da Human Rights Watch (HRW) si sente la paura e la curiosità che Jelica prova immaginando la sua vita fuori da una istituzione di cura: “Ho provato all’improvviso paura per come sarebbe stata la mia vita fuori”, ha detto Jelica pensando al momento in cui ha appreso che avrebbe lasciato la struttura residenziale e continuato il suo percorso in un piccolo appartamento in comune.

La paura, la curiosità, il desiderio di scoperta di Jelica non sono sentimenti molto diversi da quelli di Josip, Iva, Ivan, Tatjiana, e delle decine di persone disabili intervistate in Croazia da HRW nell’ambito della ricerca “Locked up and Neglected ”, che esplora le condizioni e le conseguenze sulla personalità e l’individualità delle persone disabili che vivono strutture residenziali rigide, con regole spesso irragionevoli, dove ogni possibile espressione individuale è annullata e dissolta in una ‘ragione collettiva’.

“Le persone disabili trascorrono lunghissimi anni in istituzioni chiuse, private di cose che dovrebbero essere scontate, come andare a scuola e lavorare, o anche solo la possibilità di decidere a che ora svegliarsi al mattino, e cosa indossare”, spiega Emina Cerimović, ricercatrice di HRW. Secondo la Cerimović, che sottolinea l’attitudine paternalista che è alla base dei metodi di cura del disagio psichico e della disabilità incentrati sulle strutture residenziali e le lungo-degenze, un simile approccio ha condizionato anche il discorso giuridico. Secondo l’ordinamento croato, in modo simile alla maggior parte dei sistemi dell’Europa occidentale, le persone con disabilità sono legalmente private della personalità giuridica e poste in regime di tutela. Come mostra la ricerca di HRW, in Croazia sono 18.000 le persone con disabilità intellettuali e psicosociali a cui viene negata la possibilità di prendere decisioni su scelte e diritti individuali come sposarsi e formare una famiglia, firmare una dichiarazione di disoccupazione, o prendere decisioni relative alla propria salute o alla gestione della proprietà. 

Una volta dentro, non esci più

Secondo il report pubblicato ad ottobre da HRW, in Croazia sono più di 8200 le persone affette da disabilità intellettuali o psicosociali a vivere ancora all’interno di strutture residenziali e ospedali psichiatrici. Come emerge dalla ricerca, la vita nelle strutture residenziali, soprattutto in regime di lungo-degenza, si svolge secondo regole rigide, ritmi monotoni, assenza di privacy e mancato rispetto per l’espressione individuale, e contatti limitati con il mondo esterno e il resto della comunità. Così li racconta Iva, questi giorni tutti uguali, costretti in orari e regole decisi da altri: “Dobbiamo svegliarci tutti i giorni prima delle 8, e fare colazione tra le 8 e le 8:15. Se la perdiamo, dobbiamo aspettare il pasto successivo servito a mezzogiorno”. 

HRW segue da anni la situazione delle strutture residenziali in Croazia: nel 2008, all’indomani della firma da parte del governo croato della Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone disabili, aveva condotto una ricerca dal titolo significativo: "Once you enter, you never leave: Deinstitutionalization of persons with intellectual or mental disabilities in Croatia ”, in cui chiamava il governo all’attuazione delle convenzioni internazionali sui diritti dei disabili e a promuovere misure concrete per la transizione da un sistema di cura basato sugli istituti di lungo-degenza alla deistituzionalizzazione verso servizi di comunità, più rispettosi dell’autonomia, delle capacità individuali e della volontà delle persone con disabilità.

Una volta dentro, esci

La deistituzionalizzazione è un paradigma elaborato dai movimenti di psichiatria alternativa tra gli anni sessanta e settanta ed ha avuto un effetto rivoluzionario sulla cura della malattia e del disagio psichico. L’Italia fu al centro di questa riflessione, grazie al lavoro di Franco Basaglia e alla sua critica radicale della psichiatria, del potere medico assolutizzante, del manicomio e delle altre “istituzioni totali” per la loro condizione disumana e gli effetti non terapeutici. Le sperimentazioni avviate da Basaglia ebbero un grande impatto a livello internazionale, e quello della deistituzionalizzazione della cura del disagio mentale e della sostituzione dei vecchi servizi istituzionali con nuovi approcci basati sulle relazioni di comunità e sul rafforzamento della soggettività è diventato un paradigma riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Per ragioni di prossimità geografica, i primi contatti con il movimento avviato da Basaglia a Trieste e Gorizia, si ebbero in Slovenia, ma la deistituzionalizzazione in uno stato socialista non poteva che incontrare resistenze forti e diffuse, come sottolineano Vito Flaker e Mojca Urek della Facoltà di servizio sociale dell’Università di Lubiana. Il collegamento con l’esperienza italiana venne stabilito fuori dalla psichiatria ufficiale da un gruppo di psicologi critici e operatori sociali impegnati in pratiche sperimentali di deistituzionalizzazione dei servizi per l’infanzia e la disabilità. Gli anni ottanta furono dunque anni di sperimentazioni e progetti pilota, con le prime case famiglia, i centri diurni, ed altre esperienze territoriali basate su pratiche non istituzionali che sorsero sul finire del decennio, all’alba del processo di democratizzazione.

Kata e Bozo

In Croazia si deve aspettare la fine della guerra degli anni novanta per osservare i primi movimenti verso la deistituzionalizzazione. “Eravamo convinti della necessità di sviluppare servizi di assistenza basati su pratiche non istituzionali e terapie di comunità nel momento in cui anche altri aspetti della società venivano ricostruiti”, spiegano dalla Open Society Mental Health Initiative , attiva da oltre 17 anni in Croazia nella strada della riforma dei servizi di assistenza ai disabili. I primi passi furono mossi nel 1997, grazie ad iniziative su piccola scala, progetti sperimentali e diversi fallimenti, come il tentativo, avanzato più volte e sempre fallito, di chiudere il Centro di riabilitazione di Zagabria e il centro di Stančić, la più grande istituzione residenziale del paese. A partire dal 1998, grazie all’impegno del professor Borka Teodorović dell’Università di Zagabria e dell’Associazione per la promozione dell’inclusione (API), si avviarono le prime esperienze di successo alla ricerca di modelli di cura basati sulle comunità di aiuto e la deistituzionalizzazione. Kata e Bozo furono tra i primi in Croazia a lasciare una struttura per trasferirsi, all’interno di un progetto promosso dall’API, in un appartamento con servizi di sostegno e di comunità, e poi, qualche tempo più tardi, sposarsi.

Oggi, secondo HRW, il processo di deistituzionalizzazione riguarda 11 delle 46 strutture pubbliche croate. Secondo l’organizzazione, nonostante alcuni progressi siano stati compiuti dal governo croato, “il processo di deistituzionalizzazione e riconversione in servizi di comunità ha seguito un corso limitato e lento” e non include tutte le istituzioni, sia pubbliche che private.

I programmi alternativi a sostegno di comunità di vita indipendenti non sono più costosi delle cure fornite all’interno delle istituzioni. Secondo uno studio sugli istituti di cura e le possibili alternative voluto dalla Commissione europea, i servizi basati sulle piccole comunità di vita e di cura non sono generalmente più costosi rispetto ai servizi offerti all’interno delle strutture residenziali, e nei casi in cui lo sono (come per le disabilità gravi) i servizi di comunità sono o più, o egualmente efficienti in termini di costo-beneficio se si considera il miglioramento della qualità della vita delle persone inserite nei progetti di riabilitazione.

No, no, no

Esiste un consenso crescente tra gli operatori sui benefici positivi delle residenze in appartamenti e del fatto che le persone risultano rafforzare dalle relazioni orizzontali di comunità. Secondo Ladislav Lamza, direttore del centro per disabilità mentali di Osijek, intervistato da HRW, “siamo ora pronti a riconoscere che l’istituzione, come luogo per degenze di lungo periodo, è un’opzione sbagliata. Sembra che l’istituzione dia alle persone ogni cosa, ma in realtà le priva della più importante: uno scopo nella vita. Noi li teniamo continuamente per mano – ha aggiunto Lamza – ma è solo adesso che possiamo vedere quanto la libertà sia importante per la riabilitazione”.

Dello stesso avviso, Dijana Borović, direttrice del centro di Ozalj: “E’ come stare dentro una prigione. Li rendiamo dipendenti da noi. Facciamo ogni cosa al posto loro. E anche quando fanno qualcosa da soli, sono sempre sotto il nostro sguardo”, continua la Borović. Goran Karaš, del centro "Amorevera", sottolinea a sua volta lo svuotamento di soggettività e identità insito nella relazione gerarchica praticata nelle grandi istituzioni: “Notiamo che quando viene loro chiesto qualcosa guardano automaticamente nella direzione dell’operatore, aspettando che sia lui a rispondere”. 

Fuori dalle strutture, molti scoprono un nuovo senso di fiducia in sé. Josip e Iva sono contenti di poter cucinare e di provare la sensazione di costruire qualcosa da soli e con le proprie mani. Nelle case-comunità, la vita si svolge in modo indipendente e le relazioni non sono più improntate alla gerarchia, ma alla collaborazione orizzontale tra ospiti e operatori e allo scambio con la comunità locale. Gli operatori non danno assistenza, ma offrono supporto quando richiesto e se necessario, su questioni specifiche, offrendolo a livello individuale, in gruppi di auto-aiuto o attraverso il sostegno informale di amici e vicini.

Come sottolinea la ricerca di HRW, vivere in piccole comunità significa avere scelta e controllo sulla propria vita e aiuta l’esercizio di altri diritti e l’inclusione sociale. Ciascun ospite è inserito in un percorso in cui si identificano bisogni, desideri, punti di forza e di debolezza, e insieme si pensa al futuro. "No, no, no. Non voglio più tornare nell’istituto. Non torno indietro perché questa è la mia casa adesso", dice Iva scacciando col pensiero anche solo il ricordo della vita in struttura.

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