Sarajevo – Belgrado, un passo indietro

Le conseguenze dell’arresto in Svizzera di Naser Orić a poche settimane dalla celebrazione del ventennale del genocidio di Srebrenica. Commento

17/06/2015, Andrea Oskari Rossini - Sarajevo

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Srebrenica (Foto The Advocacy Project, Flickr )

L’arresto mercoledì scorso a Berna di Naser Orić, ex comandante della difesa di Srebrenica durante la guerra 1992-95, continua a provocare reazioni e conseguenze nella regione. L’attesa visita ufficiale del presidente serbo Tomislav Nikolić a Sarajevo, prevista per ieri, è stata annullata. Il rappresentante bosgnacco dell’ufficio di presidenza della Bosnia Erzegovina, Bakir Izetbegović, ne ha richiesto il rinvio “a causa della situazione determinatasi a seguito dell’arresto di Orić”.

Nonostante le dichiarazioni concilianti giunte da Belgrado, in particolare sul fatto che questo episodio non pregiudicherà l’impegno della Serbia nei confronti di una “politica di pace, stabilità e cooperazione”, si tratta di un’evidente battuta d’arresto nel dialogo a livello regionale.

Il caso Orić

Naser Orić è già stato giudicato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per crimini commessi contro la popolazione serba nell’area di Srebrenica durante la guerra, ed è stato assolto, nel 2008. Per questo una parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica bosniache considerano il mandato di arresto Interpol richiesto da Belgrado, ed eseguito a Berna la settimana scorsa, come persecutorio e politicamente motivato. Nella giornata di sabato si sono tenute in Bosnia Erzegovina manifestazioni per richiedere il rilascio dell’arrestato. A Sarajevo, alcune centinaia di veterani dell’esercito della Bosnia Erzegovina hanno dimostrato davanti al parlamento e si sono poi diretti verso la sede dell’Ambasciata svizzera, poco distante, dove gli organizzatori hanno consegnato una lettera di protesta ai diplomatici elvetici. Alla manifestazione hanno partecipato anche Munira Subašić, presidentessa dell’associazione delle “Madri di Srebrenica e Žepa”, e Dino Konaković, premier del Cantone di Sarajevo. Il Partito di Azione Democratica (SDA) di Bakir Izetbegović ha condannato duramente l’arresto, chiedendo a tutte le istituzioni della Bosnia Erzegovina di dare il loro contributo affinché Orić venga rilasciato al più presto.

Secondo una teoria che ha trovato in parte spazio sui media bosniaci, l’arresto sarebbe stato richiesto dalla Serbia a poche settimane dalla celebrazione del ventennale del genocidio di Srebrenica per cercare di relativizzare questo anniversario, mostrando che crimini sono stati commessi da ogni parte. In realtà, come dichiarato dall’Ambasciatore svizzero a Sarajevo, Heinrich Maurer, la richiesta serba è del 3 febbraio 2014, e non ha dunque alcuna relazione con il prossimo anniversario.

Il garbuglio

L’11 luglio rappresenta in ogni caso una data delicata per la regione, e molti si chiedono quale atteggiamento terrà Berna di fronte alla richiesta di estradizione, già presentata da Belgrado. Secondo alcuni commentatori, assisteremo ad una replica dei casi, molto simili, di Jovan Divjak e Ejup Ganić, arrestati su mandato Interpol rispettivamente in Austria e Gran Bretagna, ma poi affidati alle autorità bosniaco erzegovesi e non a quelle serbe che ne avevano richiesto l’arresto.

L’arresto di Orić sarebbe dovuto ad un semplice “automatismo”, cioè al fatto che il nome dell’ex ufficiale bosniaco era nella lista dell’Interpol ed è quindi stato automaticamente messo in stato di fermo al valico di frontiera, senza che venisse svolta alcuna ulteriore valutazione. L’esito dovrebbe essere però lo stesso dei casi Divjak e Ganić, in particolare per il fatto che Orić è già stato assolto da una Corte internazionale per i fatti contestatigli.

Secondo dichiarazioni dell’Ufficio Federale per la Giustizia svizzero però, riportate dai media di Sarajevo, il mandato d’arresto richiesto da Belgrado riguarderebbe fatti ed episodi non considerati dal Tribunale dell’Aja, relativi in particolare ad una strage di civili avvenuta nel villaggio di Zalazje nel 1992. I principi della Convenzione Europea per l’Estradizione, e in particolare il diritto dell’accusato a non essere giudicato due volte per gli stessi fatti, risulterebbero dunque rispettati. Le istituzioni bosniache tuttavia hanno dichiarato di non aver ancora ricevuto alcuna comunicazione ufficiale da parte di Berna sui motivi dell’arresto di Orić.

L’avvocato di Orić, Leila Čović, ha sostenuto che la Bosnia Erzegovina aveva a suo tempo fatto ricorso contro il mandato di arresto emesso dalle autorità serbe, e che quindi il mandato stesso avrebbe dovuto essere sospeso. Il ministero della Giustizia bosniaco tuttavia non ha confermato di aver fatto ricorso contro il mandato di arresto.

Rispetto per le vittime

In un susseguirsi di dichiarazioni e smentite, l’unica cosa certa è che civili serbi sono stati uccisi a Zalazje, che nessuno è stato condannato per quei crimini, e che quei crimini in nessun modo possono diminuire la gravità del genocidio del popolo musulmano avvenuto nel luglio del ’95. Il caso Orić ha tuttavia tutte le caratteristiche per essere ulteriormente strumentalizzato.

Il comandante della difesa di Srebrenica rappresenta un eroe per una parte della popolazione bosniaco musulmana, per la sua capacità di respingere gli attacchi da parte serba fino al luglio del ’95. Quando Srebrenica cadde in mano serba, tuttavia, l’11 luglio ’95, Orić e i più importanti quadri ufficiali della difesa della città non erano presenti. In una lunga intervista pubblicata ieri dal quotidiano bosniaco a maggior tiratura, Dnevni Avaz, il comandante dichiara implicitamente che gli sarebbe stato impedito di partecipare alla difesa della cittadina, abbandonata non solo dalle forze delle Nazioni Unite, ma anche dal proprio esercito, per motivi inconfessabili. Il fatto che restino ancora zone oscure sulla caduta della cittadina, nonostante le decine di procedimenti giudiziari e le migliaia di pagine scritte, rende lo scenario più torbido. Le autorità serbe hanno inoltre sempre protestato contro l’assoluzione di Orić da parte dei giudici dell’Aja, e vogliono che vengano accertate le responsabilità per le vittime di Zalazje e di altri villaggi dell’area di Srebrenica nel periodo ’92-’95.

L’intreccio tra giustizia e politica, nei Balcani, è fatale. Le diverse opinioni pubbliche della regione dimostrano di aver perso fiducia nella capacità dei sistemi giudiziari locali di processare i “propri” criminali, e danno invece per scontate sentenze draconiane quando gli imputati sono gli “altri”. Ieri ad esempio un tribunale serbo ha rimesso in libertà per insufficienza di prove sette paramilitari del gruppo di “Simo il cetnico” , considerati responsabili di gravissimi crimini contro civili, in particolare di nazionalità rom, nella zona di Zvornik nel periodo 1992 e 1993. Di quei crimini ci aveva parlato un sopravvissuto , al tempo bambino, con una dovizia di particolari che non dovrebbe essere ignota alla magistratura serba. Se gli autori non sono gli appartenenti a quel gruppo paramilitare, allora chi sono? Se i crimini ascritti a Orić non sono stati commessi da lui, allora chi li ha commessi? Invece di continuare schermaglie politiche e rimandare visite ufficiali, queste visite andrebbero utilizzate per dialogare, e scambiarsi informazioni. Sarebbe questo un modo di manifestare rispetto per le vittime, a pochi giorni dall’11 luglio, data simbolo del genocidio musulmano e della tragedia degli anni ’90. Senza per questo correre alcun rischio di relativismo.

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