Yerevan, 24 aprile 2015
Centinaia di migliaia di armeni provenienti da ogni parte del mondo hanno camminato fianco a fianco dal centro della capitale al Memoriale di Tsitsernakaberd, per ricordare il centenario del genocidio
Da Teheran a Los Angeles, dal Cairo a Roma, questo 24 aprile ha visto scendere per le strade di molte città del mondo centinaia di migliaia di armeni insieme a quanti hanno a cuore verità e giustizia.
Questo non è un giorno qualunque: in questa data, che è il giorno della memoria per gli armeni, si verificò il primo tragico evento che diede il via all’esecuzione del genocidio armeno nell’allora Impero ottomano. A Istanbul e in altre città dell’impero, alcune centinaia di intellettuali, politici e chierici armeni vennero arrestati di notte e deportati. Destinazione: il nulla, la morte. Nei piani di chi ordì tale crimine, c’era la volontà di privare questo popolo – ben integrato nel tessuto multietnico dell’impero – di ogni capacità di organizzarsi e reagire, prima di procedere al sistematico sradicamento della loro presenza millenaria da queste terre.
Non è neppure un anno qualsiasi: in questo 2015 siamo arrivati a cento anni. Un intero secolo da quel 1915 in cui non furono molti a accorgersi, o a voler vedere, quanto stava avvenendo. Una cosa mai vista fino allora: un genocidio moderno, il piano folle e inaudito di fare di un territorio multietnico uno stato nazione omogeneo e senza eccezioni, rimuovendo ogni minoranza e ogni traccia umana non integrabile in questo assurdo progetto: gli armeni, ma non solo – anche greci e assiri. L’orrore e l’insensatezza del nazionalismo europeo giungevano così ad un primo epilogo, anticipando di pochi decenni la Shoah.
Oggi, a distanza di un secolo, il mondo è un altro, ma rimane lo stesso il silenzio che avvolge quegli eventi. Continua a tacere la Turchia, stato nato sulle ceneri di quell’impero e fondato su quel nazionalismo che era stato alla base dell’ideologia folle del genocidio. Ma non solo: tacciono anche gli Stati Uniti. Non solo da oggi, ma proprio da cento anni: nessun presidente nella storia degli USA ha mai osato violare questo tabù, nel timore fra l’altro di compromettere i rapporti con la Turchia, fedele alleato della NATO dopo la Seconda guerra mondiale. Tace infine anche Israele, nonostante il ruolo di primo piano avuto da molti ebrei nel perorare la causa dell’altro grande genocidio del primo novecento: quello degli armeni.
Fra questi, andrà ricordato Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che per primo inventò il termine genocidio, con l’idea di esprimere quant’era fino allora inesprimibile, inaudito in ogni lingua del mondo. Un filo rosso legava in modo inequivocabile l’olocausto armeno e quello ebraico, e proprio da tale somiglianza balenò in lui l’idea di questo neologismo, “genocidio” appunto, da cui deriverà la Convenzione sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio approvata dall’ONU il 5 dicembre del 1948. Quando si parla con leggerezza, come si è fatto spesso negli ultimi giorni, di un tema così importante, sarebbe bene ricordarlo. “Armeno” non è un aggettivo qualsiasi da applicare o meno alla parola “genocidio” a seconda di considerazioni politiche o economiche, o peggio, anche agli umori del momento: si tratta di un significato inglobato nella parola fin dalla sua stessa origine, e rimuoverne la componente armena significa, necessariamente, dimezzarla e mutilarla, renderla altro da ciò che è e da quanto è sempre stata.
Yerevan, la capitale dell’Armenia, è stata il centro delle commemorazioni di questo centenario. Accanto al presidente Sargsyan, il mattino del 24 aprile, c’erano altri quattro capi di stato di fronte al fuoco perenne del memoriale delle vittime, a Tsitsernakaberd. Hollande, Putin, e i loro omologhi di Serbia e Cipro. Ci si poteva aspettare di più anche da parte dell’Italia, che ha mandato a Yerevan i rappresentanti di Camera e Senato, Casini e Cicchitto, ma nessun esponente di governo.
Il momento più toccante si è avuto nel pomeriggio e nella sera, quando centinaia di migliaia di armeni provenienti da ogni parte del mondo hanno camminato fianco a fianco dal centro della capitale, Yerevan, fino al memoriale che si trova su una collina subito fuori dal centro cittadino. Finita la danza macabra delle diplomazie e degli interessi, alla fine la memoria ha potuto trovare finalmente spazio, muovendo dal cuore e dalla mente di migliaia di persone, dove vive custodita da sempre.
In serata, un concerto classico con oltre 100 musicisti provenienti da 43 diversi paesi ha segnato la conclusione delle commemorazioni. Nell’occasione, sono state eseguite musiche create negli ultimi cento anni da grandi compositori armeni. Nel mentre, proseguiva il fiume umano di persone verso il memoriale, divenuto nel frattempo – come da tradizione – una suggestiva fiaccolata. Come negli anni scorsi, anche quest’anno si è registrata la presenza alle celebrazioni di moltissimi giovani, a testimonianza di una memoria che non si spegne, e che passa di padre in figlio indelebile come un tratto somatico o un segno sulla pelle.
E poi la fine, lo spegnersi dei riflettori sull’Armenia, il lento ritorno alla normalità che rappresenta per questo paese la sfida più grande. La lotta per la normalità vedrà infatti impegnata anche la prossima generazione di armeni su diversi fronti: dal conflitto in Nagorno Karabakh, lontano più che mai da una soluzione, alla diseguaglianza sociale determinata nel paese dai continui abusi di quelli che la gente di qui chiama gli oligarchi, fino al dramma dei profughi siriani che – sfuggiti dalla guerra – lottano contro mille difficoltà per ritrovare dignità in una terra, l’Armenia, per loro insieme familiare e straniera.
Su tutto, il grande silenzio che continua a pesare su questa gente come un’ingiustizia feroce che si combina alle tante violenze che si trova quotidianamente a patire. Il silenzio sulla parola genocidio, e soprattutto sulla storia e sul milione e mezzo di vittime che quella sola parola raccoglie e custodisce.
Passeranno altri cento anni? E se neppure cento ancora bastassero?