Bosnia Erzegovina: ciao Mursel
Nei giorni scorsi nell’ospedale di Banja Luka è morto a 68 anni Muharem Murselović, esponente della comunità bosniaco-mussulmana di Prijedor. Un ricordo
(Questo pezzo è stato originariamente pubblicato sul blog di Michele Nardelli)
Se non ricordo male ho conosciuto Muharem Murselović nel 1998, ma non a Prijedor. Lui nella sua città non poteva farsi vivo perché gli effetti della pulizia etnica erano tutto intorno a noi (un anno prima, a guerra ormai finita da tempo, vennero fatte saltare decine di case appena ricostruite affinché i legittimi proprietari si dissuadessero a rientrare) e perché alla testa dell’amministrazione comunale c’erano ancora gli esponenti del Comitato di crisi che sei anni prima avevano organizzato il pogrom contro i “non serbi”, ovvero la maggioranza degli abitanti di Prijedor.
Perché Mursel (così veniva chiamato da tutti) era uno dei rappresentanti della comunità bosniaco-musulmana che nei quasi quattro anni di guerra finì nei campi di concentramento, assassinata, stuprata, fatta sparire, espropriata di ogni cosa (le case incendiate, le abitazioni confiscate, i conti correnti spariti…) e infine cacciata. Un po’ di persone, nelle ore tragiche della distruzione di Kozarac e della Lijeva Obala (la riva sinistra del fiume Sana), erano riuscite a scappare… Nei racconti dei superstiti il dramma di quei giorni della fine di aprile del 1992, il dolore delle vite e delle famiglie spezzate, la violenza del fazzoletto bianco di riconoscimento dei “balija” (come venivano chiamati dai serbi i bosgnacchi) e della cancellazione di una particolare storia europea facendo saltare con la dinamite in una notte quattordici moschee e tutto quel che poteva avere a che fare con i “non serbi”.
Di questa maggioranza cancellata faceva parte anche Mursel, di mestiere ristoratore e albergatore. Con lui non avevo la necessaria confidenza per farmi raccontare di quando finì nei campi di concentramento di Omarska e di Manjača e di come ne uscì, ma certamente posso dire che dedicò gli anni successivi a quella violenza nel battersi come un leone per il diritto al ritorno, diventando parlamentare ai vari livelli di una politica che prima, a quanto ne so, non aveva frequentato.
Sapevamo che intervenire a Prijedor in quegli anni voleva dire rapportarsi ad una città mutilata e per questo cercammo sin dal primo momento di avviare una relazione anche con l’altra metà, chi era finito profugo a Rijeka-Fiume, chi rifugiato a Velika Kladuša o a Sanski Most. E fu proprio in quest’ultima città che ebbi i primi colloqui con Murselović, con la discrezione che si deve a chi ha già pagato abbastanza il delirio nazionalista. Era guardingo nei nostri confronti: noi avevamo scelto la strada di avviare una relazione con il “nemico” nel tentativo di farlo uscire dall’isolamento internazionale che nella psicologia sociale del popolo serbo sortiva l’effetto di farlo rinchiudere ancor più nel proprio incubo, ma da subito comprese che quanto stavamo iniziando a fare avrebbe potuto favorire il suo stesso disegno di far tornare le persone nelle proprie case.
Lo ricordo duro. Con la sua voce metallica si rivolgeva a noi descrivendoci i gangster con i quali avevamo a che fare, mettendoci in guardia dunque, ma lasciando aperto uno spiraglio forse perché intuiva, con quei suoi occhi sempre in movimento, che noi eravamo di una pasta particolare. Cosa che riconobbe apertamente quando, un paio d’anni più tardi – era l’agosto del 2000 – ci fu la manifestazione per il ritorno ed oltre diecimila bosgnacchi invasero Kozarac e Kozaruša dove venne inaugurata la prima moschea ricostruita. In quella circostanza ero lì con loro e Mursel ci ringraziò per il nostro lavoro. Stava accadendo l’inimmaginabile, un ritorno che avevamo contribuito a rendere possibile. Mursel continuò, a differenza di altri esponenti di quella comunità, a dirci amichevolmente che eravamo troppo appiattiti sulla municipalità ma questo era un po’ il suo modo di fare, quasi fossimo immersi in una trattativa permanente. E però al tempo stesso non esitò ad affittarci i suoi locali nel pieno centro cittadino per la sede dell’Agenzia per la Democrazia Locale, cosa che fece indispettire le autorità serbe.
A quel punto Prijedor era già un’altra città rispetto alla “capitale inaccessibile” di cui aveva parlato in un reportage il nostro amico Luca Rastello, il ritorno coinvolse quasi ventimila persone, la ricostruzione delle cittadine di Kozarac, di Hambarine, di Rizvanovići ed infine della Stari Grad diventavano realtà. E Prijedor, anche grazie all’ADL e all’Osce, era costantemente monitorata dalla comunità internazionale.
Furono mesi e anni di lavoro complesso e delicato dove le nostre delegate (prima Annalisa Tomasi ed in seguito Patrizia Bugna) vennero messe alla prova nella loro capacità diplomatica di mantenere una sorta di “equiprossimità” dentro un conflitto che proseguiva nel lungo dopoguerra bosniaco. Mursel fu un interlocutore vero, incalzante, talvolta aspro e antipatico, ma per me che arrivavo a Prijedor di tanto in tanto sempre interessante da ascoltare e con cui interagire. Ricordo il suo impegno per realizzare ad Omarska un memoriale sul luogo dov’era sorto il campo di concentramento, ricordo come nel mese di agosto di ogni anno lui guidasse la manifestazione delle donne e degli uomini che venivano da tutto il mondo per ricordare i loro parenti assassinati o il loro stesso internamento (vedi foto). Ricordo i suoi racconti sulla “casa bianca”, quel piccolo edificio che ancora esiste nei pressi dei grandi capannoni della miniera, nel quale gli internati venivano interrogati, picchiati, uccisi. E che la municipalità di Prijedor (nonché la proprietà, la multinazionale anglo-indiana Arcelor-Mittal) si è sempre rifiutata di riconoscere come luogo del ricordo, quasi a negare la tragedia che lì si era perpetrata.
Oggi che Mursel non c’è più credo che a questa persona si debba rendere merito e questo voglio fare in queste poche righe. Credo altresì che il modo migliore per rendergli omaggio dovrebbe proprio essere la realizzazione di quel “luogo della memoria” a Omarska per il quale si era invano battuto.
Ciao Mursel. Ora che sei di nuovo in viaggio per chissà dove, vorrei che il ricordo della tua persona testimoniasse quella necessità di non rimuovere quello che la tua città ha vissuto negli anni ’90 e che l’ossessiva normalità del presente rischia di cancellare. Non tanto per condannare qualcuno ma semplicemente perché la storia (e la sua elaborazione) sia in grado di insegnarci qualcosa.