Ungheria: in cammino con i profughi
Attraverso il confine con la Serbia fino a Budapest e poi oltre, in marcia verso l’Austria. Una giovane volontaria ha seguito alcune settimane fa un gruppo di rifugiati nel loro viaggio e ci racconta la sua esperienza. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
A Budapest è scoppiata la crisi dei rifugiati. Il governo ungherese li chiama “immigrati illegali”, e fin’ora ha preferito investite in muri e filo spinato invece di centri di accoglienza.
Lavoro a Budapest da qualche mese, e mi sono informata di come potessi aiutare le organizzazioni locali. Due settimane fa nel pomeriggio tardo sono passata alla stazione di Nygati, in una delle aree di transito, per portare del cibo e vedere se potessi dare una mano ai volontari.
Transit zone
Le “transit zone” , le zone di transito, sono delle aree, nei pressi delle principali stazioni ferroviarie a Budapest, riservate alla sosta dei rifugiati che dalla metà di agosto sono arrivati a migliaia nella capitale ungherese. Il governo afferma che è una soluzione per evitare che possano intralciare nel percorso quotidiano dei pendolari.
Non appena i rifugiati arrivano a Budapest da Szeged, la città più vicina al confino serbo, essi vengono ridiretti in queste zone prima di procedere verso la meta successiva: moltissimi non hanno intenzione di rimanere in Ungheria. L’intenzione è quella di ricongiungersi con i famigliari, quando gli chiedi la destinazione finale la risposta è univoca: Germania.
A Nyugati, una delle tre principali stazioni ferroviarie di Budapest, ho seguito gli svariati cartelli “TRANSIT ZONE” per arrivare ad un parcheggio appena fuori dalla stazione, lontano abbastanza per non essere visto dalla strada e dall’ingresso principale. Probabilmente è uno dei parcheggi che è riservato al personale ed era stato improvvisamente riclassificato come zona di transito.
Improvvisamente perché nulla faceva pensare ad uno spazio pensato per accogliere delle persone: i rifugiati dormivano all’addiaccio, alcuni organizzati con tende ed alcuni con coperte improvvisate.
“The collection of food is over there” mi indica uno dei volontari, puntando il dito verso un container non troppo distante.
“This is a transit zone, not a refugee camp” appare a grandi lettere su un foglio appiccicato al centro del container. Questa è una zona di transito, non un campo per rifugiati. Appena sotto la versione in francese, ungherese, arabo e urdu. Ciascuna traduzione termina con il disegno abbozzato di una faccina sorridente.
All’interno del container i volontari raccolgono alimentari, vestiti, medicinali e tutto ciò che può essere utile per passare la notte, donazioni da parte di privati. I volontari sono coordinati da Migration Aid , un’associazione ungherese che fornisce aiuto ai rifugiati in tutte le “aree di transito” di Budapest. I volontari forniscono informazioni, raccolgono le donazioni, preparano i panini da distribuire. Il tutto senza alcun appoggio del governo.
Alla stazione
“Katasztrófa, katasztrófa!” borbotta una volontaria facendosi spazio nel gruppo di rifugiati antistante al container che chiede ora una coperta, ora dell’acqua, ora le scarpe, ora lo shampoo.
La ragazza inizia a parlare fitto in ungherese e dopo qualche minuto mi azzardo nel chiederle cosa stia succedendo. “Polizia, polizia ovunque” mi risponde frettolosa. Dopodiché mi invita a dirigermi con lei alla stazione: il treno delle 23:07 è l’ultimo proveniente da Szeged e potevamo distribuire ai rifugiati il materiale informativo, che consisteva in un foglio con le informazioni basiche sull’Ungheria e sui diritti dei rifugiati in Ungheria.
Sicché si prende i fogli informativi in varie lingue, inglese pasthu arabo urdu, e si procede verso il binario 9. Ora, è bene sapere che nei primi giorni di questa crisi umanitaria a Budapest non si era vista che l’ombra di un solo poliziotto nell’aria di transito a Nygati. Per cui, è facile immaginare il nostro stupore nell’uscite dal sottopassaggio e ritrovarsi davanti cinquanta, sessanta poliziotti, distribuiti lungo il binario in attesa dell’arrivo del treno.
Da un lato, una lunga serie di barriere metalliche alte almeno un metro e mezzo, dall’altro, un treno fermo in sosta, lasciando un’unica via per uscire dalla stazione.
Una volta arrivato il treno, dalla prime carrozze alcuni ungheresi scendono in fretta, lanciando occhiate sospettose verso poliziotti e ai volontari mentre si allontanano rapidi. I rifugiati, a cui è permesso di salire solo nell’ultimo o massimo ultimi due vagoni del treno, scendono lentamente guardandosi attorno stanchi ed incerti e fermandosi per qualche secondo a scrutare i poliziotti.
Un ragazzo dei volontari si avvicina al gruppo e, dopo aver chiesto senza successo se ci fosse un interprete dall’arabo, sbraita in inglese di mettersi in fila e di porgergli i documenti. “You go to Debrecen, this way” sbotta dopo aver controllato il documento al primo della fila, indicandogli uno dei due gruppi di poliziotti che si era formato, sbarrando la strada. “Bicske, this way” e indica il gruppo alla sua destra.
Così, uno per uno, famiglia per famiglia, un centinaio di persone vengono divise in base ai documenti ricevuti al centro di accoglienza al confine serbo. Guardo la scena sentendomi inutile e nauseata. Alice, una mia amica che era con me quella sera, si avvicina e mi dice una sola frase che mi fa realizzare perché sento la stomaco contorcersi: “Questa scena mi ricorda un altro periodo storico. Mi ricorda l’Olocausto”.
A Szeged
Mi sono ritagliata una giornata per andare ad aiutare i volontari a Szeged, la città ad una quindicina di chilometri dal confine con la Serbia.
I poliziotti portano – il verbo corretto in realtà sarebbe “scaricano” – i rifugiati dal centro di accoglienza a Röske davanti alla stazione, o direttamente sui binari per il treno con destinazione finale Budapest. I volontari dell’organizzazione Migzol Szeged preparano acqua e panini per il viaggio, controllano se le madri con bambini piccini hanno necessità, se le donne incinte stanno bene.
La giornata passa veloce, i bus arrivano improvvisamente perché nella maggioranza dei casi la polizia non avvisa i volontari.
Tamasz, il coordinatore del gruppo, mi racconta che il centro di accoglienza non è il peggio nel loro viaggio passato il confine d’ingresso dell’Unione Europea. “Il peggio sono i cosiddetti ‘punti di raccolta’ sul confine” mi dice. Strano, dai racconti dei rifugiati il centro d’accoglienza era sembrato il posto peggiore. Tamas mi spiega meglio: “I punti di raccolta sono dei punti in mezzo al nulla dove i poliziotti radunano i rifugiati una volta che li hanno sorpresi a sorpassare il confine, il filo spinato. I rifugiati sono costretti a rimanere in questi punti per ore, anche sei otto dieci ore. Non ricevono acqua né cibo e di notte le uniche luci sono quelle delle macchine della polizia. Sono fortunati se ci sono dei bagni”.
I volontari accompagnano i rifugiati sul treno diretto a Budapest. Solo un vagone, massimo due per i rifugiati, si raccomanda il capotreno. Sia mai che siano con gli altri passeggeri – ungheresi e turisti -nello stesso vagone.
I bambini e ragazzi si affacciano ai finestrini e ci salutano con grandi sorrisi. Nonostante la stanchezza, nonostante tutto ciò che hanno passato, sorridono felici di procedere verso la prossima meta, ancora pieni di speranza per un futuro migliore.
Una donna dai lineamenti eleganti sorregge al finestrino abbassato il suo bambino, intento a salutare i volontari e regalar loro grandi sorrisi. Anch’essa sorride speranzosa.
Le chiedo se posso scattarle una foto assieme alla sua famiglia. Mentre scattavo la foto, una nota di amarezza contrastava il loro umore raggiante. Ripugnavo l’idea che quel treno li portasse ad una delle aree di transito di Budapest, dove di speranza ve n’era così poca. In quelle aree di transito in cui erano bloccati, impossibilitati a tornare indietro e incapaci di costruire la loro vita in quei luoghi, anzi dei “non-luoghi”.
Non sapevo in quel momento che avrei rivisto la donna dai lineamenti eleganti un paio di giorni dopo, all’area di transito della stazione di Keleti. A Keleti, dove si ammassavano centinaia e centinaia di rifugiati e l’esasperazione aveva raggiunto il massimo. Avevo portato ai volontari delle barrette di muesli e dei succhi di frutta per i bambini, facendo fatica ad arrivare al centro di Migration Aid.
Non mi ero nemmeno accorta della presenza delle donna finché la mia amica Alice mi indicò uno dei punti nella folla: “Guarda, è la donna a cui hai scattato la foto a Szeged”. Corsi a salutarla, pensai che fosse straordinario che l’avessi rivista in mezzo a quel numero spropositato di persone. Lei mi sorrise, riconoscendomi. Tossiva, non aveva più il sorriso speranzoso di quando le avevo scattato la foto. Ed io non ero felice di rivederla. Non lì, a Keleti, nell’area di transito.
La marcia della speranza
Il giorno dopo i rifugiati, dopo che il governo ungherese aveva bloccato per giorni ogni mezzo di trasporto possibile per raggiungere la Germania, presero una decisione immediata in seguito alla “March of Hope”, la marcia della speranza. I rifugiati infatti, stanchi dell’attesa ed esasperati dalla situazione, avevano iniziato a camminare a piedi verso il confine austriaco.
Nel giro di una notte, svariati autobus ungheresi erano in tutte le zone di transito per portare i rifugiati al confine austriaco.
Keleti e Nygati erano ora deserte, ma non a lungo. Sparsa la notizia, i rifugiati nel campi di Debrecen e Bicske erano scappati per compiere, a loro volta, una nuova marcia della speranza verso l’Austria e la Germania.
In una di queste marce ho conosciuto Samara, una giovane siriana. Ero finita sul tragitto della marcia dopo aver portato a Keleti alcune provviste, ed insieme ad Alice decidemmo di unirci e vedere come potessimo aiutare. Avevo visto Samara e suo fratello carichi di zaini e borse, e li convinsi a farmeli portare per una parte del tragitto. La sera io potevo tornare a casa e riposarmi, loro avevano davanti un lungo viaggio in cui le energie si sarebbero rivelate preziose.
Samara aveva un inglese basico che mi permetteva di chiacchierare con lei, anche se a tratti era così presa dalla conversazione che quando non si sapeva esprimere in inglese mi parlava fitto fitto in arabo. Come se capissi qualcosa.
La sua famiglia veniva dal campo di Debrecen. Raccontò che là non davano da mangiare ed erano stati picchiati. Quando passammo su Erzsébet hid, il ponte di Elisabetta, la madre di Samara mi indicò con calmo entusiasmo il castello di Buda e disse “beautiful, very beautiful!”. Samara mi prese per mano e camminammo cinque chilometri attraversando prima Pest, poi Buda, verso i confini della città.
Alice, che a sua volta stava aiutando un bambino a portare uno zaino, mi disse che aveva parlato con alcuni dei volontari ungheresi e che si provava ad andare alla stazione di Deli: da lì si poteva prendere un treno in partenza per Györ, al confine con la Slovacchia. Lungo il tratto era possibile cambiare treno e proseguire fino a Hegyeshalom, al confine con l’Austria.
“Cristina and Samara friends” mi disse la giovane siriana, e mi diede un braccialetto di plastica come regalo. “Yes Samara, friends. Good luck my friend, have a safe trip” le risposi quando le porte del treno si chiusero.
Buona fortuna, Samara.
Buona fortuna, donna dai lineamenti eleganti.
Che quest’Europa vi possa riservare qualcosa di più del trattamento che avete ricevuto in Ungheria.