Sant’Egidio in Albania: le religioni di fronte alla piramide
L’Albania, aperta al mondo, grazie ad una tre giorni di conferenze e dibattiti interreligiosi promossi dalla Comunità di Sant’Egidio. Un’occasione importante, e in parte lasciata per strada
Dal 6 all’8 settembre scorso si è svolta a Tirana la ventottesima conferenza internazionale della Comunità di Sant’Egidio: una manifestazione nata dall’intuizione di Papa Giovanni Paolo II, che nel 1986 riunì in Assisi sessantadue capi religiosi per dare vita a una giornata di «preghiera mondiale». Da allora Sant’Egidio porta a spasso per il pianeta lo «spirito d’Assisi», organizzando ogni anno incontri sul tema della pace nel mondo. Negli ultimi anni si è stati a Sarajevo (2012), Roma (2013) e Anversa (2014). Il 2015 è stato l’anno di Tirana.
Da quando, un anno fa, Papa Francesco rese visita all’Albania (era il 21 settembre 2014) la ex repubblica di Enver Hoxha è stata promossa a terra della resistenza spirituale e del dialogo interreligioso. Nel ventesimo anniversario dell’ultima guerra balcanica, in un contesto in cui i Balcani sono tornati a essere una regione di migrazioni globali, la parola di pace di Sant’Egidio ha trovato in questa provincia ai confini d’Europa un’ideale cassa di risonanza. Ma in che modo, da parte albanese, è stata vissuta quest’inedita apertura al mondo?
Le religioni nei luoghi del comunismo
In appena due giorni di permanenza più di 400 relatori religiosi e laici provenienti da 60 paesi si sono riuniti in ventisei panel di discussione ecumenica. Uno sforzo organizzativo impressionante, che per quarantott’ore ha trasformato Tirana in fucina di riflessioni globali: guerra e mercati, Europa e mondo, religioni e globalizzazione, era dai tempi dell’alleanza con la Cina di Mao che l’Albania non aveva la testa così tanto lontano da casa.
Ad ospitare la sessione inaugurale è stato il Palazzo dei Congressi, un imponente edificio costruito da un regime già putrescente per ospitare le riunioni del Partito del Lavoro Albanese. Nei loro messaggi di saluto fatti pervenire agli organizzatori, Papa Francesco ha posto l’accento sul «fondamento religioso» della pace e il Presidente della Repubblica Mattarella ha auspicato che la politica dimostri di sapersi porre «alla guida dei processi mondiali». Il discorso di Andrea Ricciardi ha voluto interpellare le coscienze dei presenti: il fondatore della Comunità di Sant’Egidio si è chiesto dove fosse un movimento di pace della Siria e si è scagliato con energia accorata contro l’assuefazione, la rassegnazione, il «sonno dello spirito» dei credenti. Barocca fino all’incomprensibile la retorica del premier albanese Edi Rama, che nel dare il benvenuto «ad amici così speciali nel paese della fratellanza» si è confermato la bestia nera dei traduttori simultanei: al termine del discorso del primo ministro, nessun giornalista internazionale aveva sul blocchetto una frase completa.
Due giorni dopo, a seguito di una preghiera interreligiosa dislocata in diversi punti della città, la piramide di Enver Hoxha – eretta nel 1988 alla memoria del dittatore – ha fatto da sfondo alla suggestiva cerimonia di chiusura. Dopo il discorso del Presidente della Repubblica Bujar Nishani, la lettura dell’appello finale e l’accensione dei ceri della pace sulle note diffuse con tempismo dagli altoparlanti, le centinaia di presenti si sono sciolti in un contagioso abbraccio fraterno.
La conferenza di Sant’Egidio, il cui messaggio non può che essere condiviso da credenti e non, in Albania ha avuto l’ulteriore merito di portare una parola mondiale là dove per tanto tempo il mondo non era stato ammesso. Nella loro sapiente combinazione, le storiche location del potere comunista hanno fornito un’eccellente cornice di senso allo «spirito d’Assisi»: "La pace è sempre possibile", anche là dove, viene da aggiungere, non avremmo mai sospettato che potesse arrivare.
La nazione nel luogo delle religioni
Se, dal punto di vista del messaggio universale, la manifestazione ha senza dubbio colto nel segno, sul fronte albanese del dibattito sono state però perse occasioni di confronto autentico. È il caso all’atteso panel «Albania, terra del convivere», l’unico incontro dedicato esclusivamente al paese ospitante. Moderati dal neo sindaco di Tirana Erion Veliaj, a quel tavolo avrebbero dovuto dibattere cinque relatori albanesi in rappresentanza di altrettante anime religiose: il vescovo cattolico Lucjan Avgustini, il Presidente della Fraternità Evangelica Ali Kurti, il vescovo ortodosso Andon Merdani, l’ex ministro degli Esteri Tritan Shehu, il vice Presidente della comunità islamica albanese Ali Zaimi. Ma più che a un vero confronto ecumenico tra le diverse fedi d’Albania, i numerosi uditori che hanno affollato la sala conferenze della Cattedrale Ortodossa nella speranza di entrare in contatto con la rinomata ricchezza religiosa del Paese delle Aquile, non vi hanno trovato che un pensiero unico nazionale.
Limitandosi ad esternare, all’unisono, la soddisfazione istituzionale delle loro comunità per il riconoscimento internazionale del «modello albanese», i relatori hanno di fatto inibito uno scambio interreligioso propriamente inteso, su diverse basi teologiche. In altre parole, a quel tavolo non si è potuti giungere ad alcuna sintesi virtuosa, perché nessun relatore si è reso disponibile a giocare il ruolo della tesi e dell’antitesi.
In quel contesto il difficile compito di scalfire l’asfittica formalità degli interventi è toccato all’unico relatore non autoctono: Roberto Morozzo della Rocca, storico di lungo corso dell’Europa Orientale da sempre attento al cruciale e politico intreccio tra appartenenza nazionale e credo. Riprendendo i cardini analitici del suo libro Nazione e religione in Albania, Morozzo ha ricordato come la convivenza tra diverse fedi ed etnie fosse un dato acquisito già all’interno della compagine imperiale ottomana, un ordine sincretico che entrò in crisi solamente con l’affermarsi dei nazionalismi. Come sottolineato da Morozzo, in tempi risorgimentali il primato del sangue su Dio fu senza dubbio funzionale all’edificazione di uno stato albanese indipendente. Nel secondo dopoguerra, però, l’«albanesità» della Rilindije venne ripresa volentieri dal regime dell’«uomo nuovo» nella lotta contro le diversità spirituali: nell’Albania socialista la libertà religiosa non venne repressa unicamente nel nome dell’ideologia marxista, ma a tutela di una nuova religione atea (e intrinsecamente nazionalista) di cui Enver Hoxha fu l’unico teologo autorizzato (piramide docet).
Purtroppo, ancora oggi, i legami di lungo periodo che la dittatura enveriana intrattenne con il nazionalismo albanese continuano a essere poco indagati. Accontentandosi di archiviare il vecchio ordine come «comunista» – un’etichetta che ha il pregio di facilitare la rimozione nazionale, perché non albanese – l’immagine delle religioni invitte, riunite a un tavolo dopo mezzo secolo di martirio, aumenta certo in efficacia; di per sé, però, ciò non basta ad assicurare l’esistenza di un genuino dialogo tra fedi reciprocamente riconoscentesi, soprattutto se, chiamati a dibattere ecumenicamente, i loro capi si limitano a fondare la loro pax sul primato politico – tanto risorgimentale quanto enveriano – della comune appartenenza nazionale. Sepolto il comunismo, una buona domanda che tutti i religiosi d’Albania dovrebbero porsi è: su quale mito nazionale è mai stata fondata la pace?
Non è un caso che con la finezza linguistica, l’intelligenza e la sensibilità che sono proprie dei grandi studiosi, Morozzo abbia cercato, chiudendo il suo intervento, di individuare un’albanesità «umanistica» – ovvero culturale – da contrapporre finalmente a quella «naturalistica» del poeta risorgimentale Pashko Vasa: "Quell’albanesità che è socievolezza, attaccamento alla tradizione, tolleranza (vivi e lascia vivere), accettazione dei propri limiti, legame tra vicini, interesse per il mondo attorno, astuzia del quotidiano, affettuoso pettegolezzo tra amici, gioia vitale". Una definizione che pare già calzante: osservando i lavori di Sant’Egidio dal lato albanese, la bandiera sempre più sbandierata del dialogo interreligioso ha in effetti tutto il sapore di una «gioia vitale» un pochino superficiale, se non, volendo essere un po’ maliziosi, di un’«astuzia del quotidiano».