Turchia, libertà di stampa incarcerata
La notte del 14 dicembre una trentina tra giornalisti, direttori di produzione, sceneggiatori, ecc. sono stati fermati dalla polizia con l’accusa di “far parte di un’organizzazione t[]istica armata”. Cosa vi è dietro quest’azione duramente criticata dalla comunità internazionale?
“Leggo che sono stato fermato… oltretutto l’hanno annunciato mentre ero in diretta televisiva. Ecco il livello raggiunto dalla stampa in Turchia!”. Il tweet di Ekrem Dumanlı, capo redattore di Zaman, quotidiano con la tiratura maggiore del paese, è accompagnato anche da
una faccina sorridente, un tentativo di sdrammatizzare quanto gli sta per accadere da un momento all’altro. La notte del 14 dicembre riesce ad inviare solo un altro post prima di essere portato via dalla polizia dalla sede del suo giornale in mezzo a una folla in protesta.
La notizia del suo arresto, assieme ad altre 30 persone tra cui Hidayet Karaca, direttore del gruppo media Samanyolu, era già stata annunciata da un misterioso account Twitter registrato con il nome Fuat Avni, che in passato aveva anticipato altre azioni della polizia e del governo e, per molti, non è stata affatto una sorpresa. Fuat Avni ha comunicato anche che ci saranno altri fermi nei prossimi giorni, fino al 25 dicembre per l’esattezza, data che segna, assieme al 17 dicembre, l’anniversario della più grande operazione anti-corruzione avviata contro un governo in Turchia.
I retroscena: la rivalità tra Erdoğan e Gülen e gli scandali di corruzione
Proprio quelle operazioni, che risalgono a un anno fa e che hanno portato alla dimissione di quattro ministri, sono state il punto di rottura definitiva tra il governo del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) e il suo stretto alleato Fethullah Gülen – leader indiscusso del movimento politico-sociale di matrice sunnita noto con il nome “Hizmet” (in turco, servizio) o “Cemaat” (la Confraternita) – dando inizio a una guerra senza quartiere. Per il governo si è trattato di un “tentato golpe” attuato da Gülen e dai suoi uomini attivi nella magistratura e nella polizia, uno “stato parallelo” rinforzato dal braccio mediatico del movimento, all’interno del quale si trovano il quotidiano Zaman e il gruppo Samanyolu. Per l’opposizione, invece, l’esecutivo, sta cercando di far passare in sordina i malaffari in cui è coinvolto.
Per arginare l’impatto delle retate del 17 e 25 dicembre 2013, l’esecutivo turco ha trasferito e rimosso centinaia di magistrati e ufficiali della polizia, approvando inoltre diverse leggi per cambiare la struttura del sistema giudiziario. Il caso è oramai archiviato e si attende solo l’esito dell’inchiesta condotta da un’apposita commissione parlamentare sulla quale – tra l’altro – è stato imposto il silenzio stampa. Nel frattempo, il fronte avversario – identificato dai più con il movimento di Gülen – ha pubblicato su internet dei file audio che hanno esteso oltre misura le accuse di corruzione rivolte al presidente – già premier – Tayyip Erdoğan, ai suoi familiari, ai politici dell’AKP e a numerosi uomini d’affari vicini al governo.
L’operazione del 14 dicembre rappresenta l’ennesimo atto di questa guerra. Dopo le ultime rinnovate vittorie elettorali (marzo e agosto 2014) un Erdoğan sempre più minaccioso aveva ribadito che ben presto i “complottatori” sarebbero stati “stanati”. Il 15 dicembre il quotidiano Star, uno dei giornali pro-governativi, ha ripreso quell’espressione titolando in prima pagina: “Sono stati stanati”, mentre la rete pubblica TRT, finanziata con i contributi dei cittadini, mandava in onda un programma tutt’altro che imparziale: un servizio speciale sul “Tentato golpe del 17-25 dicembre”, dove si chiedeva agli spettatori di esprimere la propria opinione su Twitter utilizzando l’hashtag #EdenBulur, traducibile come “chi la fa l’aspetti”.
Giornalisti in carcere
L’accusa rivolta ai sospettati (cinque giornalisti, nove tra sceneggiatori, direttori e produttori di serie televisive e 16 ufficiali delle forze dell’ordine) sarebbe partita da una lettera, in cui si scrive che tale Mehmet Doğan, leader di una confraternita (chiamata “Tahşiye”) rivale di quella di Gülen, e altri membri della stessa, sono stati arrestati ingiustamente nel 2010 con l’accusa di avere simpatie per al-Qaida. Secondo la denuncia, i gülenisti avrebbero prodotto delle prove false per incriminarli mentre, attraverso serie televisive andate in onda su Samanyolu TV e articoli comparsi su Zaman, avrebbero condotto una propaganda diffamatoria nei loro confronti. Ma secondo quanto riporta la stampa locale, i sospettati sarebbero stati fermati con l’accusa di aver “costituito una organizzazione esercitando pressioni, intimidazioni e minacce per prendere il controllo dello Stato della Repubblica della Turchia”.
Mentre 18 indagati su 30 sono stati rilasciati nei giorni scorsi, i giornalisti Dumanlı, Karaca e 10 ufficiali delle forze dell’ordine sono stati chiamati a comparire in tribunale. L’avvocato del giornalista ha detto che il suo assistito sarebbe accusato di “far parte di un’organizzazione t[]istica armata, di calunnia e di essere una minaccia per la libertà”.
Un commento a caldo alle dichiarazioni del legale di Dumanlı è arrivato ieri da Etyen Mahçupyan, consigliere del premier Ahmet Davutoğlu ed ex opinionista di Zaman, secondo il quale “accuse di t[]ismo armato contro Karaca e Dumanlı non hanno molto senso. Forse ci sono cose che sa il procuratore e che a noi sfuggono, ma se la questione è circoscritta solo al caso della confraternita Taşhiye, sappiamo già di cosa si tratta”.
L’intero quadro risulta confuso e poco chiaro anche perché una legge approvata giusto una settimana fa, limita ai legali la possibilità di visionare i testi di accusa dei loro assistiti. Una “novità” che va ad aggiungersi al potere attribuito alla polizia, anche questo solo da un paio di settimane fa, di effettuare perquisizioni, fermi e sequestri di beni sulla base di un “ragionevole sospetto” e non più di “prove concrete e oggettive”.
Le reazioni locali e internazionali
Gli arresti dei giornalisti hanno sollevato aspre critiche da parte della comunità internazionale, oltre che dalle organizzazioni di stampa come Freedom House e Reporters sans Frontières. L’Alto Rappresentante per la politica estera dell’UE Federica Mogherini ed il Commissario per la politica di vicinato Johannes Hahn hanno dichiarato che “le operazioni vanno contro i valori europei e gli standard a cui la Turchia aspira”, mentre il Commissario per i diritti umani del Consiglio europeo Nils Muižnieks ha affermato che gli ultimi arresti rappresentano una “retrocessione per la libertà di stampa del paese”, aggiungendo che “a prescindere dalle motivazioni che possono averli causati sono sproporzionate e non necessarie in una democrazia” e “possono inoltre creare ulteriori polarizzazioni nella società”.
Erdoğan, che ha commentato le operazioni con espressioni quali “chi prende posizione viene eliminato” e “sta pagando”, ha ribattuto seccamente alle osservazioni dei rappresentanti europei, sostenendo che l’Unione ha “oltrepassato i limiti”. “Non stiamo a pensare a quello che dirà l’Unione europea, se ci accetterà o meno. Non abbiamo simili problemi”, ha detto il presidente, le cui affermazioni hanno messo in forse la sua visita a Bruxelles prevista per il prossimo gennaio con il premier Ahmet Davutoğlu.
Numerose voci a favore dei detenuti si sono sentite anche in Turchia: quelle dei politici dell’opposizione, ma anche di molti giornalisti che si collocano al di fuori dei circoli del governo e del movimento di Gülen. Negli anni dell’AKP le retate della polizia con conseguente arresto di decine di “sospettati” – del movimento politico curdo, della sinistra, kemalisti e militari – tra cui spicca un notevole numero di giornalisti, accusati comunemente “di azione t[]istica” o di “aver ordito un golpe contro il governo”, sono stati spesso all’ordine del giorno. La differenza è che questa volta a essere accusato c’è un vecchio alleato dello stesso AKP. Un alleato grazie al quale sono stati avviati numerosi processi – Ergenekon, Balyoz, KCK, Oda TV e altri ancora – in cui sono state processate centinaia di persone che sono finite in carcere per lunghi anni.
Esemplare il caso del giornalista investigativo Ahmet Şık che nel 2011 fu incarcerato per oltre un anno, proprio a causa di un libro incompiuto sulle influenze del movimento di Gülen nella polizia. “Ciò che sta sperimentando oggi la Confraternita di Gülen, che era tra i potenti del fascismo che imperava qualche anno fa, è sempre fascismo. Combattere il fascismo è virtù”, ha scritto Şık su Twitter, ricevendo ringraziamenti da parte dei giornalisti di Zaman.
Altri, invece, come Soner Yalçın, che fu imprigionato per la stessa inchiesta di Şık, non la pensano allo stesso modo. “Scusate ma io non riesco a prendere le parti di Ekrem Dumanlı”, ha detto ieri in un’intervista rilasciata ad Aslı Aydıntaşbaş di Milliyet, “anche se ciò che interessa a noi è soprattutto quello che ha fatto la polizia. Io parlo di un grande complotto. Chi mi ha messo in carcere? Io posso difendere la confraternita di Fethullah Gülen per quanto riguarda il diritto ad esercitare la sua fede. Ma lui ha voluto prendere il controllo dello stato. Non lo vedete ancora? Io non sto prendendo le parti del governo. Noi abbiamo sempre lottato per la libertà della stampa e la democrazia e continueremo a lottare. Ma [i gülenisti] hanno annientato la vita delle persone. Il responsabile di questi grandi dolori deve essere processato da un giudice. Questo dobbiamo pretenderlo”.