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Armenia, 100 anni
Ieri sera a Yerevan sono iniziate le commemorazioni del centenario del genocidio armeno. L’arrivo delle delegazioni internazionali, il concerto dei System of a Down, la speranza del riconoscimento
Immaginate di vivere in un mondo in cui l’Olocausto sia stato negato per cento anni dal paese che ne eredita la responsabilità morale e storica. Immaginate che i sopravvissuti e i loro discendenti abbiano perso ogni diritto su quel paese: le loro case, i luoghi di culto, le proprietà – tutto perduto. Ora, immaginate che molti altri paesi nel mondo portino avanti lo stesso negazionismo, rinnegando la verità della storia per una mera convenienza politica o economica. Purtroppo, non si tratta di fantascienza, ma del mondo in cui viviamo noi tutti, se si considera al posto della Shoah il suo predecessore e l’evento ad essa più prossimo: il genocidio armeno.
Cento rintocchi di campana hanno risuonato ieri in Armenia, a Gerusalemme e in altre città del mondo alle 19:15. Un gesto simbolico, compiuto in religioso silenzio, per ricordare i tragici eventi del 1915. Una tragedia che qui a Yerevan non è parte di un passato lontano, ma un incubo destinato a ripetersi nel corpo e nella mente dei discendenti fino a che la memoria di quelle vittime non troverà pace.
E di pace, in terra d’Armenia, se ne vede ancora pochissima. Piegata da una miseria sempre più feroce e invadente, approdo di migliaia di profughi giunti qui per miracolo dalla Siria, e infine stremata da una guerra – quella per il Nagorno Karabakh – che dopo vent’anni dal cessate il fuoco pare sempre più lontana dal trovare una soluzione, l’Armenia lotta ogni giorno per la sua sopravvivenza. Anche per questo – perché la tragedia è ancora oggi il pane quotidiano di questa gente – il genocidio non pare una cosa remota, qui ai piedi dell’Ararat.
Mentre si susseguono gli arrivi all’aeroporto di Yerevan, dal cantante Charles Aznavour a diversi capi di stato come Putin, Hollande, il presidente serbo e il suo omologo di Cipro, sale l’aspettativa nel cuore di molti cittadini armeni. Che questa sia la volta buona, sembrano dire, che si rompa una volta per tutte l’indifferenza e l’isolamento a cui questa giovane repubblica dal cuore antico pare condannata da un crudele destino.
E allora il simbolo scelto per questa commemorazione, un fiore dal nome simbolico, il non-ti-scordar-di-me, assume quasi una seconda valenza. Un fiore che in questi giorni si vede ovunque a Yerevan, dai cartelloni disseminati nelle strade cittadine, fino alle spille sulle giacche e alle magliette, e finanche sul palco del concerto dove si sono esibiti – la sera del 23 aprile – i System of a Down. Ebbene, questo fiore viola ci invita non solo a meditare sul passato e sulle vittime, ma anche a ricordarci che la tragedia è ancora in corso, e pare lontana dal trovare un epilogo.
Quei cento rintocchi di campana giungevano al termine di un’importante cerimonia tenutasi ieri a Echmiadzin, il centro storico e spirituale della chiesa apostolica armena. Si è trattato del primo degli eventi in programma che marcano fra il 23 e il 24 aprile il culmine del centenario del genocidio. Quanto è avvenuto, alla presenza del presidente della repubblica armena Sargsyan e del catholicos Karekin II, padre spirituale della chiesa apostolica, è stata la canonizzazione del milione e mezzo di vittime del genocidio compiuto un secolo fa. Una cerimonia di due ore e mezza che si è conclusa nel momento in cui, un secolo fa esatto, ebbe inizio il genocidio degli armeni nell’impero ottomano.
Fu proprio nella notte fra il 23 e il 24 aprile del 1915 che il piano di sterminio ordito dai triumviri Mehmed Talaat Pascià, Ahmed Gemal e Ismail Enver iniziò la sua tragica messa in atto. Obiettivo primo di quella notte furono gli intellettuali, i leader politici e spirituali armeni dell’Impero ottomano, arrestati e in seguito deportati, e nella quasi totalità uccisi. A ulteriore testimonianza di un’attenta pianificazione dello sterminio che sarebbe seguito, i Giovani turchi miravano così a soffocare sul nascere ogni possibile resistenza all’attuazione del genocidio.
Dopo la cerimonia di canonizzazione, la commemorazione è proseguita a Yerevan con un altro evento molto sentito dalla gente, e che ha trovato – nonostante la pioggia incessante – una notevole partecipazione di pubblico. Ci riferiamo al concerto dei System of a Down, la band armeno-californiana capitanata da Serj Tankian che si è esibita alle nove nella centralissima piazza della Repubblica.
Un concerto bello e coinvolgente, in cui non sono mancati spunti di riflessione su quel tragico passato e anche sull’attualità politica dell’Armenia. Si è trattata della prima esibizione della band a Yerevan, e per molti nel paese anche del primo grande evento di questo tipo. Che non si trattasse solo di rock’n’roll, è stato reso subito evidente anche dalla maglietta indossata dal batterista John Dolmayan: “Our wounds are still open” (“Le nostre ferite sono ancora aperte”), con chiaro riferimento al mancato riconoscimento del genocidio da parte di paesi quali la Turchia e gli Stati Uniti.
Il culmine emotivo del concerto si è toccato con il discorso dal palco del vocalist Serj Tankian. Un discorso denso e destinato a lasciare il segno, che dimostra ancora una volta l’impegno politico portato avanti su molti fronti dalla band in questi anni.
Dal palco, il vocalist – da sempre impegnato nel dialogo e nella riconciliazione – ha raccontato come sua nonna fu salvata da un turco, e come il governo turco di oggi dovrebbe considerare come eroi uomini come questi. Il nonno, invece, vide a cinque anni la morte del padre, e divenne cieco a causa degli stenti. Dopo un appello alla Turchia e agli USA perché riconoscano come genocidio quanto avvenuto un secolo fa, non è mancata una critica alla Russia e anche al governo di Yerevan, responsabile – a detta di Tankian – per la mancanza di uguaglianza sociale e la continua emigrazione all’estero dei suoi cittadini.
Attorno al palco, gli onnipresenti non-ti-scordar-di-me. E la speranza nostra è proprio questa: che ricordo degli orrori di ieri serva soprattutto, scolpito per sempre nelle nostra memoria, a prevenire quelli di oggi e di domani.