Muro ungherese, dove finisce l’Unione europea
Reportage dal confine tra Serbia, Ungheria e Romania. L’attraversamento di notte a fianco dei rifugiati là dove l’Unione europea geograficamente inizia ma dove moralmente sembra finire
Kübekháza
Nemmeno i militari ci credono davvero. Il capo chino, la fronte attraversata da continue righe di sudore, passeggiano controvoglia lungo la linea immaginaria sulla quale hanno ordine di issare una palizzata. Un alto macchinario bianco, cingolato, li segue tra i campi di girasole e granoturco, infilzando con regolarità il terreno e lasciandovi cadere ogni quattro metri un palo di acciaio alto altrettanti. Un tonfo sordo seguito da uno sbuffo di polvere nell’afa estiva. Bisognerà poi srotolare la rete zincata, mentre il filo spinato è già stato arricciato, come fosse dello zucchero filato, in una nuvola soffice e appuntita. La si sdraia per terra, nel mezzo del nulla.
Siamo a Kübekháza, il comune ungherese che confina al tempo stesso con la Serbia e con la Romania e che ospita nientemeno che il punto finale del “muro di Orban”. L’ultimo pilone della barriera di 175 chilometri è già stato piantato e basta guardarlo per percepire l’assurdità di tutte queste ore di lavoro. Alle sue spalle, si apre la pianura pannonica con la sua sfacciata indifferenza. Il muro finisce in un prato. E come se non bastasse, qualche metro più in là, il monumento che celebrava il punto d’incontro dei tre paesi è rimasto oltre la ringhiera, dall’altra parte del muro. Geograficamente, l’Unione europea inizia qui. Ma moralmente sembra finire.
Subotica
Un paio di giorni prima, l’appuntamento è per mezzogiorno alla stazione degli autobus di Subotica, una città dell’estremo Nord della Serbia, in cui passa sia l’autostrada E–75 diretta a Budapest, sia la ferrovia proveniente da Belgrado. L’auto rossa su cui viaggia il resto del gruppo (una piccola combriccola di giovani giornalisti europei) è già parcheggiata davanti all’ingresso principale. In programma, ci sono tre giorni di reportage, dentro e fuori l’area Schengen, nei pressi di una frontiera che negli ultimi sei mesi è stata attraversata da oltre 100.000 rifugiati, provenienti perlopiù dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan.
La prima tappa è la cosiddetta “giungla” di Subotica, un’ex fabbrica di mattoni, dove chi risale la “rotta dei Balcani” si ferma per una notte o due prima di ripartire a piedi per l’Ungheria. Quando arriviamo, tra le strutture abbandonate e l’erba alta, se stanno sdraiate poco più di cento persone, ma qualche settimana prima – assicurano gli attivisti – ce n’erano almeno 400. Disseminata di spazzatura e sotto un sole impietoso, la “giungla” emana un odore pungente. “La discarica comunale dista solo un centinaio di metri da qui: abbiamo paura che arrivino i ratti e che portino delle malattie”, afferma Dalibor Karadža, un volontario dell’associazione serba “Centro per l’integrazione e la tolleranza”.
Altre ONG passano nel giro di poche ore, offrendo assistenza sanitaria di base o portando qualche bene di prima necessità ai rifugiati, altrimenti abbandonati a se stessi. “Avevamo chiesto al comune di portare l’acqua potabile all’interno dell’ex fabbrica, ma hanno deciso di sistemare delle docce oltre la strada”, racconta Dalibor. Per riempire una bottiglia d’acqua, bisogna dunque lasciare il campo e camminare per qualche minuto, attraversando un tratto d’asfalto sbiadito. Mentre usciamo, una Mercedes nera si accosta all’ingresso, il conducente parla con un gruppo di afghani, poi riparte. La targa è di Vrbas, una cittadina serba a 70km più a Sud.
Dalla “giungla” di Subotica, il centro storico dista tre chilometri. Ci si può andare a piedi, seguendo verso Nord i binari che poi proseguono per l’Ungheria (la frontiera è a circa 11km), oppure in taxi o pagando qualche privato. Al municipio, l’assessore agli Affari sociali, Milimir Vujadinović, è al corrente della situazione, ma la sua giunta – dice – “fa quel che può”, a maggior ragione che “questo è un problema dell’UE, non della Serbia”. Dal 2014, il comune stanzia ogni anno circa 23.000 euro (su un bilancio totale di 40 milioni) per l’accoglienza di qualche bambino negli asili pubblici o per il trasporto dei rifugiati che lo desiderano verso gli spazi di accoglienza. Ma sono ovviamente pochissimi quelli che si avvalgono di questi programmi, la maggior parte vuole solo proseguire verso l’Unione europea.
Kanjiža
Quaranta chilometri ad Est, a Kanjiža, un punto di ricezione è stato inaugurato appena due settimane fa, proprio con l’obiettivo di svuotare i centri città della zona. Gli autobus della polizia portano in continuazione nuovi arrivati, che vengono sistemati dentro ampie tende verdi, fornite di tavoli da sagra. All’interno del campo, ci sono servizi igienici e una connessione ad internet, mentre all’esterno uno stand privato cuoce pljeskavice (hamburger) a ripetizione. “Non abbiamo letti, ma c’è spazio per sdraiarsi – spiega Robert Lesmajster, del Commissariato per i rifugiati di Belgrado – E comunque sia, la maggior parte delle persone resta qui solo per qualche ora”.
“Noi partiremo domani”, mi dice fiducioso Ayham, mentre tiene la mano a sua moglie Hadil. Seduta sul prato, questa coppia di siriani si sta riposando dopo la lunga avventura. Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia… In treno, in bus, in taxi, a piedi. “Abbiamo camminato per oltre 150km, in totale!”, assicura Ayham. Hadil conferma sorridendo: “Siamo una super-famiglia!”. Attorno a loro, ci sono le due sorelle non maggiorenni di lei, Hamsa e Idaia, così come il piccolo Zain (il figlio della coppia) con la sua nonna materna Hafisa. “Anche il passeggino è venuto con noi fin da Damasco!”, prosegue il giovane papà, che nel 2012 aveva ottenuto il brevetto da pilota, ma senza mai poterlo utilizzare. Sono diretti in Germania, dove uno zio vive già da qualche anno.
Calata la sera, mentre Robert Lesmajster continua a illustrare le regole del campo a chi entra, un folto gruppo varca l’ingresso in direzione opposta. Sono soprattutto siriani, muniti di gps o smartphone e con uno zaino o un bambino sulle spalle. Il confine ungherese è ad una quindicina di chilometri da qui e per arrivarci si seguirà controcorrente il corso del Tibisco (Tisza/Tisa) che taglia perpendicolarmente la frontiera. Alle nove, ci si incammina lungo la strada asfaltata, mentre le automobili sfrecciano a fianco con gli abbaglianti accesi. La si segue per qualche chilometro, poi si svolta a destra, prendendo una piccola discesa di ghiaia che porta all’argine.
È la prima sosta. Ci sediamo tutti a terra, sotto un limpido cielo d’agosto, continuamente attraversato da stelle cadenti. Un ragazzo con un cappellino bianco detta le poche regole del viaggio: “Non camminate troppo sulla destra perché c’è il fiume e spegnete i cellulari”. Si riparte sulla terra battuta, nascosta tra gli alberi e la riva, mentre le conversazioni proseguono sottovoce. Omar, uno dei pochi Iracheni presenti, chiede: “Sei sposato?”. Nemmeno lui lo è – dice scuotendo la testa – ma spera, a breve… Sta camminando in infradito, ma, ridendo, assicura di avere un paio di scarpe nello zaino.
Fa ancora caldo e l’umidità attira le zanzare. Il sentiero che seguiamo è cosparso di bottiglie di plastica vuote, segno che non siamo i primi a percorrerlo. Gli agenti ungheresi potrebbero dunque essere in agguato, oltre la frontiera. Che fare nel caso li si incontri? Le opinioni divergono. Farsi arrestare significa dover dare le proprie impronte digitali e rischiare, in seguito, di essere deportati in Ungheria dagli altri Stati membri dell’Unione (come vorrebbe il Protocollo di Dublino II). Tuttavia, rifiutare la richiesta di asilo alle autorità magiare comporta il trasferimento immediato in Serbia. Tutti preferirebbero la terza via: passare in incognito fino all’Austria. Ma è meno probabile che riesca.
Passata la mezzanotte, all’ennesima pausa, un ragazzo si lascia cadere a terra, sfinito. Si chiama Mustafa e, da metà coscia in poi, la sua gamba destra lascia spazio ad una protesi rigida. Non ce la fa più a continuare. “Potete aiutarlo, per favore?”, chiede il suo amico, che per mano tiene già la moglie e la figlia. La schiena di Mustafa è completamente bagnata e lui ripete “yalla” a denti stretti. Lo si solleva in due e si riparte. Più il tempo scorre, però, più i bambini iniziano a lamentarsi ad alta voce. Alla frontiera mancano pochi chilometri, ma ormai è buio pesto e anche i visi familiari si sono trasformati in sinistre sagome nere.
Il pianto di Zakaria buca il silenzio verso l’una di notte, facendo sussultare tutto il gruppo. Subito, in quattro, cinque provano a calmarlo, ma è inutile, il piccolo non ha nemmeno due anni e grida sempre più forte, mentre dalla foresta, oltre il fiume, arrivano i latrati e gli ululati dei cani. Ci vorranno venti minuti perché torni la calma. Nel frattempo, secondo chi ha il gps in mano, abbiamo passato la frontiera e siamo ufficialmente nell’Unione. Ma non c’è tempo per festeggiare: all’orizzonte, un attimo dopo, appare una misteriosa luce blu e ci si ferma di nuovo. Entrare nella foresta, continuare sulla stessa via, nel dubbio si aspetta.
Quando l’alone luminoso si spegne, i rifugiati decidono di proseguire lungo l’argine. Noi, però, dobbiamo tornare indietro, perché andare oltre potrebbe voler dire essere scambiati per dei trafficanti di esseri umani. Due persone afferrano allora Mustafa che ancora zoppica e ci scambia qualche saluto frettoloso. Poi si riparte in due direzioni opposte.
Asotthalom
Dal lato ungherese della frontiera, di prima mattina, Barnabas Héredi viaggia sulla sua Lada bianca alla ricerca di chi ha attraversato il confine durante la notte. E’ uno dei “rangers” che il comune di Ásotthalom ha assunto per aiutare la polizia locale. Una volta intercettato un gruppo di rifugiati, il suo compito è di condurli ad uno dei vari “punti di raccolta”, dove le forze dell’ordine passeranno più tardi. Davanti alla sua macchina, alle 8:30, camminano già diverse decine di persone, perlopiù Afghani, partiti dalla Serbia dieci ore prima. “Siamo in Ungheria, vero?”, domanda Aziz. Quando annuisco, tira un sospiro di sollievo. Barnabas li segue a marce ridotte, con le quattro frecce lampeggianti. A guardarlo, sembra una sorta di pastore motorizzato.
“Che succederà ora?”, chiede il ventiduenne Ali, originario del Nord dell’Afghanistan e ormai giunto allo spiazzo già presidiato dagli agenti. La polizia sta caricando tutti i presenti su diversi autobus diretti a Seghedino (Szeged), la prima grande città ungherese (circa 160.000 abitanti). Dopo aver completato la richiesta di asilo, i rifugiati riceveranno un foglio che permetterà loro di viaggiare nel Paese, in teoria per raggiungere uno dei centri di accoglienza. Ma la maggior parte di loro userà questo lasciapassare per continuare il percorso verso l’Europea occidentale. “Io vorrei andare a studiare in Finlandia”, racconta Ali, che quindi è ancora lontano dall’essere arrivato a destinazione. “Me lo ricorderò per sempre questo viaggio!”, esclama.
L’ultima tappa è dunque Szeged, dove partono i treni per Budapest. Al quartier generale della polizia di frontiera, nella sala riservata alle interviste con la stampa, il comandante Gabor Eberhardt sta parlando con una troupe televisiva di Vienna. “Installerete dei sensori termici nei pressi del muro?”, “Ci saranno degli agenti a pattugliare la frontiera?”, chiedono i giornalisti austriaci. “E quanti migranti sono già stati rispediti in Serbia?”, domandano preoccupati. Nell’aria c’è un’ansia da ondata migratoria. L’agente risponde, poi si scusa: “I vostri colleghi stanno aspettando”. C’è giusto il tempo per una foto ricordo assieme al poliziotto magiaro, poi gli austriaci partono.
Gabor Eberhardt è responsabile di circa 45km di confine, attraverso cui passa il 90% degli ingressi illegali nel paese. I suoi uomini – spiega – si occupano di arrestare i rifugiati e di assicurarsi che facciano richiesta di asilo. “Solo il 15% rifiuta di fare la domanda ed è dunque riportato in Serbia”, afferma Eberhardt, secondo cui le detenzioni sono sempre fatte “nel rispetto della legge”, ovvero “per un massimo di 36 ore”, “in locali al riparo dal caldo” e persino “fornendo cibo a seconda della religione di ciascuno”. Ma le foto che la parlamentare ungherese Tímea Szabó ha scattato a metà luglio all’interno dei centri di Röszke e Szeged mostrano piuttosto delle gabbie dove i materassi sono gettati sul pavimento.
Anche la storia dei panini ad hoc pare non tenere. Alla stazione ferroviaria di Szeged, ad un quarto d’ora dalla stazione di polizia, gli attivisti del gruppo di solidarietà ai migranti “Migszol” si limitano a offrire ai rifugiati soltanto acqua e caffè. “Sul cibo non si fidano più degli ungheresi: hanno già ricevuto troppe volte della carne di maiale che avrebbe dovuto essere qualcos’altro”, afferma Daniel Szatmary. Questo giovane alto e robusto è uno dei 200 volontari che ogni giorno accolgono le persone portate dalla polizia. Dal primo luglio, dispongono di una casetta di legno presidiata quasi 24 ore su 24. In inglese e in arabo, forniscono delle informazioni sui prossimi treni per la capitale, sui “veri” prezzi che dovrebbero essere applicati dai tassisti (che invece chiedono fino a 400 euro per due ore di tragitto) e, più in generale, su quello che aspetta chi è appena arrivato a piedi dalla Serbia.
Alle 20:45, l’ultimo diretto per Budapest è arrivato. I volontari del Migszol si affrettano a dare gli ultimi consigli: “Non usate le toilettes quando il convoglio è fermo” e “Non fumate in treno”. Qualcuno, euforico, si distrae, ma gli attivisti insistono: “Sul serio, sono 50 euro di multa altrimenti!”. Si corre sulle scale che portano ai binari e, prima di salire, ci si presta a qualche scatto di gruppo. Poi il capostazione fischia e qualcuno si affaccia al finestrino. Nella luce dorata dei lampioni, i tratti tesi della stanchezza sfumano adesso nei primi sorrisi. La strada è ancora lunga per raggiungere la Germania o la Svezia ma, stasera, i chilometri che restano sembrano in discesa. E davanti a questo treno in partenza, il vento che ci spettina ha come un profumo di rinascita. Il brivido lussuoso di un ritorno alla normalità.