Isak Samokovlija, narratore in camice bianco

Quest’anno ricorrono i sessant’anni dalla scomparsa di Isak Samokovlija (1889-1955), scrittore e drammaturgo, uno dei sefarditi sarajevesi sopravvissuti al pogrom nella Seconda guerra mondiale

10/02/2015, Božidar Stanišić -

Isak-Samokovlija-narratore-in-camice-bianco

Isak Samokovlija - Samuel il facchino

Nella genealogia della famiglia di Isak, realizzata da sua figlia Mirjana Samokovlija-Vujošević, con l’aiuto dello zio Haim e del cugino Marcel, sta scritto che il loro primo cognome fu Baruh, in ebraico benedetti, ovvero unti con l’olio sacro del Beth Hamikdash.

“Il cognome Baruh – si legge nella genealogia – si riscontra oggi giorno in tutto il mondo… Nel 1492, a seguito dell’espulsione dalla Spagna, gli ebrei furono costretti a cercare una nuova patria. Avendo viaggiato lungo la costa nord dell’Africa, attraverso Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Turchia e Grecia, la famiglia Baruh giunse in Bulgaria e decise di fermarsi nella città di Samokovo… All’epoca, i paesi attraversati facevano parte dell’Impero Ottomano e i Baruh non riscontrarono grandi difficoltà nel passare le frontiere. Spinti dalle condizioni di vita sempre più difficili, i due fratelli Baruh, dediti al commercio, decisero di tentare la fortuna a ovest. Da Samokovo, attraversando la Serbia, all’incirca nel 1860 arrivarono in Bosnia, nella città di Travnik. Trascorsi un paio di giorni, facendo conoscenza con i giovani ebrei della città, i due sconosciuti, di bella statura e dall’aspetto serio, suscitarono la curiosità di molti. Quando dissero che erano arrivati dalla piccola città di Samokovo in Bulgaria, li soprannominarono i Samokovlija. Uno dei fratelli decise di mantenere il cognome Baruh, mentre l’altro divenne Samokovlija. I due, naturalmente, rimasero legati da stretti rapporti familiari…".

Secondo quanto documentato da Mirjana, i Samokovlija, dover aver vissuto a Travnik e Čajniče, si stabilirono a Goražde, una piccola città sulla Drina. I nonni dello scrittore, Isak e Lea, ebbero sette figli: Bohor, Mošo, Avram, Jakob, Sara, Ora e Mirjam.

La vita e l’opera

Il figlio primogenito di Mošo, nato il 3 settembre 1889, venne chiamato Isak, dal nome di suo nonno, e ebbe quattro fratelli e una sorella: Baruh, Haim, Jakob, Leon e Mirjam. Mirjam morì ancora bambina a Goražde, mentre Baruh e Leon furono vittime dei campi di concentramento nella Seconda guerra mondiale.

All’età di sei anni, i genitori mandarono Isak a Sarajevo, dai nonni materni nel quartiere di Bjelave. Quello fu il suo primo incontro con la città e le persone che in seguito diventeranno protagoniste delle sue opere. Dopo tre anni trascorsi dai nonni, tornò a Goražde dove finì la scuola elementare, ma già nel 1902, insieme alla madre, ai fratelli e al nonno paterno, si trasferì a Sarajevo. Nello stesso anno iniziò a frequentare il liceo classico e riuscì a concludere il percorso di studi, della durata di otto anni, con il massimo dei voti1.

Nel 1910 il giovane Isak, da borsista della società culturale “La Benevolencija“, lasciò Sarajevo per studiare medicina a Vienna. Nella capitale dell’Impero, durante un ballo conobbe la giovane Hedda Brunner, sua futura moglie, mandata a Vienna perché imparasse il mestiere di sarta.

Dopo la Grande Guerra, Isak lavorò come medico a Goražde e Fojnica, e dal 1925 nell’ospedale di Koševo a Sarajevo. Il suo esordio letterario avvenne nel 1927 con il racconto “Rafina avlija“ (Il cortile di Rafo), e già l’anno seguente aderì al “Gruppo degli scrittori sarajevesi“2.

Questo primo racconto preannunciò lo scrittore Samokovlija, immerso nel narrare la povertà dei quartieri sefarditi di Sarajevo e ostinato nel rigettare la plurisecolare tradizione linguistica del suo popolo, scrivendo in serbocroato. Ivo Andrić sostenne che Samokovlija “entrò nella nostra letteratura… come uno scrittore compiuto, come se il suo posto fosse stato preparato da tempo e avesse aspettato solo lui“. Meša Selimović riteneva Samokovlija, insieme ad Andrić, il miglior narratore bosniaco.

Nel periodo tra le due guerre, i dibattiti pubblicati sul giornale “Jevrejski život“ (La vita ebraica) ebbero un ruolo particolarmente importante nell’avvicinamento della comunità ebraica alla cultura serbo-croata. Samokovlija sosteneva che “la poesia ebraica spagnola fosse praticamente morta“, e che nessun genio fosse in grado di rivitalizzare una matrice culturale staccata dalle proprie radici. Questa osservazione dell’autore del libro di racconti “Od proljeća do proljeća“ (Da primavera a primavera) 1929, non passò senza contestazioni da parte del milieu sefardita conservatore, al quale lo scrittore rispose qualche anno dopo in forma del dramma “Plava Jevrejka“ (“L’ebrea dai capelli biondi“). Samokovlija fondò l’intreccio di quest’opera, nella quale echeggia il dramma secolare delle divisioni religiose e culturali, sull’amore tra un’ebrea e un serbo.

“Il mio Samokovlija”

Molto, molto tempo addietro, nel libro di lettura della prima media lessi un racconto di Samokovlija, “Mirjamina kosa” (I capelli di Mirjam), semplice ma profondo, su una ragazza Mirjam, che non aveva i capelli scuri – quali avrebbero dovuto avere tutti i bambini sefarditi – ma invece biondi. “La picchiavano, tiravano per i capelli, gettandole addosso fango e polvere”, ma lei non si difendeva dai coetanei maneschi e insensibili, tra cui si distingueva un certo Avram. Non riusciva a difendersi neanche dai soprannomi – crucca, capra gialla. Con l’avanzare del racconto, Mirjam si ammala e i suoi capelli iniziano a cadere, mentre lei continua a sperare che ne cresceranno di nuovi, scuri. Ricordo ancora – alcune delle mie compagne di classe sopraffatte dalle lacrime, che fecero ridere uno di noi ragazzi, un Avram di classe.

Più tardi, negli anni settanta, durante lo spettacolo “Samuel il facchino” 3, adattamento teatrale di due racconti di Samokovlija, sentii di nuovo l’importanza di quel legame magico che si crea tra spettatori e palcoscenico. Un silenzio assoluto si diffuse quando Jakov il Fulvo gettò un sacco di ducati sul petto di Samuel. Bastava che il facchino allungasse la mano per poter realizzare il proprio sogno – una bottega tutta sua e… Addio, ceste pesanti! Addio, viuzze ripide di Bjelava! Ma all’improvviso gli parve che in quel momento si sarebbe spenta una di quelle lampade appese al muro. Il facchino disse allora: “Prendo Saruča, nuda e scalza!”. Nei primi tempi della loro vita comune sua moglie Saruča sentiva il peso di non aver portato al loro matrimonio alcuna dote. Se poi qualcuno vuol scoprire come va a finire, e anche molto altro, potrà leggere l’edizione italiana dei racconti di Samokovlija.

Da professore, in Bosnia, discutevo volentieri con i miei studenti anche di questo racconto. Alcuni tra loro sostenevano che Samuel fosse sciocco – quando i soldi stanno sul tavolo, davanti a noi, bisogna prenderli. Ma questo sarebbe oggetto di una discussione sui rapporti e pensieri umani dai tempi di Adamo fino ad oggi. E mi fermo qui.

Gli amici intimi di Isak Samokovlija credono che il realismo moderno della sua narrativa non sarebbe stato possibile senza il suo impegno come medico. Entrando nelle umili case sefardite, penetrava nella vita dei suoi futuri personaggi: lavandaie, facchini, calzolai, lattonieri… Nel corso di un tale apprendimento sul mondo e sulle persone, si rese conto della visione semplice che gli ultimi avevano della vita – visione nella quale la speranza e la gioia danno senso all’esistenza. Così il suo Hajmačo vive per “due – tre gioie, semplici e piccole”, Saruča per il giorno in cui riceverà la proposta di matrimonio, mentre Rafo si emoziona quando prima di morire riesce a vedere e odorare i dolci, pur sapendo che non può mangiarli.  

Samokovlija e il pogrom degli ebrei sarajevesi

Allo sterminio degli ebrei nell’NDH (Stato Indipendente di Croazia) Samokovlija sopravvisse per miracolo. Fu salvato da un’epidemia di tifo diffusasi a Sarajevo. I medici erano pochi e c’era bisogno anche di quelli appartenenti alla ”razza inferiore”. Tuttavia, nemmeno la sua professione bastò a salvarlo dall’imprigionamento nel campo di concentramento di Alipašino Polje, periferia di Sarajevo.

In qualche modo riuscì a scappare, ma i suoi racconti postbellici rimasero segnati dal dramma di un ebreo sopravvissuto4, raccontato da Davoka, alter ego dell’autore, in maniera particolarmente ingegnosa nel ”Davokina priča o Jahielovoj pobuni” (”Racconto di Davoka sulla rivolta di Jahiel”). Questo lungo racconto è focalizzato sul problema dell’umiltà secolare dell’essere sefardita. Isak parte dal narrare la rivolta di Jahiel che si rifiuta di sposare la donna consigliatagli dal rabbino. Pian piano  emerge in primo piano un’altra storia, quella di Streja, una ragazza che non si è consegnata nelle mani degli ustascia.

Streja (Stella), il cui nome di battaglia, non per caso, fu Jahiela, morì come infermiera nel battaglione comandato da Oskar Danon5.

Un ricordo dello scrittore e un’altra cosa

La figlia di Isak, Mirijana, raccontandoci con molta vivacità del padre (che scriveva la sera, senza togliersi il camice bianco) ci fa entrare, con l’immaginazione, anche nel suo studio. Emerge da questa descrizione un dettaglio, del tutto metaforico: “Sulla parte sinistra della scrivania, poggiata su un cubo di marmo, stava una statuetta di un minatore con lampada in mano. Sulla parte destra, un vaso di fiori sempre freschi, curati con molta attenzione da nostra madre”.

Lascio il significato di quel minatore con la sua lampada e dei fiori che lo scrittore coltivava con tanta gioia nel giardino della sua casa, all’immaginazione e alla sensibilità del lettore di questo breve ricordo di Samokovlija e della sua opera.

E l’”altra cosa”? ”Plava Jevrejka” di Samokovlija è attualmente in scena al Centro di cultura e arte ebraica di Belgrado, per la regia di Stefan Sablić, con Srđan Timarov, Vanja Ejdus e Tanja Pjevac come interpreti. Uno spettacolo sull’amore tra una ragazza ebrea e un giovane serbo, nel quale la musica, pensata come parte integrante del filo drammaturgico (e interpretata dal gruppo “Šira u’tfila”, con Vlada Savić come ospite), fa coesistere il sevdah bosniaco col canto sefardita. L’annuncio dello spettacolo è del tutto laconico: “Questo dramma ha trovato il suo spazio nel nostro tempo perché parla di differenza, angustia e intolleranza delle religioni e nazioni”.  

 

Note:

[1

] Tra più di cento documenti esposti nella mostra “Isak Samokovlija: etica della cura dell’altro“ (allestita lo scorso gennaio al Museo della letteratura e dell’arte teatrale della Bosnia Erzegovina e pensata per ripercorrere la sua adolescenza, gli anni viennesi e l’impegno medico durante la Seconda guerra mondiale), uno era sconosciuto fino a quel momento. Si tratta della sua supplica al governo della Provincia imperiale di Bosnia Erzegovina: “Illustre governo! Il sottoscritto chiede umilmente di essere esonerato dal versamento delle tasse scolastiche per le seguenti ragioni: 1) come dimostrato dall’attestato allegato A, ho superato l’ultimo semestre con il massimo dei voti e il mio comportamento è stato valutato lodevole 2) i miei genitori non sono in grado di sostenere le tasse dato che non percepiscono nessun reditto (documento allegato B) 3) il sottoscritto si impegna a proseguire nel buon comportamento e studio per giustificare la grazia concessagli."

[2

] Questo gruppo (Jovan Kršić, Marcel Šnajder, Ognjen Prica, Isak Samokovlija e altri) fu considerato la generazione d’oro della letteratura bosniaca. Tornati dagli studi nelle metropoli europee, si impegnarono nella metamorfosi di un ambiente economico-culturale arretrato e nel suo avvicinamento alle tendenze dell’Europa moderna. Organizzavano conferenze e mostre, pubblicavano libri e giornali (tra i quali si contraddistinse per importanza la rivista “Pregled“).

[3

] Le sue opere hanno ispirato diverse produzioni televisive (Plava Jevrejka, Ženidba nosača Samuela, Simha i Ratni hljebovi) ma il più noto rimane film “Hanka“, realizzato nel 1955 dal regista Slavko Vorkapić (con Vera Gregović, Jovan Miličević, Mihajlo Mrvaljević e Mira Stupica come interpreti) come un adattamento dell’omonimo dramma di Samokovlija e una delle rare opere cinematografiche di quel periodo non appesantite dalla tematica bellica (nel 1956 fu scelto per rappresentare la Jugoslavia al Festival di Cannes).

[4

] Di tutti gli ebrei bosniaci (all’epoca si contavano 16 mila), il 75 per cento viveva a Sarajevo e più di 3500 di loro furono vittime dei numerosi lager (“Danica“ nei pressi di Koprivnica, Gospić, Kruščica, isola di Pag, Jadovno, Jasenovac, Stara Gradiška, Djakovo, Laborgrad, Auschwitz, Bergen-Belsen).

[5

] Il nome partigiano del noto compositore jugoslavo Oskar Danon (Sarajevo, 1913-Belgrado, 2009) fu Jovo Cigo.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta