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Azerbaijan: il processo farsa, le maschere e la gabbia di vetro
Sembra ci sia fretta di condannarla. Il processo a carico di Khadija Ismayilova, tra le principali giornaliste investigative azere, in carcere dal dicembre scorso, è iniziato lo scorso 24 luglio e potrebbe chiudersi già questa settimana
C’è la folla assiepata davanti all’ingresso dell’aula giudiziaria: giornalisti, colleghi, amici, osservatori e famigliari. Tutti attendono pazientemente, sperando di riuscire ad entrare. Dalla porta che si socchiude spuntano due persone che guardano cautamente fuori. Poi, rapidamente, lasciano entrare alcune persone e dicono a tutti gli altri che l’aula è piena. Partono urla ma le domande degli astanti rimangono senza risposte, ammutolite dalla massiccia porta di metallo e vetro di questa stanza della Corte di Baku per i crimini gravi.
All’interno una giovane donna viene fatta sedere dentro un cubo di vetro, o “gabbia di vetro”, come alcuni la chiamano. Diversamente dai paesi civili, dove agli accusati è permesso sedere accanto ai propri avvocati, qui avviene solo se richiesto dagli stessi avvocati e accordato dai giudici: benvenuti al processo farsa a carico di Khadija Ismayil, una delle giornaliste investigative più famose del paese, che ha ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali per il suo lavoro e il suo coraggio nello svolgerlo.
Negli ultimi cinque anni Khadija Ismayil ha scoperto e reso pubblici gli affari multimilionari legati alla famiglia che governa l’Azerbaijan, il clan Aliyev. Si va da proprietà a Londra, Dubai e nella Repubblica Ceca ad azioni in miniere d’oro e aziende di telefonia a sospetti di corruzione riguardanti tutti i livelli di governo in Azerbaijan. Khadija è riuscita a scoprire ed esporre al pubblico tutto questo grazie ad un meticoloso lavoro di investigazione giornalistica.
Il prezzo
Sapeva che c’era un prezzo da pagare. Dopotutto l’aveva già capito durante il suo lavoro da giornalista: colleghi assassinati, imprigionati, pestati e intimiditi. Ma come ha dichiarato in un’intervista, per lei aveva senso “continuare a lottare per i diritti umani, per quelli che sono stati costretti al silenzio. Se il prezzo per questo è l’arresto, va bene, ne vale la pena”.
Il 5 dicembre del 2014 Khadija Ismayil è stata arrestata con l’accusa di incitamento al suicidio, in base all’articolo 125 del Codice penale. Nel panorama delle accuse utilizzate contro giornalisti, attivisti e dissidenti quella di “incitamento al suicidio” era nuova.
E’ stato il primo atto della farsa che stava per cominciare.
Il secondo atto è stato quello di accusare Khadija di altri reati quali frode, evasione fiscale, abuso di potere. Chi ha una certa familiarità con gli abusi e la fame di potere delle autorità azere può facilmente immaginare ciò che è seguito. Ma anche i migliori ghost writer del regime non si aspettavano l’arrivo del primo eroe.
Tural Mustafayev, l’uomo che aveva dichiarato che Khadija era direttamente responsabile per il suo tentato suicido, ha infatti ritirato l’accusa qualche mese dopo. In un video , reso pubblico nel maggio del 2014, Mustafayev ha affermato di essere stato forzato a denunciare Ismayil contro la sua volontà. Non è stato per colpa di Khadija che ha tentato di porre fine alla sua vita ma perché la sua ragazza di allora voleva lasciarlo: “Sono stato forzato a scrivere quella lettera. Loro [la procura di Baku] mi minacciavano. Dicevano che avrebbero reso pubbliche riprese segrete del mio appartamento se non collaboravo […] Voglio che tutti sappiano che non ho nessuna lamentela nei confronti di Khadija”.
Solo a pochi giorni dalla scadenza dei termini per la carcerazione preventiva è stata annunciata la prima udienza del processo, prevista per il 24 luglio. La confessione di Mustafayev non ha cambiato però nulla, la sua richiesta di essere tolto dalla lista di presunte vittime di Khadija non è stata accettata dal collegio giudicante. Nonostante le varie mozioni in merito sollevate dagli avvocati di Khadija, l’accusa di “incitamento al suicidio” è tutt’ora valida. E così lo sono anche le altre accuse, nonostante tutte le prove portate che dimostrano il contrario.
Dall’inizio del processo nessun testimone comparso davanti alla corte ha coinvolto Ismayil in alcuno dei crimini di cui è stata accusata.
Parenti sconosciuti
Quando la madre di Khadija, Esmira Ismayilova, è uscita dall’aula del tribunale durante una pausa di un’udienza, lo scorso 11 agosto, ha affermato, scherzando amaramente: “Non conoscevo quasi nessuno al processo. Vedevo quasi tutti per la prima volta. Ho chiesto ad una mia nipote chi fossero. Mi ha detto i figli di un mio zio. Ho quindi chiesto a mia nipote di presentarmi questi miei nuovi parenti”.
Non serve specificare che non erano parenti della signora Ismayilova ma “osservatori volontari” a comando che si erano recati nell’aula giudiziaria in cambio di un po’ di soldi.
Il giornalista Avaz Zeynalli, ex prigioniero politico, che è riuscito ad entrare nell’aula del processo, ha confermato che queste persone erano lì effettivamente solo per riempire i posti a sedere e per non lasciar spazio ad amici, parenti, giornalisti e osservatori internazionali. “Non capita certo raramente. Vi è una lista di persone da invitare quando si devono riempire le aule. In cambio ricevono 5-10 manat [4-8 euro circa]”, ha affermato Zeynalli, durante una delle udienze della scorsa settimana.
Processo rapido
Fin dall’inizio in molti – e la stessa Khadija – hanno interpretato le accuse mosse contro di lei come conseguenze della sua attività giornalistica. Il 24 luglio, durante un intervento a sua difesa, Khadija ha affermato che “lui [il presidente Aliyev] mi ha imprigionata per impedire il mio lavoro giornalistico e per impedirmi di continuare le mie attività investigative”.
La recente ondata di arresti e persecuzioni spinge a ritenere che il Presidente Aliyev si sia però stufato di processi troppo lunghi e che voglia che quest’ultimo termini il prima possibile. Dopotutto ci sono cose molto più importanti di cui occuparsi come preparare il paese a nuovi grandi eventi sportivi ed inoltre incombono le prossime elezioni politiche.
Questo spiegherebbe il motivo di un processo, sino ad ora, affrettato. Anche Kadija Ismayil ritiene che si stia correndo verso una condanna. “Capisco che vi sia stato ordinato di imprigionarmi. Sapete probabilmente già a quanti anni mi condannerete. Mi dite che mi condannerete a 15 anni. Sono pronta a passare 25 anni in carcere. Ma almeno lasciate che mi difenda utilizzando i miei diritti, datemi i miei diritti”, ha affermato davanti alla corte lo scorso 13 agosto.
Ieri si è tenuta un’ulteriore udienza ed è probabile che questo processo farsa si concluda proprio in settimana.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto