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Kosovo, il nodo delle “strutture parallele”
Lo smantellamento delle cosiddette "strutture parallele" serbe – attive nel Kosovo del nord – continua a dividere Pristina e Belgrado, nonostante gli accordi raggiunti a Bruxelles con la mediazione UE
Negli anni i serbo-kosovari che vivono nel centro e nel sud del Kosovo sono stati gradualmente integrati all’interno delle istiituzioni del paese. Le quattro municipalità nel nord del Kosovo a maggioranza serba rimangono invece politicamente legate alla Serbia e lontano da Pristina. La dissoluzione di tutte le strutture parallele di sicurezza serbe in Kosovo è stata una delle questioni politiche più dibattuta nel corso dei negoziati tra Serbia e Kosovo. Ma a partire dall’accordo di normalizzazione delle relazioni – raggiunto a Bruxelles nell’aprile del 2013 tra la leadership serba e quello kosovara – questo lo smantellamento è divenuto un obbligo.
Entrambe le parti si sono in effetti impegnate espressamente nell’implementare l’accordo, ma l’integrazione delle strutture parallele nel sistema legale e amministrativo del Kosovo continua ad essere oggetto di controversie, mentre la situazione politica nel nord del Kosovo resta un tema estremamente sensibile. L’Unione europea ha posto molti sforzi per trovare modalità per l’integrazione delle strutture parallele dentro la cornice istituzionale del Kosovo.
Il nodo della "Civilna Zaštita"
A questo proposito, uno dei processi più complessi, era la messa al bando di tutte le strutture di sicurezza serbe. Dopo l’integrazione degli ex ufficiali serbi nella polizia del Kosovo, come stabilito dagli accordi di Bruxelles, le autorità di Pristina hanno ribadito il sospetto che la "Protezione Civile" (Civilna Zaštita) serba, ancora attiva nel nord, abbia assunto in realtà funzioni di polizia e sia implicata in operazioni di intelligence, fatto totalmente inaccettabile per le autorità del Kosovo.
Per i serbi del nord, la protezione civile è una struttura che – pur operando al di fuori del contesto legislativo del Kosovo -, provvede all’assistenza dei civili in situazioni di emergenza. Per il governo di Pristina però la "Civilna Zaštita" rappresenta un organismo illegale e di carattere paramilitare. Funzionari del governo kosovaro sostengono che i membri di questa organizzazione, supportati e finanziati da Belgrado, siano stati coinvolti nell’organizzazione di proteste e violenze politiche oltre ad essere attive in attività criminali. I membri della "Civilna Zaštita" sono stati accusati di essere armati ed equipaggiati come una formazione paramilitare, situazione che rappresenterebbe una grave minaccia alla sicurezza del Kosovo. Accuse però rigettate dal governo serbo.
Il processo di dissoluzione della "Civilna Zaštita" e la sua integrazione all’interno delle strutture del Kosovo è prevista dagli accordi raggiunti l’anno scorso tra Pristina e Belgrado con la mediazione dell’UE. Secondo tale intesa, 483 membri dell’organizzazione dovrebbero essere integrati in diversi organi governativi ed agenzie, 50 verrebbero pagati con fondi contingenti mentre altri 218 dovrebbero essere licenziati.
Da parte sua Belgrado ha promesso di cessare di finanziare la protezione civile e recentemente alcuni suoi membri hanno firmato dei contratti con istituzioni del Kosovo. Per il personale riassorbito nelle istituzioni di Pristina, la scorsa settimana la missione OSCE in Kosovo ha iniziato un percorso di formazione di sei settimane, volto a presentare agli ex membri della "Civilna Zaštita" il contesto istituzionale e legale del paese, inclusi i diritti delle comunità etniche.
Sicurezza e fiducia cercasi
Ma come viene percepito lo scioglimento delle strutture parallele serbe, e in particolare la "Civilna Zaštita", nel nord del paese? I cittadini serbi si sentono meno protetti ora? OBC ha posto queste domande a Miodrag Miličević, direttore esecutivo dell’ong "Aktiv", una delle più attive nella società civile del nord del Kosovo.
"In generale, il senso di sicurezza e di protezione nelle comunità nel nord del Kosovo, afflitte da anni da un clima di ostilità, non si è indebolito in modo significativo dopo lo scioglimento della Protezione civile. I cittadini del nord del Kosovo si affidano ancora alla comunità internazionale: EULEX e KFOR sono percepite come i principali garanti della sicurezza e della protezione, insieme alla polizia kosovara che, a nord del fiume Ibar, è costituita da agenti di etnia serba. Quello che ha maggiormente effetto sulla comunità non è tanto la chiusura della ‘Civilna Zaštita’, quanto il processo complessivo di integrazione dei serbi kosovari nel sistema legale ed amministrativo del Kosovo. Questo processo causa preoccupazioni nella comunità, a causa delle interpretazioni poco chiare ed elastiche fornite dai governi di Pristina e Belgrado".
Miličević nota che la piena integrazione del nord all’interno del sistema legale kosovaro, dopo anni di odio, pregiudizi e stereotipi tra albanesi e serbi, non sarà un processo semplice. "Le ostilità che durano da tempo tra i serbi ed albanesi in Kosovo avranno senza dubbio ripercussioni su questo processo. Questo avrà successo nel momento in cui – con la mediazione di Bruxelles – si riuscirà a garantire una concreta ed autentica autonomia ai serbi kosovari nel nord del Kosovo. Nonostante i risultati del processo di integrazione, i serbi kosovari continueranno a considerare sé stessi come parte della Serbia dal punto di vista culturale, etnico, religioso, economico e sociale. Solo un accordo che dovesse tenere conto di questa realtà potrebbe portare a una cooperazione pacifica e fruttuosa con Pristina”, conclude Miličević.
Lo spettro della Republika Srpska
Secondo Nexhmedin Spahiu, professore universitario ed esperto di politiche dei paesi balcanici, le strutture parallele serbe, ovvero la protezione civile, non verranno sciolte nonostante gli accordi di Bruxelles. "Non riesco a credere, per svariati motivi, che la ‘Civilna Zaštita’ cesserà di operare fino a quando Belgrado non cambierà completamente la sua politica verso il Kosovo. Dalla fine della guerra, nel giugno 1999, quando fu sconfitta dalla Nato, la Serbia ha modificato la sua tattica, ma non i suoi obiettivi in Kosovo e nella regione: ricreare cioè una situazione neo-colonialista. Anche se Belgrado non ha intenzione di inviare nuovamente esercito e polizia in Kosovo, non ne riconosce l’indipendenza per un semplice motivo: mantenere povera e sottosviluppata la società kosovara", nota Spahiu.
Il professore mette in evidenza che la Serbia ha attuato la stessa politica in Bosnia Erzegovina, dividendola in vari cantoni e creando la Republika Srpska. "A distanza di venti anni dalla guerra, la Bosnia non è riuscita a rimettersi in piedi ed è di fatto un mercato dipendente dai prodotti serbi. Lo stesso atteggiamento è stato attuato contro la Macedonia da parte della Grecia. Quest’ultima sta creando problemi a Skopje non tanto per la questione del nome, della storia e dei simboli, ma piuttosto per essere certi che la Macedonia non progredisca e rimanga un ‘mercato greco’", aggiunge Spahiu.
"Dalla fine della guerra Belgrado sta cercando di creare una sorta di Republika Srpska in Kosovo. I compromessi raggiunti a Bruxelles vanno in questa direzione. Quando Belgrado ha rinunciato alle sue strutture in Kosovo, ha creato terreno per la formazione di nuove istituzioni serbe", conclude Spahiu. "Oggi non esiste formalmente una sorta di ‘Republika Srpska in Kosovo, ma potrebbe nascerne presto una de facto. E nel momento in cui l’UE chiederà alla Serbia di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, Belgrado farà pressione affinché Pristina accetti formalmente la già de facto costituita ‘Republika Srpska’ in Kosovo".