L’Albania e l’Europa per Elly Schlein
Nel marzo scorso una delegazione del Parlamento europeo ha reso visita all’Albania. Vicepresidente della spedizione era l’italiana Elly Schlein. Con lei abbiamo parlato d’Europa, di Albania, di politiche migratorie e della Grecia di Tsipras
Classe 1985, nata a Lugano da famiglia italo-americana, Elly Schlein esordisce nella politica nazionale in reazione alla «cocente delusione» delle politiche del 2013. Dopo l’esperienza di #OccupyPD e la battaglia congressuale al fianco di Pippo Civati, lo scorso maggio accetta con qualche esitazione di candidarsi all’Europarlamento. Davanti a lei, in lista, ci sono illustri e navigati esponenti del PD emiliano: ma per le europee la legge elettorale contempla le preferenze, e a seguito di una campagna condotta «a piedi per l’Europa» il nord-est la spedisce a Bruxelles con più di 53.000 consensi personali.
Oggi Elly vive in affitto in Belgio, ma non ha lasciato la sua tana studentesca a Bologna, dove continua a fare base nei weekend; ha quattro indirizzi mail istituzionali, ma non ha smesso di rispondere dal suo gmail di dominio pubblico; ha un’agenda fitta di impegni internazionali, ma a quanto pare non è capace di dire di no: il suo twitter-alter-ego – la cui frase profilo recita: «salveremo il mondo con un pollo di gomma con carrucola» – è fedele testimone dei suoi spostamenti frenetici, dedicati anche a iniziative minuscole.
Io stesso l’ho intercettata a margine del suo viaggio di delegazione in Albania, grazie a una cenetta organizzata dal micro-circolo PD di Tirana (6 persone in tutto). L’atmosfera era così conviviale da non poterla rovinare con il registratore: «facciamo che per l’intervista ci sentiamo poi, prendi il mio numero», mi ha detto. Qualche giorno dopo l’ho chiamata e per quasi un’ora abbiamo chiacchierato di Europa e di Albania. Ne è uscito quanto segue: un punto di vista europeo e generazionale, in cui carica ideale e spontaneità non vanno mai a discapito della politica.
Che posto occupi a Bruxelles? Facci capire come funziona l’Europarlamento…
Io sono stata eletta nella fila del Partito Democratico, dunque in Europa sono una deputata del Partito Socialista europeo, il secondo partito dopo quello Popolare. Alla pari di quelli nazionali, anche i parlamentari europei lavorano divisi per commissioni. Io sono parte di tre: cooperazione e sviluppo (DEVE); libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE); infine ho la commissione sui diritti delle donne e la parità di genere (FEMM). All’interno della LIBE ci occupiamo di immigrazione: un tema oggi molto caldo che è sempre stato al centro della mia riflessione, fin dagli studi universitari. Ho fortemente voluto essere parte sia della LIBE che della FEMM.
Come funziona la composizione delle commissioni? All’inizio della legislatura ogni deputato sceglie quella che vuole?
Ovviamente no. Ognuno può esprimere le sue preferenze, dopodiché i posti sono attribuiti attraverso un articolato meccanismo che si basa sul metodo d’Hondt proporzionale. Considera che ogni commissione ha al suo interno membri di ogni gruppo politico, in maniera che siano riprodotti in piccolo gli stessi equilibri della plenaria; al momento dell’insediamento si consegnano le proprie preferenze ai capi delegazione – il mio allora era David Sassoli, oggi sarebbe Patrizia Toia – i quali le portano sul tavolo del gruppo: generalmente si cerca di tenerle presente, ma non è detto che ciò avvenga, dipende anche dalle competenze abbinate alle preferenze espresse. Tieni presente che all’interno del Parlamento europeo il criterio è politico, non nazionale. Le commissioni in tutto sono 22 e ogni socialista siede in almeno due, una da titolare e una da sostituto. Per la terza in cui io siedo, la FEMM, valgono criteri diversi e non è necessario “spendere punteggio” secondo il metodo D’Hondt. Dopodiché ci sono le varie delegazioni per i rapporti interparlamentari: io sono vicepresidente della Delegazione alla Commissione parlamentare di Stabilizzazione e Associazione Ue-Albania.
Per chi, come te, crede nella “politica dal basso”, com’è ritrovarsi al più alto livello della rappresentanza? Essere al vertice della piramide può anche essere frustrante…
Una buona dose di frustrazione c’è nella misura in cui, mentre lavori in Europa per l’Europa, vedi montare intorno a te l’euroscetticismo. Il problema è che il nostro lavoro è poco conosciuto, e a livello nazionale molto spesso si tende a sottovalutarlo. Attenzione, non in tutti gli Stati membri è uguale, l’Italia su questo dovrebbe certamente migliorarsi: nel nostro paese tendiamo a parlare di Europa solo sotto elezioni, e poi forse nemmeno.
Tuttavia, anche se lentamente, le cose stanno cambiando. Si comincia ad esempio a comprendere che parlare di Ucraina, Libia o Grecia significa parlare di Europa. Ecco il senso del nostro lavoro: un buon parlamentare europeo è una persona attiva nei due sensi: deve raccogliere quello che gli arriva dal suo territorio e trasmetterlo nelle sfere europee, ma al contempo deve fare il lavoro inverso, riuscendo a portare l’Europa alla sua comunità: c’è tutta una serie di opportunità da cogliere, un’Europa da vivere che a volte rimane sconosciuta. È per questo che nel fine settimana giro come una trottola per l’Italia.
Dici che questa visione ce l’hanno anche i tuoi colleghi? Non mi riferisco solo agli italiani…
Beh, diciamo che chi lavora seriamente tende a frequentare i colleghi motivati. Se ti riferisci alle presenze in aula però devo sfatarti un mito: è fondamentale esserci, ma la presenza fisica durante le sedute non è il solo indicatore dell’impegno di un europarlamentare, è soltanto il dato più facilmente reperibile dal cittadino via web. Buona parte del suo lavoro un europarlamentare lo porta avanti nelle commissioni, nei dibattiti, negli incontri…. Ma quel tipo di attivismo non viene registrato.
A proposito dell’importanza dei corridoi… Diciamoci la verità: la politica europea è a Bruxelles. Tu cosa pensi della sede di Strasburgo? Sei d’accordo con chi sostiene che andrebbe abolita?
La politica c’è anche a Strasburgo; dopodiché buona parte degli eurodeputati, senza distinzione di colore politico, ha aderito alla campagna “single seat”. Chiediamo una sede unica per due ragioni: i costi e l’inquinamento. Quest’ultimo è un problema meno conosciuto ma altrettanto importante: diverse relazioni dello stesso Parlamento europeo hanno dimostrato quanto costi in termini di emissioni di CO2 il trasporto dei parlamentari, dei loro assistenti, ma anche dei materiali e dei documenti.
C’è qualche francese che è al vostro fianco in questa battaglia?
Pochi. Anche se noi sosteniamo la sede unica per ragioni pratiche di principio, non siamo contro un paese o una città – e infatti la nostra proposta di concentramento coinvolge anche la terza sede, quella amministrativa del Lussemburgo. Considera che lo stesso Parlamento si è già espresso più di una volta a favore della sede unica, anche con maggioranze forti, anche durante la nuova legislatura nel corso di una votazione sul bilancio. Ora la palla è al Consiglio, è il solito problema della revisione dei Trattati…
…e del metodo intergovernativo su cui è fondata l’Unione europea! Voi siete parlamentari eletti di un’Unione politica su cui gli Stati conservano ancora un sostanziale potere di veto. È chiaro che un’assemblea eletta da un demos europeo avrà sempre una posizione d’avanguardia rispetto a quella dei governi… Come risolviamo questa contraddizione, se è su di essa che abbiamo fondato la nostra Europa?
Hai toccato la questione fondamentale. Che cos’è l’Europa di oggi rispetto a quella che era nella testa dei padri fondatori e delle madri fondatrici? A mio giudizio è qualcosa di diverso, e lo è perché qualcosa nel processo si è incagliato. È mancato il coraggio di fare davvero l’Europa.
Sui tavoli di Bruxelles i governi sono molto abili a stringersi le mani destre, mentre dietro la schiena incrociano le dita della sinistra. Su troppi temi vige ancora la gelosia delle proprie competenze, non c’è la volontà politica di cedere all’Europa. È il problema della politica estera europea: ogni volta diciamo che l’Europa è debole, ma non siamo disposti a darle i poteri per essere diversa. La battuta di Kissinger, che negli anni Settanta chiedeva scherzando quale fosse il numero di telefono dell’Europa, è ancora oggi valida. Se la Russia alza la voce, non c’è una voce europea a risponderle.
Lo stesso problema vale per le politiche migratorie: dobbiamo ancora capire che chi oggi fugge da teatri di guerra non va verso l’Italia, la Spagna o l’Ungheria, va verso l’Europa. Eppure non abbiamo un reale e palpabile sistema di asilo comune; abbiamo il regolamento di Dublino, un provvedimento ipocrita, perché parte dal presupposto dell’esistenza di un’Europa omogenea dal punto di vista dei tassi di accoglimento e delle domande di asilo; ma le differenze sono profondissime: 6 paesi su 28 non possono accollarsi da soli il 75% delle richieste di asilo. L’articolo 80 del TFUE impone su questi temi la solidarietà, la condivisione della responsabilità. Molto spesso la base giuridica per avere più Europa c’è già: bisogna usarla.
A proposito del ruolo degli stati membri: cosa ci dici del Semestre di Presidenza italiana? Prevalgono le luci o le ombre? Dimmi almeno una cosa che hai apprezzato e una cosa su cui potevamo fare meglio.
Elly qui prende tempo, pensa, sospira: "Sto pensando a cosa mi è piaciuto…". Dopodiché riparte, ed è un fiume in piena. La prima cosa da dire è che non siamo stati fortunati: la nostra Presidenza è caduta nel mezzo all’avvicendamento istituzionale seguito alle elezioni di maggio – tieni conto che la nuova Commissione si è insediata a novembre. Detto questo, in generale ritengo che avremmo dovuto cogliere l’occasione per chiedere con più chiarezza un cambiamento sulle politiche economico-sociali che l’Europa ha portato avanti in questi anni: politiche fallimentari sulle quale urge un ripensamento.
Nello specifico invece ti porto due esempi su cui la stampa nazionale non ha relazionato. Non mi è piaciuto il fatto che non siamo riusciti a portare avanti la direttiva sulla maternità, un pezzo fondamentale per ripensare alla condizione delle donne incinte e lavoratrici in Europa. Abbiamo lasciato cadere il dibattito in Consiglio, e a seguito di questa passività ora anche la Commissione ritirerà il provvedimento, nonostante il Parlamento fosse molto convinto del testo. Ciò detto, si sono registrate anche delle buone notizie: siamo ad esempio riusciti a chiudere la quarta direttiva antiriciclaggio. Non è una direttiva da poco: ci obbligherà a tenere registri centralizzati dei beneficiari finali di tutte le società europee, e ciò riguarderà anche il regime dei trusts. Anche qui va detto che il Parlamento aveva una posizione più avanzata: chiedeva registri pubblici oltre che obbligatori. In questo caso però siamo riusciti a favorire un buon compromesso: i documenti non saranno pubblici ma accessibili incondizionatamente alle autorità fiscali di tutti gli Stati membri, senza che l’entità indagata ne sia informata.
Non solo, ma potrà accedere a queste informazioni anche chi dimostrerà un «legittimo interesse»: si pensi ai giornalisti d’inchiesta, che proprio di recente, contestualmente al caso Lux Leaks, hanno dimostrato l’importanza del loro ruolo. Questa direttiva è un’ottima cosa, una vittoria della trasparenza. E l’ha chiusa in dicembre la Presidenza italiana.
Veniamo all’Albania. Come nasce il tuo legame con il paese?
È un paese che non conosco da sempre, ho imparato ad amarlo attraverso gli occhi di Roland Sejko, il regista di “Anija – la nave”, un film che ho avuto la fortuna di vedere nascere. Si tratta di un documentario che non si limita a raccontare da quale Albania scappavano gli albanesi ma ne segue, a posteriori, il loro percorso in Italia. Che fine hanno fatto quelle persone venti anni dopo? Molti sono ancora in Italia, molti in Albania: quel film racconta un pezzo di storia di entrambi i paesi, un pezzo di storia europea.
Sono atterrata per la prima volta in Albania nel 2011: per le riprese abbiamo viaggiato tra Durazzo, Tirana, Scutari e Valona… Non lo nascondo: la mia grande passione è il cinema; ho sempre voluto fare la regista, dopo l’esperienza politica sono certa che riprenderò questa strada – sono tra quelle che sostengono che non si debba fare politica per tutta la vita. Collaborando con la troupe di Roland ho sviluppato tante amicizie in Albania: è stato il miglior modo per conoscere un paese, i migliori occhi con cui guardarlo.
Da apprendista regista a Vicepresidente della delegazione interparlamentare per l’Albania… Qualche giorno fa la tua delegazione era qui in visita ufficiale. Com’è andata?
Purtroppo fino a quando non mi rivedo con la delegazione non è corretto che rilasci dichiarazioni sugli incontri ufficiali. Posso dirti che ho visitato un paese convintamente indirizzato verso l’Europa: la vocazione europea dell’Albania è forse la più forte di tutta la regione. Almeno su questo si riscontra un consenso unanime all’interno di tutte le forze politiche, speriamo questo possa favorire i progressi sulle priorità.
Ovviamente, essendo un paese candidato, l’Albania è inserita all’interno di tutta una serie di incontri di alto livello che dovrebbero servire all’accelerazione di quelle riforme indispensabili per l’accesso del paese all’Unione. Per modernizzare la struttura dello Stato l’Unione ha individuato cinque grandi priorità: la riforma della pubblica amministrazione, la riforma della giustizia, la lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione e il rispetto e la tutela dei diritti umani.
Ogni quanto tornerete in Albania? Com’è l’accoglienza, l’atmosfera attorno a voi?
Tra parlamenti ci incontriamo minimo ogni sei mesi: una volta in Albania e una volta a Bruxelles. Nell’ambito delle visite di delegazione si incontrano anche membri del governo che ci relazionano sulle riforme che stanno portando avanti. Ma i lavori della commissione di per sé sono lavori interparlamentari: tra membri del Parlamento europeo e membri del parlamento albanese. Anche queste delegazioni sono formate in maniera proporzionale alla composizione del parlamento nazionale. Noi veniamo da amici, unanimemente convinti del processo di adesione dell’Albania, ascoltiamo i progressi fatti sulle cinque priorità e cerchiamo di aiutare come possiamo.
Rispetto alla politica di allargamento cosa pensi della linea della nuova Commissione? Junker ha dichiarato che per cinque anni l’Unione non accoglierà nessun nuovo membro: c’è chi è convinto che il Presidente abbia soltanto dato voce a un dato di fatto, ma siamo sicuri che fosse strategico esplicitarlo?
Beh sicuramente è stata un’affermazione forte, soprattutto se consideriamo che è stata una delle sue prime esternazioni pubbliche. Com’è noto Junker non è il presidente che io avrei voluto, noi come Partito Democratico avevamo appoggiato convintamente la candidatura di Martin Schulz. Per me è normale non essere d’accordo con la linea politica di questa commissione. Ciò detto, al di là delle dichiarazioni, il processo d’integrazione dei paesi balcanici non è in discussione. La discussione è come sempre sui tempi.
Non posso non chiederti cosa pensi della vittoria di Tsipras in Grecia…
Io, rispetto ad altri, chiedo sempre di capire le proporzioni della sfida che la Grecia di Tsipras ci sta ponendo. Abbiamo avuto una crisi finanziaria che si è mangiata l’economia reale: o ci rialziamo tutti insieme o non si capisce come pensiamo di farcela. Altri paesi sono riusciti a riprendersi, si guardi agli Stati Uniti, che sull’occupazione oggi hanno dei dati stupefacenti. Ma oltre oceano si è avuto il coraggio della politica, con manovre espansive e di investimento. Noi, oggi, dobbiamo chiedere un new-deal per l’Europa, e questo io mi sento di farlo insieme al governo greco. Senza rinunciare alla lotta agli sprechi e all’evasione fiscale, dobbiamo fare subito investimenti pubblici su alcuni settori chiave: innovazione, ricerca, economia verde. Ci serve un rilancio economico su un modello di sviluppo sostenibile.
Abbiamo fatto il mercato unico e la moneta unica pensando che il resto seguisse da sé, lasciando 28 sistemi fiscali diversi. Ma davvero possiamo pensare di vivere in un’Europa così? Abbiamo fatto l’Europa per vedere gli stati che competono per accaparrarsi le multinazionali? Per vedere le delocalizzazioni? In questo modo diventa difficile anche solo spiegare il proprio europeismo. Io sono profondamente convinta del fatto che dobbiamo muovere con coraggio verso una più piena integrazione. Dobbiamo riprendere il progetto europeo, farci ispirare dal coraggio delle origini.