Leggere il passato con gli occhi delle donne

Il Tribunale delle Donne di Sarajevo e la giustizia transizionale in ex Jugoslavia: prospettive e limiti di un diverso modello di giustizia

19/05/2015, Caterina Bonora, Daniela Lai - Sarajevo

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Sarajevo, il Tribunale delle Donne (Foto Clara Casagrande)

In un articolo molto citato, Eric Gordy e Jasna Dragović-Soso definiscono gli stati dell’ex Jugoslavia a partire dagli anni ’90 come un vero e proprio laboratorio di giustizia transizionale. L’ex Jugoslavia ha avuto il primo Tribunale Penale Internazionale mai istituito dalla comunità internazionale (il TPI dell’Aja), una delle prime Corti penali miste (la Corte della Bosnia Erzegovina), formate in cooperazione tra istituzioni locali e internazionali, una serie più o meno riuscita di commissioni di verità ed inchiesta, tra le quali il primo esempio nel mondo di commissione di verità a livello regionale proposta dalla società civile locale (REKOM).

Il Tribunale delle Donne svoltosi a Sarajevo si inscrive in questa tradizione di sperimentazione nel campo della giustizia. Esso aggiunge una prospettiva femminista alla già variegata serie di iniziative che puntano a portare giustizia per i crimini commessi nella decade degli anni ’90. Tra il 7 e il 10 maggio scorsi, questo Tribunale ha permesso a più di 30 donne provenienti da tutti i paesi dell’ex Jugoslavia di raccontare le loro storie di violenza e resistenza a un pubblico di circa 500 partecipanti.

Tribunali delle Donne

Sebbene il Tribunale delle Donne sia un’idea di una serie di organizzazioni di donne di tutta l’ex Jugoslavia (Fondazione Cure e Madri di Srebrenica e Žepa dalla Bosnia Erzegovina, il Centro per gli Studi sulle Donne e il Centro per le Donne Vittime della Guerra dalla Croazia, la Rete delle Donne dal Kosovo, il Consiglio per l’Uguaglianza di Genere dalla Macedonia, l’associazione Anima dal Montenegro, le Donne in Nero e il Centro per gli Studi sulle Donne dalla Serbia e la Lobby delle Donne della Slovenia), si rifà a una tradizione ormai consolidata di tribunali delle donne realizzati in tutto il mondo a partire dagli anni ’70.

Il primo ebbe luogo in Belgio nel 1976, e si occupò di un ampio spettro di violenze contro le donne: da crimini politicamente motivati a stupri, a violenza domestica. Solamente negli anni ’90, tuttavia, l’attuale modello di tribunale, più informale (chiamato in inglese court in luogo del più formale tribunal), ha acquisito grande popolarità specialmente in Africa, Asia e Sudamerica. Dal 1992, circa 40 simili esperimenti di giustizia simbolica sono stati realizzati in vari paesi, dal Pakistan all’Egitto, dal Giappone al Sud Africa. Il Tribunale delle Donne per i Balcani è il primo esempio di questa seconda generazione ad essere realizzato nel continente europeo.

Quest’ultimo modello di Tribunale delle Donne prevede sempre più o meno la stessa struttura: le donne sopravvissute raccontano le loro testimonianze; esperte locali dal background accademico o attivista collocano le testimonianze nel loro contesto storico; e infine una giuria mista di attiviste locali e internazionali che godono di una reputazione impeccabile pronunciano le loro conclusioni e raccomandazioni. Queste non avranno valore legale, ma esclusivamente simbolico.

Soggetti della giustizia

La necessità di un approccio femminista deriva dalla consapevolezza di alcuni ben noti difetti della giustizia ordinaria, tra cui il ruolo molto limitato concesso ai testimoni nei processi penali. Qui, le regole di procedura determinano quanto i testimoni possono dichiarare, frustrando il desiderio del sopravvissuto di condividere la propria storia e contribuire così a che giustizia sia fatta. I sopravvissuti possono anche venire nuovamente traumatizzati, in particolare quando contro-interrogati dall’accusato/a stesso/a, come permesso nel sistema in parte accusatorio vigente al Tribunale dell’Aia. Molti nella regione ricordano ancora le domande intimidatorie rivolte da Slobodan Milošević alle sue vittime sui banchi dell’Aia.

Al contrario, lo scopo del Tribunale delle Donne è rendere i sopravvissuti soggetti, non oggetti, della giustizia. Per questo le testimoni/sopravvissute sono state coinvolte nel processo di preparazione, che nel caso del Tribunale per i Balcani è consistito in consultazioni, seminari e presentazioni pubbliche realizzate in tutta la regione. Le testimoni hanno potuto contare sul supporto di psicoterapeute durante tutto il processo, e delle loro compagne testimoni, presenti con loro sul palco per sostenerle nei momenti più emozionanti della testimonianza.

Ricostruire un passato frammentato

Ma un approccio femminista significa ben più di giustizia riparativa. Nelle parole di Ljupka Kovačević, della ONG Anima di Kotor, il Tribunale delle Donne “non è un tribunale psicoterapeutico, ma un tribunale politico.” Ciò si riferisce all’altro difetto della giustizia ordinaria cui il Tribunale delle Donne vorrebbe porre rimedio: la capacità di denunciare le responsabilità delle istituzioni e delle élite politiche, e più in generale di rivelare la sistematicità della violenza subita.

Questo non è possibile per i tribunali penali, che possono solamente stabilire se un particolare individuo può essere considerato responsabile di un particolare crimine in un particolare momento.

Ancora più problematico è il fatto che l’attenzione ricevuta negli ultimi decenni dai processi penali ci abbia abituato a pensare alla giustizia transizionale esclusivamente in termini di giustizia penale. Abbiamo imparato a considerare crimini solo gli atti giudicati nelle corti penali, come uccisioni di massa e stupri commessi durante un conflitto. Siamo molto meno a conoscenza dei casi di persone morte in seguito ai problemi di salute sviluppati come conseguenza dei traumi di guerra, o delle vittime della povertà generata dalla transizione economica. Siamo meno a conoscenza dei casi di donne stuprate dai loro partner per via dei traumi subiti in guerra, o a causa del ritorno a ruoli di genere tradizionali imposto dalle narrative etno-nazionali dominanti.

Il Tribunale delle Donne si propone di colmare i limiti di questo concetto di giustizia (o piuttosto, d’ingiustizia) dando voce a storie che, per quanto molto comuni nella regione, rimarrebbero altrimenti sconosciute.

Ad esempio, una testimone dalla Bosnia Erzegovina non si è limitata a raccontare al pubblico come fosse stata vittima di stupro sistematico durante la guerra, ma ha continuato a raccontare come avesse poi cercato un rifugio in una relazione matrimoniale (con un uomo della sua stessa etnia, ha precisato), rivelatasi poi abusiva; come avesse avuto la forza di terminarla e di trovare un lavoro per mantenere i suoi due figli e fare completare loro la scuola; ma come ora i suoi figli cresciuti non riuscissero a trovare lavoro a causa della situazione economica attuale.

Abbiamo anche sentito le storie di quelle donne serbe rappresentanti le madri e parenti delle migliaia di uomini costretti alla mobilitazione forzata durante le guerre degli anni ’90, che assistettero alla distruzione fisica o mentale dei loro parenti maschi al fronte.

Oppure delle donne Rom, che furono le prime a perdere la casa e il lavoro nella transizione perché vittime di discriminazione, esacerbata dalla retorica nazionalista dominante dagli anni ’90 in poi.

Questo concetto ampliato di giustizia rivela come la guerra, così come la narrativa nazionalista e la transizione economica da essa imposte, abbia reso le donne particolarmente vulnerabili. La resistenza delle donne che emerge dalle iniziative come il Tribunale delle Donne non è altro che una rivolta contro quest’imposta (non intrinseca) vulnerabilità.

Infine, come spiegato da uno dei membri della giuria del Tribunale, Vesna Teršelič della ONG Documenta di Zagabria, l’approccio femminista è fondamentale per comprendere l’interconnessione tra queste diverse forme di violenza: “Comprendendo la dimensione di genere della violenza, acquisiamo un importante strumento per interpretare tutte le forme di violenza. Quando parliamo di violenza, pensiamo generalmente alla violenza domestica, o alla violenza tra estranei, commessa con qualche movente criminale, o magari a quelle forme collettive di violenza cui assistiamo in guerra. Ma non possiamo dimenticare la violenza strutturale, perché la crescente polarizzazione tra ricchi e poveri è semplicemente inaccettabile.”

L’approccio femminista

Grazie a questo programma ambizioso, il Tribunale delle Donne è sicuramente riuscito a colmare alcuni vuoti del sistema ordinario di giustizia, rispetto al quale è critico, ma che considera comunque indispensabile. Tuttavia, rimane pur sempre un’iniziativa piuttosto piccola che aspira ad affrontare una montagna d’ingiustizie. Per ogni donna che testimonia, ce ne sono migliaia che rimangono silenziose, specialmente quelle che sono fuori dalla portata delle ONG e delle associazioni delle vittime. A questo riguardo, le organizzatrici hanno fatto grandi sforzi per decentralizzare il proprio lavoro, ma molte delle testimoni erano comunque già membri delle ONG coinvolte.

Un altro importante elemento potenzialmente riduttivo dell’impatto del Tribunale delle Donne è la distanza tra la posizione dei gruppi delle donne coinvolti, e l’approccio internazionale alla giustizia transizionale nell’ex Jugoslavia.

Anzitutto, la comunità internazionale e il Tribunale delle Donne divergono in quanto alla diagnosi del problema. La giuria del Tribunale delle Donne ritiene che tutte le forme di violenza sperimentate dalle testimoni facciano parte di un più ampio sistema di criminalità. Questa definizione sistemica d’ingiustizia, che prende in considerazione anche gli effetti avversi del processo di transizione economica sulla società, contrasta fortemente con l’approccio strettamente legalista della comunità internazionale.

In secondo luogo, divergono in quanto a soluzioni proposte. L’appello alla giustizia della giuria del tribunale è, almeno in parte, basato sul rifiuto delle trasformazioni economiche attraversate durante il periodo di transizione.

Dal punto di vista delle donne, è molto importante comprendere la condizione post-conflitto e post-socialista della società per capire e soddisfare le sue esigenze di giustizia. Al contrario, gli interventi internazionali sono principalmente mirati a trasformare il disfunzionale sistema balcanico in un insieme di efficienti economie di mercato, senza tenere troppo in considerazione queste esigenze di giustizia.


Questa distanza tra approccio internazionale e femminista è sintomo di una forte esigenza e volontà da parte dei gruppi delle donne di smettere di guardare alla comunità internazionale come il più importante attore di giustizia transizionale nella regione e di sviluppare sforzi alternativi, più vicini alla comunità locale e quindi più legittimi. D’altra parte, però, poiché le riforme socioeconomiche nella regione seguono principalmente linee guida internazionali (e in particolare europee), questa distanza rappresenta un ostacolo significativo per la realizzazione delle richieste di giustizia espresse dal Tribunale per le Donne.

Ci vorrà quindi, da parte delle organizzazioni delle donne, un impegno molto determinato nel lungo termine per ottenere un forte impatto politico e impedire così che il loro appello alla giustizia rimanga inascoltato.

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