Grecia: incontri a Kos

L’incontro sull’isola di Kos con il giovane Numan, diciassettenne indiano del Punjab, in viaggio ormai da due anni. Come molti altri suoi compagni di viaggio spera di poter presto salpare

25/08/2015, Fabrizio Polacco - Kos

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Migranti in attesa di un traghetto di linea che li porterà sul continente - foto F.Polacco

Come mi racconta Kostas, un talentuoso barbiere all’antica che ho scovato in una stradina della città, mai si era verificato prima d’ora nella sua Kos un tale afflusso di migranti. Non che l’isola ne sia gremita,  poiché quasi tutti gravitano in realtà solo attorno al capoluogo. Non se ne trovano, ad esempio, nella spettacolare baia di Kèphalos: al tramonto le colonne classicheggianti di una basilica in rovina inquadrano come in una cartolina l’isoletta di Kastrì, dove la chiesa di San Nicola accoglie i turisti che vi salgono a piedi scalzi dopo una breve nuotata. E non se ne trovano neppure sulle maestose scalinate dell’Asklepieion, appena fuori città: il santuario dedicato al dio greco delle guarigioni un secolo dopo che il più illustre figlio di Kos, Ippocrate, diede origine alla medicina come noi ancor oggi la intendiamo.

Il santuario di età ellenistica dedicato ad Asclepio, dio greco della medicina

Il santuario di età ellenistica dedicato ad Asclepio, dio greco della medicina – foto F.Polacco

Già, perché l’isola non è solo un affollato centro vacanziero, ma anche uno dei luoghi fondamentali della nostra storia. La città stessa, il capoluogo, è piena di rovine: curate o abbandonate, note o dimenticate, studiate o trascurate, ma pur sempre affascinanti.

Ed è anche tra di esse che, ormai un mese fa, ho iniziato a vedere per la prima volta, con sorpresa, decine di immigrati sostare o dormire come e dove potevano. "Difatti – aggiunge Kostas quasi sussurrandomi – alcuni gestori dei grandi alberghi disseminati lungo le coste ne approfittano per dissuadere i loro ospiti dallo scendere in città, dipingendo una situazione a tinte ancor più fosche".

Ma se così è, si tratta di una concorrenza davvero sleale. E’ vero che siriani, pakistani, afghani e bangladesi occupano da metà luglio quasi tutti gli spazi verdi della città antica, con relative situazioni inattese: ma ciò non ha mai limitato l’accessibilità di luoghi e monumenti, né impedito o infastidito i turisti che li frequentavano.

I piccoli accampamenti all’ombra di un gruppo di alberi o di un antico bastione erano e sono tuttora, anche quelli rimasti dopo i provvedimenti degli ultimi giorni, tanto affollati e improvvisati quanto silenziosi e discreti. I giornali locali li chiamano ‘bivacchi’, poiché in effetti non hanno nulla di stabile né definitivo. E gli stessi fogli hanno entusiasticamente parlato di ‘Operazione Scopa’, quando un bel giorno le autorità locali si sono mosse e ne hanno deciso la loro totale, immediata rimozione. ‘Riprendiamoci la città’, era uno slogan sulle prime pagine. Ma altri giornali ancora, come To Karfì, che pure è un foglio nazionale, non hanno esitato a commentare i brevi ed isolati tafferugli che hanno seguito l’operazione di repulisti con un reboante titolo: ‘Guerra nell’Egeo’. Non certo una bella pubblicità, per un paese che ha nel turismo una delle sue maggiori fonti di introito.

Tende e una capanna rudimentale alla periferia di Kos

Tende e una capanna rudimentale alla periferia di Kos – foto F.Polacco

In attesa del permesso per lasciare l’isola

E invece, pur con una qualche flessione, i turisti per fortuna non se ne sono andati. Non solo perché Kos era e resta bellissima, ma anche perché i migranti, pur privi di strutture di accoglienza adeguate, hanno mantenuto quasi sempre un comportamento composto: addirittura riservato e discreto, quasi timoroso (in fondo devono ottenere un permesso dalla polizia!). Si raggruppano esclusivamente tra conterranei – non vedi mai un pakistano passeggiare con un siriano, o un afghano con uno del Bangaladesh – e pazientano nell’ombra, aspettando il giorno in cui verrà loro consegnato il fatidico permesso temporaneo che permette la partenza dall’isola. Per quanti non hanno ancora una prospettiva certa di quando e come poter partire, la bella Kos, anziché prima tappa verso l’agognata Europa, deve certo parere una trappola cocente sotto il sole del Mediterraneo.

In oltre un mese da che mi trovo qui nessuno di essi mi ha mai rivolto spontaneamente la parola, se non per chiedere un’informazione e solo dopo aver intuito nello sguardo una disponibilità al dialogo; nessuno mi ha mai chiesto aiuto materiale, né soldi. Nei giorni più critici di questo mese, prima cioè che le autorità della Periferia dell’Egeo Meridionale e dello stato centrale greco concertassero qualche iniziativa a più ampio raggio, capitava che un centinaio di essi sostasse per ore, nelle calde mattinate, davanti ai cancelli della polizia, aspettando l’affissione dell’elenco dei nomi dei fortunati che avevano ottenuto il permesso; è allora che ho visto a pochi passi da me, in disparte, un ragazzo portarsi la mani sul viso e piegarsi in due come per un malore, in un gesto di sconforto. Istintivamente l’ho preso per un braccio, e gli ho chiesto: ‘Ehi! How are you?’ Quello si è ricomposto, ha perfino abbozzato un sorriso, e mi ha risposto un improbabile ‘fine…’, bene. ‘No, you are not fine’, ho insistito: e solo allora mi ha raccontato più a gesti che in inglese che erano cinque giorni, da quando era sbarcato sull’isola, che stava lì, presso quell’edificio, senza sapere dove dormire, dove andare, come tirare avanti… Gli ho offerto da bere e da mangiare, consapevole di aver gettato la classica goccia nel deserto. Ma si è trattato di una mia iniziativa. Nessun migrante ha mai mendicato, qui a Kos.

Numan, in viaggio da solo

L’ho rincontrato in seguito, quel ragazzo, e ho scoperto che lui era più sfortunato degli altri. Numan, infatti, così si chiama, è indiano, indiano del Punjab, ha diciassette anni, e soprattutto è giunto qui solo. Probabilmente è l’unico del suo paese. Senza quel minimo supporto che ad altri offrono la famiglia, un gruppo di amici, o la comunità dei conterranei, era letteralmente perso in un mondo nuovo, che sembrava non presentargli via d’uscita. Ha potuto raccontarmi il suo viaggio, una vera odissea durata due anni, poiché parlava anche turco; l’aveva orecchiato rimanendo a lungo in quel paese, dove aveva cambiato vari lavori per sopravvivere. E perché non sei rimasto lì – gli ho domandato – dove almeno un lavoro lo avevi? Mostrandomi con rammarico le poche, ultime lire turche che aveva in tasca, mi ha detto: "Sì, è vero, lavoravo; ma non avevo alcuna prospettiva di mettermi in regola, lo Stato lì in pratica non ne offre. Come avrei potuto viaggiare di nuovo legalmente, costruirmi una vita e, per esempio, tornare un giorno ad incontrare mia madre, che non vedo da due anni?"

Le implicite gerarchie

Va detto che anche tra i migranti e rifugiati c’è una gerarchia implicita, una scala che va dai più fortunati ai più reietti. Alcuni giorni fa, per esempio, dopo che già una prima, grande nave passeggeri, l’Elefteros Venizelos, era partita per Salonicco con 1800 migranti a bordo, due giovani afghani di 18 e 19 anni mi esprimevano più a gesti che in un sommario inglese che a loro pareva ingiusto, assurdo, che ai siriani fossero stati già concessi in massa i documenti, e dato il via libera verso il continente, mentre a loro e ai vicini pakistani no: e in grande maggioranza sono infatti tutti ancora qui, senza sapere bene perché.

Non è facile spiegar loro la differenza che riportano i giornali tra ‘profughi’ e ‘migranti’; e che, anche se a tutti, prima o poi, verrà dato il permesso, le priorità sono chiare. Kathimerinì del 19 agosto, forse il più autorevole quotidiano ellenico, spiegava che per motivi di ordine pubblico a bordo della grossa nave si era preferito non mescolare le diverse etnie; e che prima che vi sia spazio, sulle navi di linea, per le altre masse di persone, bisognerà forse attendere il calo dei passeggeri per turismo che si verifica a fine stagione. Ma a questi ragazzi che parlano solo pastun, e dormono quasi alla macchia, chi glielo fa capire?

La piccola folla che si raduna in attesa della pubblicazione dei permessi, davanti alla sede della polizia di Kos – foto di F.Polacco

E buona parte dei migranti rimasti, quelli più disperati, sono tuttora radunati, mentre scrivo, in un albergo in disuso messo a disposizione alla periferia della città, il ‘Captain Ilias’. Ma anche questa struttura è strapiena, e tutto intorno sono fiorite non solo tende o baracche, ma dei tuguri fatti di foglie di palma secca e di cartone, che compongono scene da terzo mondo. Quanti invece non sopportano il caos, lo sporco e la promiscuità di quel campo, li vedi sciamare silenziosamente, a sera, per le vie del centro, in mezzo ai bar e ristorantini strapieni di turisti. Scivolano via silenziosi, a due a due, o a piccolissimi gruppi, prima di andare a trovare riparo per la notte. Alcuni tengono stretto sottobraccio un cartone ripiegato: più tardi diventerà il loro giaciglio.

Insomma, anche una volta superata la totale impreparazione iniziale, che aveva travolto le esigue strutture amministrative locali, e nonostante l’arrivo di rinforzi per assicurare l’ordine pubblico e l’espletamento delle procedure burocratiche gonfiatesi a dismisura, e persino dopo l’originale idea della grande nave per la sosta e l’identificazione dei migranti, è però evidente che questo splendido avamposto dell’Europa, collocato di fronte alle coste di un continente asiatico che pare essersi messo in movimento, da solo non ce la potrà mai fare.

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