Rifugiati nel limbo tra Croazia e Slovenia
In attesa del summit europeo coi Balcani occidentali, i campi profughi allestiti in Slovenia sono al collasso. Situazione critica nel campo di Brežice dove ieri sono bruciate delle tende. Reportage
All’uscita dal centro di transito di Brežice, Radi se ne sta in piedi con le mani incrociate davanti al petto. Porta una sciarpa leggera, un maglione chiaro e un paio di jeans sporchi di fango. “Mi sento molto stanca – dice – stanotte ho dormito all’aperto per terra. Faceva molto freddo”.
Radi viene dalla Siria ed è incinta di quattro mesi. Nella confusione generale e sotto la pioggia battente dei giorni scorsi, anche lei è finita in questo campo subito oltre la frontiera croata, inizialmente concepito per accogliere qualche centinaio di persone, ma ormai stipato con più di duemila rifugiati.
All’interno, racconta Amjad, un 23enne di Damasco, “c’è l’inferno”. “Mi dispiace dirlo, perché rispetto questo paese, ma ci ho passato un giorno e mezzo senza mangiare e senza bere. Se dici “ho fame” o “ho sete”, ti viene detto di aspettare. Ma aspettare cosa? Di morire?”. Appena uscito, Amjad aspetta ora un autobus che lo porterà alla stazione ferroviaria più vicina, dove prenderà poi un treno per l’Austria. Guarda il cancello sbarrato che ha varcato e scuote la testa. Nonostante gli agenti ci tengano a quattro metri di distanza dall’ingresso, si sente chiaramente quello che un poliziotto sta gridando al megafono. “Ehi voi! Non spingete contro la porta! Partirete tutti, se cooperate!”.
La Slovenia travolta dagli eventi
Da quando l’Ungheria ha chiuso la sua frontiera con la Croazia, lo scorso venerdì 16 ottobre a mezzanotte, le autorità slovene hanno registrato oltre 25.000 ingressi, ad un ritmo quotidiano di circa 5.000 persone al giorno, ben superiore alla soglia di 2.500 considerata “gestibile” da Lubiana. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Nel giro di pochi giorni, il governo di Miro Cerar si è visto obbligato a prendere una serie di misure straordinarie, dalla sospensione del traffico ferroviario con Zagabria (sabato 17) fino alla modifica della legge di Difesa per permettere il dispiegamento dell’esercito al confine (giovedì 22). Nel frattempo, un treno con 1.800 rifugiati è stato bloccato in piena notte alla città frontaliera di Trnovec, il passaggio ai valichi di Harmica e Miljana è stato vietato ad ogni tipo di veicolo ed un elicottero è stato inviato a pattugliare l’area sopra Brežice. Ma senza risultati.
L’incessante flusso in arrivo dalla Croazia è proseguito attraverso i campi di granoturco, per evitare i posti di blocco delle forze dell’ordine. Tanto che i poliziotti hanno finito per guidare la gente a cavallo, come improbabili condottieri in un film surreale.
“La Slovenia è lo stato più piccolo sulla rotta dei Balcani, con possibilità ridotte, sia in termini di vigilanza che di accoglienza”, ha affermato martedì l’esecutivo di Lubiana, intimando ai colleghi di Zagabria di “rispettare gli accordi”, diminuendo il numero di autobus e treni speciali a destinazione della frontiera comune.
“La Slovenia è un paese organizzato, se la Croazia può ricevere 10.000 persone al giorno, possono farcela anche loro”, ha risposto ieri il Primo ministro croato Zoran Milanović. “Abbiamo raggiunto il limite delle capacità ricettive”, rimbalza Lubiana. “I rifugiati devono andare avanti”, insiste Milanović, già dimentico di quando, appena un mese fa, accusava Belgrado di indirizzare verso Šid/Tovarnik una marea umana incontrollata.
A decidere la fine del battibecco bilaterale sarà l’Austria, sostiene (anche se in altri termini) la ministra degli Interni slovena, Vesna Györkös Žnidar. “È fortemente probabile che Vienna annuncerà a breve di non poter accettare più alcun profugo”, ha dichiarato ieri la ministra. In quel caso, ha già anticipato la responsabile della diplomazia croata, Vesna Pusić, il governo croato dovrà, anche se controvoglia, chiudere a sua volta il passaggio con la Serbia.
In attesa del summit europeo coi Balcani occidentali
Mentre le cancellerie della regione si danno appuntamento per questa domenica a Bruxelles, dove Jean-Claude Juncker ha indetto un summit europeo sull’argomento, nel piccolo comune di Dobova, Sonja guarda dal suo terrazzo le centinaia di rifugiati che sono stati ammassati nel prato di una fabbrica abbandonata.
“Sono già stata a portare loro qualche vestito – confida quest’infermiera di formazione – e ho detto ai miei bambini che non devono aver paura, non sono persone pericolose”. I suoi nuovi vicini di casa dormono quasi tutti, sdraiati sull’erba, dopo aver appeso i loro vestiti, fradici di pioggia, sulla ringhiera che li rinchiude.
“Nessuno sa dove ci porteranno. Forse in Austria, ma non so quando. Domani, oggi, stasera… nessuno lo sa”, afferma Ranch, un barbiere iracheno che si è avvicinato alla staccionata per chiedere una sigaretta. Ai suoi piedi, una famiglia di siriani si è appena riunita in cerchio su un asciugamano per l’ora di pranzo. Il papà ha potuto ottenere da qualche volontario una scatola di sardine e del pane in cassetta. Si aiuta con la lamiera piegata e prepara dei panini per i due figli.