Slow Food Bulgaria: sapori di confine
Nelle montagne della Strandzha, al confine tra Bulgaria e Turchia, produttori testardi e orgogliosi portano avanti la produzione di "kiselo mlyako" (latte acido) simbolo e frutto di tradizioni millenarie
Attaccamento alla propria terra, orgoglio da vendere e una cocciutaggine che talvolta sembra rasentare la follia. Sono questi gli ingredienti necessari, nella Bulgaria di oggi, per scommettere su un futuro incerto da piccolo allevatore e produttore di prodotti caseari. Anche e soprattutto se si parla di “kiselo mlyako” (latte acido o yogurt) il cui legame profondo e ombelicale con questa terra è testimoniato dal nome di uno dei microorganismi – lactobacillus bulgaricus (l’altro è lo streptococcus thermophilus) – responsabile della magica fermentazione.
Per rendersene conto, non esiste posto migliore delle alture boscose della Strandzha, lembo misconosciuto ed appartato della Bulgaria, stretto tra le acque Mar Nero e il confine con la Turchia. Un luogo magico – è qui che ancora si conserva la tradizione arcana, misteriosa ed irripetibile dei nestinari, i danzatori sulle braci ardenti – ma oggi stretto tra isolamento, crisi economica e una devastante depopolazione che rischia di mettere la parola fine a tradizioni antichissime, prodotti unici e preziosa biodiversità.
Nella Strandzha Stoyan Iliev c’è arrivato quindici anni fa, inseguendo la passione per la pesca lungo il corso tortuoso del fiume Veleka. Una passione che, negli anni, s’è trasformata in un progetto di vita, che oggi condivide con la moglie e i quattro figli. A Kovach, nel cuore del parco naturale che copre buona parte del territorio della regione, negli anni Stoyan ha costruito con tenacia e pazienza un’azienda che combina le migliori potenzialità della Strandzha: turismo alternativo e produzione biologica.
Oltre ad offrire un’ospitalità tanto semplice quanto calda nel loro agriturismo, Stoyan e la sua famiglia producono menta e tè biologici ma, soprattutto, allevano più di 120 bufale da latte. Le guardiamo pascolare in un paesaggio primordiale, arso dalla calura estiva, macchie nere che potrebbero passare quasi inosservate tra la bassa e fitta vegetazione scura, se non fosse per il pendolare ritmico delle code, impegnate a scacciare testardamente nuvole di mosche.
“In Bulgaria le bufale hanno una tradizione secolare, ma le conoscenze e la capacità di allevarle diventano ogni giorno più rare”, confida Stoyan mentre s’accende l’ennesima sigaretta. “Così come diventa sempre più difficile trovare chi sia in grado di trasformare il loro latte denso e profumato nel ‘kiselo mlyako’, ma anche nel formaggio in salamura (sirene) della nostra tradizione”. Negli occhi di un azzurro chiarissimo di Stoyan, nella sua voce pacata e profonda non si legge rassegnazione, ma la preoccupazione concentrata di chi cerca soluzioni ad una situazione complessa.
Il problema principale è la mancanza, pura e semplice, di forza lavoro. Se in tutta la Bulgaria l’emigrazione ha impoverito le campagne, nella Strandzha il fenomeno ha assunto dimensioni drammatiche. “Da queste parti, la specie più a rischio è l’essere umano”, ci aveva riassunto amaramente la situazione Stefan Zlatarov, per anni direttore del parco naturale ed oggi vice-direttore, nell’unico bar aperto della cittadina di Malko Tarnovo, dove si trovano gli uffici dell’amministrazione. Un dissanguamento dovuto ad una lunga serie di fattori: isolamento geografico, crisi economica, liquidazione dell’attività mineraria – fattore centrale durante gli anni del regime comunista -, infrastrutture carenti. La strada che dal mare porta verso l’interno, ad esempio, è una vera enciclopedia di buche, rappezzata solo qua e là negli anni.
Per il momento, nell’azienda di Stoyan c’è ancora chi è in grado di portare avanti l’alchimia fatata della fermentazione: è Todor, personaggio dallo sguardo enigmatico e dalle risposte sibilline. Nella cucina dell’agriturismo, suo regno incontrastato, Todor ci accompagna durante tutto il processo di produzione del “kiselo mlyako”. Dopo aver pastorizzato il latte appena munto lo lascia raffreddare in un grosso calderone di latta, fino a raggiungere i 47 gradi. A quel punto si aggiungono i fermenti lattici, e il tutto viene coperto da una coltre pesante, per mantenere la temperatura costante per almeno tre ore. “Sembra tutto semplice, ma sono i dettagli e l’esperienza a fare la differenza tra un prodotto passabile ed uno eccezionale”, sorride sornione Todor.
“Per i piccoli produttori come noi, sulla carta l’ingresso nell’Unione europea ha creato nuove possibilità. Potenzialità che purtroppo, per la maggior parte non vengono trasformate in realtà”, è l’analisi succinta di Stoyan. I contributi diretti, naturalmente, sono benvenuti, ma non decisivi. Ma è l’applicazione rigida delle norme comunitarie da parte dello stato bulgaro a creare i principali problemi. Al centro delle critiche è soprattutto il “Decreto 26” che regola la possibilità di vendita diretta dal produttore al consumatore. La norma, introdotta nel 2010, non ha eliminato le difficoltà burocratiche, spesso insormontabili per i piccoli allevatori. E la scarsa flessibilità applicata, ad esempio per quanto riguarda l’applicazione delle norme igieniche, comporta per molti “piccoli” costi d’investimento semplicemente insostenibili.
“Il risultato è che oggi i piccoli produttori non sono competitivi, anche perché le norme rendono difficile e complicata la collaborazione tra più aziende, che potrebbe abbattere i costi. Non restano che due strade: cedere la propria produzione come materia prima ad aziende di dimensione industriale, oppure vendere ai clienti in modo non regolamentato e illegale”, conclude Stoyan. La scarsa efficacia del “Decreto 26” è documentata dalle statistiche recentemente raccolte da Slow Food Bulgaria: solo 464 produttori (ovvero lo 0,5% di quelli ufficialmente registrati) hanno chiesto di poter usufruire della possibilità di vendita diretta delineata dal provvedimento. Di questi, 79 appena quelli producono latte e prodotti derivati.
Per averne conferma, attraversiamo le strade solitarie del parco per arrivare a Yasna Polyana, villaggio di 600 abitanti non lontano dalla costa. Sulle rive di un corso d’acqua dalle acque tranquille e poco profonde, che almeno a prima vista non sembrano giustificare il nome inquietante di “fiume del Diavolo”, pascola un gregge di capre dal mantello di colore variegato. Le guida Mihal Grudov, un giovane pastore dal volto antico, incorniciato da una folta barba dai riflessi rossicci.
Come Stoyan, anche Mihal ha negli occhi la determinazione di restare, e di lottare qui, e adesso, per sé e per i propri figli. Il suo “kiselo mlyako” è quello tipico di latte caprino, meno denso, più leggero, dall’aroma inconfondibile, agro e profumato. Ci porta ad assaggiarlo all’ombra della fitta pergola che orna e circonda la sua casa di due piani nel centro del villaggio, visibilmente soddisfatto dei complimenti che riceve – copiosi – per la qualità del suo prodotto.
“Il pascolo è pulito, le capre sono della razza Byala balgarska tradizionali della regione, il “kiselo mlyako”, così come il sirene e il latte fresco, prodotti secondo la tradizione secolare tramandata dalla mia famiglia. Eppure, paradossalmente, sono costretto ad offrirlo quasi di nascosto, ai limiti della legalità”, racconta Mihal senza nascondere un filo di rabbia.
Per sostenere la sua famiglia, Mihal è costretto a fare più lavori contemporaneamente. Il “kiselo mlyako” e il sirene riesce a produrli soltanto a notte inoltrata, dopo aver pascolato e munto le sue trentacinque capre. Un impegno duro, giorno dopo giorno, che però non sempre riesce a dare i frutti sperati.
“Non mi illudo. Difficile che le cose possano cambiare in fretta. Purtroppo, al di là della burocrazia inefficiente, la vendita diretta di un prodotto di qualità, come il mio, dà fastidio sia ai grandi produttori che alla distribuzione”, riprende il suo ragionamento Mihal. “Ai produttori industriali fa comodo ricevere il nostro latte a prezzi stracciati. Le catene di distribuzione, poi, che interesse avrebbero nel vedere prodotti migliori dei loro, ma venduti sul mercato agli stessi prezzi?”
Chiedo a Mihal se ha mai pensato di abbandonare tutto, di trasferirsi in città o all’estero in cerca di migliori opportunità di vita. Una luce viva gli brilla negli occhi, orgogliosa, quasi un lampo. Per capire, non ho bisogno di aspettare la sua risposta.