Ucraina: gli ultimi russi di Leopoli
I russi di Leopoli, città dell’ovest ucraino, sono sempre meno. Molti di loro si mimetizzano, sentendo la pressione della guerra nelle regioni del Donbass. Ma c’è chi cerca di tutelare alcune specificità storiche e culturali. Un reportage
Albert Viktorovich Astakhov inganna il tempo leggendo e si scalda come può. Una piccola stufa elettrica nell’angolo vicino alla scrivania riesce a malapena a non farlo gelare. Appeso alla porta c’è un termometro, segna otto gradi. Il centro culturale russo di Leopoli non se la passa bene. L’auditorium è buio e umido, così come la biblioteca, e di visitatori non c’è traccia. Nella penombra, una statua di Pushkin, il poeta russo per eccellenza, raccoglie polvere e ragnatele. “Risparmiamo sul gas”, dice Astakhov. “Non prendiamo un soldo da nessuno, né dalle istituzioni ucraine né dalla Russia. Finanziamo tutte le attività con i soldi della comunità. E dobbiamo fare economia”.
Profondo ovest dell’Ucraina, questo è un avamposto russo nella più ucraina tra le città ucraine. La città che ha fatto una statua a Stepan Bandera, un eroe qui, un criminale 800 chilometri più a est. Il centro culturale si trova dove prima c’era un piccolo cinema di quartiere, un’anonima costruzione in una quieta via alberata, circondato da cadenti edifici liberty, a due passi dal centro storico. Astakhov è uno storico, collezionista di foto della comunità russa di inizi del Ventesimo secolo, ma ora che è in pensione è anche il custode del centro.
“Abbiamo subito diversi attacchi dai nazionalisti”, dice mostrando segni di scasso sulla porta d’ingresso. “Non ce l’hanno fatta a entrare da qui, ma sono riusciti comunque a salire dalla finestra del secondo piano e dar fuoco alla biblioteca. Non era grandissima, avevamo circa 8mila libri, ma era una delle più grandi di opere in lingua russa di tutta l’Ucraina”. La sala ora è quasi priva di libri e sul soffitto i segni delle fiamme.
La storia degli attacchi al centro Pushkin non comincia oggi, né con la rivoluzione della Maidan. Già all’indomani dell’indipendenza, negli anni ’90, la sede dell’associazione fu vandalizzata in più occasioni. E anche durante la Rivoluzione arancione comparvero dalla sera alla mattina alcune svastiche a spray sulla facciata.
Una comunità che va scomparendo
A Leopoli, negli anni immediatamente precedenti alla caduta dell’Urss, abitavano circa 200mila russofoni, di cui oltre la metà di etnia russa. Dopo le ondate migratorie degli anni ’90, la comunità è ridotta a poche decine di migliaia di persone, su una popolazione totale di circa 700mila abitanti. Ed è anche difficile dire con precisione quanti siano, perché l’ultimo censimento risale a 15 anni fa e, nel frattempo, altri potrebbero essersene andati. Inoltre, le giovani generazioni faticano a identificarsi in una netta appartenenza etnica. “Non hanno molta voglia di affrontare l’argomento”, dice Astakhov. “C’è troppa ideologia attorno a tutto questo, e dove c’è ideologia non c’è dialogo. Mia figlia, per esempio, lavora. Evita attentamente questi argomenti in pubblico. Non si sa mai cosa potrebbe accadere. Potrebbe anche perdere il posto”.
Finora, al di là degli sporadici atti vandalici contro il centro Pushkin, le cronache non riferiscono di discriminazioni contro i russi di Leopoli, e le paure di Astakhov non sembrano supportate dai fatti. È però vero che la guerra che si combatte nell’est del paese ha esacerbato gli animi e un palpabile sentimento antirusso – anche se marcatamente in chiave antiputiniana – si sta facendo strada tra la gente di Leopoli.
Molti soldati che combattono al fronte provengono da queste parti. I racconti dei reduci – e le bare che tornano a casa – non fanno venire voglia di dialogare. In più, va ricordato che Leopoli è anche tradizionalmente una roccaforte dei nazionalisti, delle organizzazioni estremiste Una e Unso e dei partiti di estrema destra Pravy Sektor e Svoboda. Tutte forze molto ridimensionate dalle ultime elezioni, ma pur sempre presenti. “Come ci sentiamo noi russi qui? Be’, quando ogni giorno leggi sui muri della città scritte russofobe, non ti fa piacere”.
Il memoriale della discordia
Astakhov è nato in Russia. La sua famiglia si trasferì qui quando lui era un bambino e l’Unione sovietica un unico paese. La stessa sorte toccata a milioni di altri russi che, con la caduta dell’Urss, si sono trovati stranieri in casa propria dall’oggi al domani. Una diaspora involontaria che a venticinque anni di distanza sta alimentando le tensioni lungo la linea di faglia tra est e ovest. “Io sono cittadino ucraino. C’è scritto così sul mio passaporto. Pago le tasse in Ucraina e rispetto le sue leggi. Ma sono anche russo. Parlo la mia lingua e amo la mia cultura. A Kiev devono capire questo. Se lo stato in cui viviamo non ci tutela, che le paghiamo a fare le tasse? E se i russi in Ucraina smettessero di pagare le tasse tutti insieme? Allora sì, vedi che se ne accorgerebbero”.
I soci del centro Pushkin, in gran parte pensionati, cercano di preservare la memoria della comunità russa di Galizia. Proiezioni di vecchi film e serate di incontri, ma il cartellone è tutt’altro che fitto. Nell’auditorium sono esposte alcune foto della collezione di Astakhov, ma non c’è nessuno a vederle. Quando abbassa la grossa leva dell’interruttore delle luci, una lampadina scoppia in alto. Ne rimangono altre tre.
L’attività forse più importante è però prendersi cura della “collina della Gloria”, il memoriale che custodisce le tombe dei soldati dell’armata Rossa morti qui nel ‘44, all’interno del cimitero monumentale Lychakiv. “Abbiamo restaurato alcune tombe, ma soprattutto facciamo in modo che i vandali non lo colpiscano e che il comune non lo smantelli”.
Una prima decisione di rimuovere il memoriale era stata presa dalle autorità locali agli inizi degli anni ’90, ma poi le pressioni della comunità sono riuscite a evitarlo. Oggi sembra al sicuro, ma chissà per quanto. I soldati seppelliti in quelle tombe, per la gente di qui sono invasori. Ed è troppo facile il collegamento di quei soldati russi con quelli che oggi combattono al fianco dei separatisti in Donbass. È una ferita che si riapre, insieme a tante altre. Come questa guerra che mette dietro due fucili cittadini della stessa nazione. “Mio nipote è in età di leva”, dice Astakhov. “Anche lui, come me è cittadino ucraino. Ed è russo. Che succede se lo mandano in guerra? Deve sparare alla sua gente? Da che parte dovrebbe stare?”
Astakhov non ha risposte alle sue domande. Torna a scaldarsi alla sua scrivania, dietro pile di libri impolverati. Squilla il telefono, ma è qualcuno che ha sbagliato numero. Questa sera al centro non c’è niente in programma. Come ieri e come domani. “Chiudiamo alle cinque”, dice prima di tornare a leggere il suo libro dal punto dove si era interrotto.