(Intervista originariamente pubblicata da www.seemo.org)
Vladimir Mitrić è un giornalista di Loznica, Serbia. Ha lavorato per diversi giornali, tra i quali Glas Podrinja e Loznike novine, ed è il corrispondente del quotidiano belgradese Većernje novosti. Ha ottenuto nel corso della sua carriera numerosi riconoscimenti giornalistici. Il suo lavoro è principalmente focalizzato sulle inchieste giornalistiche relative al traffico di droga e di esseri umani, ai crimini di guerra nonché al coinvolgimento delle istituzioni serbe e bosniache in reti criminali.
Lei vive sotto scorta. Ci potrebbe spiegare per quali motivi?
Mi è stata assegnata dal tribunale – e non dalla polizia – su mia esplicita richiesta. Questo è un elemento da tenere in considerazione. Il 12 settembre 2005 sono stato aggredito davanti al palazzo dove abitavo, mentre il bar situato a pochi metri di distanza era pieno di clienti, tra i quali alcuni agenti di polizia fuori servizio.
In seguito ho saputo che il mio aggressore era un poliziotto del Distretto di Novi Beograd (un quartiere della capitale, ndr). L’aggressione che ho subito è stata molto simile a quella durante la quale è stato ucciso il nostro collega Milan Pantić a Jagodina. Sono semplicemente stato più fortunato, e magari più accorto. Il primo colpo di mazza da baseball era destinato alla nuca, ma ho fatto un passo avanti ed è finito sulla mia schiena. Poi mi sono girato cercando di proteggere la testa con le mani, e mi è stato spezzato un braccio. Sono caduto a terra, gridando aiuto, mentre il mio aggressore, dopo avermi dato un’altra ventina di forti colpi se ne è semplicemente andato via.
Nessuno dei poliziotti seduti a pochi metri di distanza si è premurato di aiutarmi o di avvicinarmi dopo l’attacco. L’allora capo della polizia, Slaviša Mitrović ha ammesso durante il processo che ne è seguito che la mia richiesta di aiuto dopo l’attacco è stata ignorata dai poliziotti.
In quel periodo ero impegnato nello scrivere, come ho continuato a fare in tutti questi anni, sul traffico di esseri umani alla frontiera tra Serbia e Bosnia, sull’abuso delle risorse naturali del fiume Drina, su crimini economici, traffico di droga, legami illeciti tra alcuni personaggi e istituzioni statali e molto altro.
Ho inoltre fatto emergere col mio lavoro che Loznica è la città natale degli assassini del criminale di guerra Željko Ražnatović Arkan e del politico Ivan Stambolić. Ho scritto di coloro i quali si sono arricchiti comprando illegalmente imprese e aziende, lasciando i lavoratori senza più niente, e inoltre sul traffico di macchine e droga lungo il fiume Drina.
Ho scritto, e lo faccio tutt’ora, di profittatori di guerra, tycoon, assassini protetti dai rappresentanti delle istituzioni statali, nonché del fatto che la situazione sta continuamente peggiorando.
Lei ha avuto dei problemi con la scorta della polizia. Non le è stata accordata fin da subito. Per quali ragioni?
All’inizio la protezione offertami era informale, nel senso che gli agenti di polizia erano liberi di scegliere se presentarsi o meno davanti al palazzo dove abitavo, e questa situazione mi ha costretto a rimanere chiuso in casa a lungo.
Recentemente sono venuto a sapere da Slaviša Spasojević, a capo del Distretto di polizia di Šabac, dei problemi che ha avuto nel “convincere” gli agenti di Loznica ad assicurarmi protezione. L’ostruzione alle indagini sull’aggressione che ho subito venivano da Belgrado, soprattutto quando si trattava di arrestare l’aggressore, poiché era un poliziotto. Anche quando finalmente mi hanno assegnato la protezione, dovevo sempre essere a casa prima del buio perché la scorta funzionava sul principio “ora ci vedi, ora non più”.
La situazione è cambiata dopo la destituzione dell’allora capo locale della polizia, arrestato per traffico di essere umani e di droga e furti organizzati a Loznica e Krupanj. Nel frattempo, gli organi competenti si sono resi conto della gravità della mia condizione e, di conseguenza, è migliorata anche la qualità della protezione assegnatami.
Un altro problema che ho dovuto affrontare è stato l’antagonismo del pubblico ministero che dopo quell’attacco aveva dichiarato “Se solo fosse morto”, e questa frase è stata citata in molti articoli sul caso. Quasi otto anni dopo l’attacco, il poliziotto aggressore è stato punito con la reclusione di un anno, scontati effettivamente in carcere solo parzialmente. L’attacco non è mai stato qualificato come tentato omicidio, nonostante indubbiamente lo fosse a mio parere e quello dei medici legali che hanno esaminato le mie ferite.
Un intero stipendio è finito nelle spese del processo penale, mentre l’aggressore non mi ha ricompensato dei danni subiti in nessun modo. Tra giornalisti e criminali, alcune istituzioni statali ancora favoriscono questi ultimi.
Il fatto di dover vivere sotto scorta ha influito in qualche modo sulla sua vita o quella della sua famiglia?
Certamente, sono cambiate molte cose. Innanzitutto, non ho più una vita privata normale. Ogni volta, quando devo andare a Belgrado o persino nella vicina città di Valjevo, rischio la vita perché la protezione che mi è stata assegnata non viene attuata fuori dal distretto di Šabac.
Tali condizioni sono state stabilite durante il mandato del precedente pubblico ministero e in seguito non sono state più cambiate. Le persone, anche i parenti vicini, sono diventate più riservate nei miei confronti dato che la polizia dovrebbe, almeno indirettamente, controllare anche loro in qualche modo. La mia macchina è stata distrutta tre volte, in pieno centro cittadino, ma non sono mai riuscito ad ottenere alcuna informazione riguardo all’avanzamento dell’indagine, sempre ve ne sia una. Alcuni poliziotti hanno persino testimoniato contro di me, mentendo per proteggere il loro collega che mi ha aggredito.
Quale consiglio si sente di dare ai giornalisti che vivono la sua stessa esperienza? Cosa dovrebbero fare?
La cosa più importante è non tacere quello che si vive, parlarne quanto più e quando possibile. Si deve poi assolutamente contattare SEEMO e altre organizzazioni simili. Si deve scrivere, documentare ciò che accade, avere le prove su tutto ciò che viene detto e scritto. Perché le cose prive di traccia o documentazione sono anche prive di argomenti.
Si deve inoltre insistere con le istituzioni competenti affinché vengano inviate indagini e ricordare loro, in forma scritta, quello che è avvenuto. Si deve parlare di tutto quanto si sta subendo, senza pudori o troppo orgoglio, perché è proprio questo che l’altra parte si aspetta. È importante contattare immediatamente degli avvocati e non pensare nemmeno un momento di abbandonare la professione. Si deve dimostrare a tutti l’intenzione di continuare a fare il proprio lavoro con ancora più passione e voglia di verità.
Le reazioni di SEEMO hanno avuto qualche effetto sul suo caso?
Ho avuto il sostegno di SEEMO fin dall’inizio, a cominciare dalle lettere aperte indirizzate a Vojislav Koštunica e Dragan Jočić, all’epoca rispettivamente primo ministro e ministro dell’Interno. Non ci aspettavamo che loro facessero qualcosa, speravamo solo che la situazione non peggiorasse.
Un anno fa, Vladimir Božović, allora vice ministro dell’Interno, mi ha raccontato che il ministro lo rimproverò per avermi fatto visita dopo l’attacco, in quanto sarei stato “un traditore, nemico e spia”.
Inoltre, SEEMO ha reagito in diverse situazioni in merito alla scorta della polizia assegnatami, e mi ha invitato a numerose conferenze, anche come relatore. SEEMO è stata un’importante fonte di sostegno, aiuto e consolazione di cui avevo bisogno nel periodo degli attacchi.