La bassa fedeltà dei Virvel
Come non rimanere stregati dalla dolcissima voce di Tijana e dalle ruggenti e distorte chitarre di Zoran? Lo "space-rock" dei Virvel di Belgrado
Le informazioni sul loro conto sono pressoché inesistenti, ma essendo particolarmente interessanti proviamo comunque a parlarne. Tijana Drobac (voce e basso), Zeljko Janković (batteria), Zoran Stojicić (chitarra), Vladimir Ljubinković (tastiere) e Dejan Drobac (chitarra), rappresentano i Virvel, band lo-fi, indie-rock, post-rock, "space rock" – come è stata definita da alcuni critici musicali – proveniente da Belgrado.
Andiamo subito al dunque: "A sve neki fini svet". Come non rimanere stregati dalla dolcissima voce della cantante e dalle ruggenti e distorte chitarre di Zoran? I Virvel si formano nella capitale della Serbia quindici anni fa. Provengono da svariate esperienze con altre band della metropoli. Desiderano offrire alla città un genere musicale che ha avuto riscontro in America e in Inghilterra, ma non ancora in Europa orientale. Propongono, dunque, un rock sgangherato, quasi garage, "traballante". Non sono soli in questa cavalcata lo-fi. Altre band che si possono ricordare e rintracciare su Youtube sono, per esempio, gli Splins, gli Irfan Muertes, e i BoriseDeckoBorise.
I Virvel hanno all’attivo tre dischi. L’ultimo, in realtà, è un ep uscito ormai cinque anni fa (qui può essere ascoltato integralmente). Siamo nella grande famiglia del lo-fi, non c’è dubbio, con inequivocabili reminescenze post-rock, noise-pop, ambient, ed echi showgaze. Non ci sono i muri di chitarre dei My Bloody Valentine (storica band irlandese degli anni novanta), ma si può percepire qualcosa, per esempio, dei Jesus and Mary Chain o dei Ride (qui nella celebre "Twisterella").
Il primo disco ufficiale è dell’ottobre 2001. Esce per la Rapanelli Records. Non è un disco facile. Anche la critica musicale non sa dove collocarlo. Parte con "Lisabon" che dura più di sette minuti, si chiude con "Zurka" che supera di poco il minuto. La prima ha un intro industrial che si apre dopo un minuto di singhiozzi metallici; la seconda sembra una ballata casalinga alla Poi Dog Pondering.
"Kao, na primer" è forse il brano più riuscito che anche su Youtube ha totalizzato la bellezza di 13mila visualizzazioni. E’ un elegante e coraggioso gioco di chitarre che si appoggia su un ritmo folk cadenzato. Questo particolare approccio al music business spiega l’anarchia totale dei Virvel, del tutto indifferenti alle mode e alle richieste del mercato. Cinquantatré minuti di musica e una copertina avanguardistica che illustra le gambe di una signorina con la minigonna. Il titolo è il nome della band. Ma non passa inosservato. E consente all’ensemble di farsi un nome e di esibirsi in numerosi concerti.
Il lavoro del 2005, 7, comprende due sole tracce: "Brzi svemir" e "Ian Fleming". La prima è ipnotica, tagliente, "looppata". "Ian Fleming" rimanda addirittura ai La’s di "There she goes". "Brzi svemir" viene ripresa anche l’anno dopo per aprire SA Dana, nuovo capitolo della band, rilasciato il 29 settembre 2006. Ci sono anche altri brani interessanti come la catartica chanson "Charade" (qui in un’interessante versione remixata), e la fresca "Tezak dan". L’album riscuote un discreto successo e apre le porte del gruppo a paesi mai visitati prima come la Croazia, la Slovenia e la Macedonia dove suonano in vari e prestigiosi festival dedicati alla musica underground.
Nel 2010 l’ultima fatica: Sibir. Quattro nuove tracce, fra cui la citata "A sve neki finis vet" e l’altrettanto affascinante "Iz Sibira", autentico esercizio di stile, basato sul suono suadente della voce di Tijana e il fraseggio ruspante delle chitarre di Zoran. OBC ha incontrato i Virvel per un’intervista volante.
La prima inevitabile domanda: a quando il prossimo disco?
Stiamo attualmente lavorando a nuove canzoni, ma è più facile supporre che proporremo a cadenze più o meno regolari dei singoli, prima di dare vita a un album completo.
Timeline?
Prestissimo usciremo con la prima canzone.
Perché Virvel?
E’ una parola di origine scandinava. Indica un vortice di vento particolarmente impetuoso. Troviamo che rappresenti efficacemente il nostro genere musicale.
Affiancate con frequenza parole straniere alle vostre opere.
A pensarci sì, e una vera risposta non c’è. Abbiamo titoli di canzoni in tedesco, francese…
Cosa è cambiato nel vostro stile musicale rispetto a quindici anni fa?
La nostra musica è in costante mutamento, come si può immaginare, oggi come quindici anni fa. Ma la cosa importante è aver saputo mantenere la capacità di esprimere un sound specifico, peculiare.
Quello che dà la firma a una band e ne prova la serietà.
Appunto.
Com’è la scena musicale underground belgradese?
Molto felice, colorata, brillante. Ma non rispecchia le realtà del Paese.
In che senso?
A livello globale stiamo assistendo a un grave degrado culturale.
Motivi?
Mancano le risorse.
La crisi?
Certo, con essa girano molti meno soldi, non ci sono le infrastrutture adeguate per supportare determinati progetti. E la qualità artistica ne risente.
E’ molto difficile recuperare informazioni sulla vostra attività, almeno dall’Italia. Si riesce a risalire al nome dell’etichetta, Rapanelli Records (altra parola straniera, guarda caso di origine italiana). Potreste darci qualche dettaglio in più?
E’ stato il nostro tentativo di creare una struttura per realizzare ciò che avevamo in mente a livello musicale.
Avete coinvolto anche altre band.
Certamente.
Nell’ambito dell’underground belgradese.
Lo spirito è sempre stato quello di evitare compromessi artistici, pescando all’interno del nostro modo di vedere e concepire la musica. Da qui i vari gruppi coinvolti.
Non è stato facile.
Infatti s’è rivelato un disastro finanziario!
Influenze?
Di tutto, davvero, ognuno di noi ha a che fare con una moltitudine di generi che elencarli tutti sarebbe impossibile.
Facciamo un tentativo?
Lo-fi, shoegaze, noise, post-rock, ma anche generi più tradizionali, americana, rock classico e qualche volta perfino il pop.
Quali band trovate spesso accostate al vostro nome?
Negli anni ci hanno assimilato a molti gruppi.
Io trovo qualcosa dei Jesus e Mary Chain.
Sono d’accordo. Ma citerei anche Yo La Tengo, Mogwai, My Bloody Valentine.
Vi occupate d’altro, a parte la musica?
Per forza. Non si può vivere di musica in Serbia, soprattutto se fai il nostro genere.
Quindi?
Ci si arrangia, spesso con grandi sacrifici. Lavoriamo regolarmente durante il giorno e ognuno di noi ha una famiglia da mantenere. Quando ci capitano le prove o i concerti, dopo una giornata di lavoro e magari una notte insonne, non è facile, ma se è per la musica, si va avanti.
In passato, riferendoci a Belgrado, abbiamo parlato di Shazalakazoo, Repetetor, Inje. Li conoscete?
Tutti quanti. Siamo parte integrante della scena musicale undeground belgradese che non può prescindere da queste figure.
Cosa ascoltate di bello in questo momento?
C’è in giro un sacco di ottima musica.
I primi nomi che vi vengono in mente?
Sleater Kinney, The War on Drugs, Parquet Courts…
Vi aspettiamo allora in Italia.
Sarebbe fantastico. Speriamo giunga presto l’occasione di esibirci nel vostro paese.