Rifugiati siriani: la risposta dei corridoi umanitari

In questi mesi tanto si è parlato di corridoi umanitari per alleviare le sofferenze delle migliaia di persone in fuga dalla guerra siriana. E in alcuni casi l’idea ha trovato concretezza. Un’intervista a Fabrizio Bettini di Operazione Colomba

07/04/2016, Davide Sighele -

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Fabrizio Bettini (foto: Trentino con i Balcani)

Nel febbraio di quest’anno sono arrivati in Italia 93 rifugiati siriani attraverso un corridoio umanitario…
 
E’ la prima esperienza di corridoio umanitario promossa a favore di rifugiati siriani. E’ un’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, assieme all’8xmille valdese e alle Chiese evangeliche: sono riusciti a strappare al governo l’arrivo di mille rifugiati siriani dal Libano. Noi di Operazione Colomba siamo stati coinvolti perché da circa tre anni abbiamo una presenza a Tel Abbas, nel nord del Libano, a qualche chilometro dal confine con la Siria.
 
Perché aiutarli ad andarsene dal Libano?
 
Il nostro specifico non è l’assistenza, e non abbiamo fatto quello. Nel campo di Tel Abbas abbiamo connesso realtà diverse, abbiamo fatto, si può dire, advocacy: connettendo la comunità del campo con Ong e donatori. Il tutto partendo dal voler dare voce a questi rifugiati, dare voce alle vittime del conflitto e far arrivare la loro voce a chi conduceva i colloqui sulla Siria.
 
C’era anche il sogno di riuscire a creare sul territorio siriano delle "isole umanitarie", uno spazio alieno da gruppi armati. Come sono riusciti a fare in Colombia, dove una comunità di contadini con la quale condividiamo il cammino da molti anni ha creato un territorio dove nessuno porta armi, dove non entra l’alcol, dove vige il lavoro comunitario.
 

Ma da un anno e mezzo i siriani con cui vivevamo avevano iniziato a sentirsi insicuri anche sul territorio libanese, ci hanno chiesto di vivere nel campo, perché una presenza internazionale dava loro più garanzie. Uno dei loro portavoce è stato arrestato più volte, alcuni campi sono stati evacuati. I siriani hanno capito che le autorità locali premevano perché nessuno prendesse iniziative particolari.
 
Si è venuta a creare quindi una situazione che non permetteva loro di rimanere più lì e noi abbiamo considerato l’ipotesi di favorire loro un’alternativa attraverso i corridoi umanitari, evitando il pericoloso viaggio verso l’Europa attraverso i Balcani che alcuni di loro avevano già iniziato a programmare.
 
Quale lo status di questi profughi siriani in Libano?
 
Non hanno alcun status di rifugiati e le condizioni economiche del paese non permettono loro di lavorare e di ottenere quindi un permesso di soggiorno. Non esistono campi ufficiali e addirittura sono le stesse comunità di rifugiati che – a volte aiutati da donatori, ma non sempre – affittano il terreno agricolo sul quale hanno le loro tende.
 
Dove sono ospitate ora queste 93 persone?
 
Noi abbiamo seguito l’arrivo di 67 persone, di queste 29 sono in Trentino, circa 20 a Reggio Emilia ed i restanti a Torino. A Reggio vi è un’accoglienza diffusa, le sei/sette famiglie arrivate sono ospitate in altrettante parrocchie diverse. A Torino è partita una collaborazione tra alcune parrocchie e il mondo della solidarietà e i profughi vengono ospitati in due appartamenti di un privato. A Trento si è sviluppata un’esperienza leggermente diversa e per me interessante.
 
Con Mattia Civico, un consigliere provinciale locale, noi di Operazione Colomba ci siamo interrogati sul cosa fare e abbiamo trovato innanzitutto la disponibilità della Diocesi, che ha messo a disposizione un luogo dove poter ospitare questo gruppo di persone, senza dividerli, perché appartengono ad un unico gruppo familiare allargato. Ma siamo andati oltre: si è pensato subito che Operazione Colomba dovesse continuare l’attività di condivisione e mediazione avviata in Libano, non solo facendo da trait d’union, da facilitatori, ma che vivessimo assieme ai profughi. In questo di grande importanza è il ruolo della Diocesi di Trento che con Fondazione Comunità Solidale si è assunta la gestione del progetto in accordo con Cinformi. In più la Provincia autonoma di Trento ha deliberato un finanziamento che tra le altre cose garantisce la presenza di due operatori, che permettano opportunità di integrazione e di conoscenza reciproca tra questi profughi e la comunità trentina. E’ una decisione passata in consiglio provinciale con una maggioranza molto ampia.
 
Questi profughi saranno solo i primi ad arrivare?
 
Non sappiamo, io spero di sì. Sentiamo la responsabilità rispetto a chi non è potuto partire. Se facciamo bene, non solo noi di Operazione Colomba ma anche tutti gli altri soggetti coinvolti, compresa la politica, quest’opportunità si aprirà anche per altri.
 
Un’iniziativa senza dubbio importante, dall’alto valore simbolico, ma che possibilità ha di dare risposte concrete alle centinaia di migliaia di profughi in fuga dal conflitto siriano?
 
Lo stesso giorno che i 97 profughi siriani sono atterrati in Italia altri tentavano di attraversare il confine tra Grecia e Macedonia e sono stati ricacciati a suon di botte e lacrimogeni. Non dobbiamo rassegnarci e vedere queste immagini. E’ vero, i mille previsti non fanno la differenza, ma magari influiscono sul cambio di priorità: iniziamo a verificare quanti soldi vengono spesi nel creare barriere, peraltro inutili. Se queste risorse venissero investite sull’accoglienza? In un’accoglienza che rifiuti i ghetti, che non sia dell’emergenza, in un’accoglienza che d’altro canto non nasconda nemmeno le difficoltà effettive che vi sono nella convivenza.
 
Ma quello dell’accoglienza non è lo specifico della vostra organizzazione…
 
Infatti. A noi, quello che importa più di tutto, è che si fermi la guerra. E vorrei che lo stato e le istituzioni ci dessero gli strumenti per intervenire. Quanto costa finanziare la presenza del nostro esercito all’estero? E quanto costerebbe finanziare corpi di interposizione di pace? Utopico? Forse, ma se mi guardo indietro, ai 24 anni di attività di Operazione Colomba, vedo che su piccola scala abbiamo ottenuto risultati chiari e tangibili. Vedo una comunità dove siamo intervenuti in Kosovo dove serbi e albanesi prima si volevano scannare e ora lavorano fianco a fianco; vedo in Colombia la comunità di pace che resiste nonostante i paramilitari, nonostante l’ostilità dell’esercito, nonostante tutto; vedo i contadini e pastori della Palestina che hanno conquistato diritti laddove le autorità israeliane non li concedevano. Insomma, vedo persone che dal nostro incontro e lavorando con noi hanno cambiato positivamente la loro vita. Posso dire che nel piccolo noi siamo incisivi. Come quindi potrebbe essere incisivo un progetto di 29 persone accolte a Trento. Sui grandi numeri non so, non siamo mai stati sperimentati sui grandi numeri.
 
Come Operazione Colomba avete già sperimentato in prima persona i drammatici movimenti di persone a seguito della dissoluzione jugoslava e in particolare relativamente al conflitto in Kosovo. Ti sembra sia cambiato qualcosa da allora nella propensione della società civile italiana ed europea nell’accogliere chi fugge da conflitti armati?
 
Per me è cambiato tutto. I conflitti nei Balcani sono avvenuti prima del 2001. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle si è avviata la cosiddetta guerra al terrore e da allora è arrivata la paura dell’Islam, la paura del diverso. Prima non avevamo paura, ora sì. Certo, non è solo paranoia, quanto è avvenuto a Madrid, Parigi, nelle città turche, e più recentemente a Bruxelles lo dimostra, ma ciononostante se abbiamo paura subiamo quanto accade, invece di governarlo. Nel 2001, arrivando dai Balcani, per me era una novità in Israele e Palestina il clima di paura che vi respirai. Era una paura onnipresente, continua generatrice di ingiustizie. Ora questa mi sembra una realtà che stiamo vivendo di persona.
 
Come reagire?
 
Con l’accoglienza, così scardiniamo quell’immagine del nemico. Il problema è che è molto più facile nell’immediato creare i ghetti, da una parte e dall’altra. E ci piace dire troppo spesso che è tutto bello anche quando non lo è. L’accoglienza è anche lavoro sporco e complesso.
 
Visito spesso le scuole, per parlare delle nostre attività e lì si vede che stiamo diventando una società multiculturale senza ancora esserlo. Lo sanno bene gli insegnanti e gli educatori, quando hanno in classe tre/quattro nazionalità diverse, tre o quattro tradizioni religiose diverse, l’integrazione non è una stupidata, è difficile, ma la nostra società è gioco forza quella.
 
Perché andate nelle scuole?
 
Noi non siamo missionari, non viviamo in un posto e lì costruiamo la nostra vita. Noi, come ripeto spesso ai nostri volontari, dobbiamo essere degli elastici: siamo chiamati a portare la testimonianza. E’ un richiamo forte che faceva anche il fondatore della Papa Giovanni di cui l’Operazione Colomba è parte e che diceva "dare voce a chi non ha voce". In tutte le realtà dove siamo presenti la gente ci dice, raccontate quello che stiamo vivendo.
 
In queste settimane si sta parlando molto della rotta balcanica, dei muri in Europa, dell’accordo Ue-Turchia. Ma le voci della società siriana non emergono…
 
Noi abbiamo avuto la fortuna in questi 3 anni di presenza in Libano e di condivisione con loro di ascoltare la loro voce. E sappiamo che se in un domani la situazione in Siria cambiasse sarebbero i primi a chiederci di aiutarli a ritornare. Amano il loro paese, vogliono tornare, sono costretti a rimanere qui. La sera in cui sono partiti dal campo di Tal Abbas in molti piangevano: lasciavano amici che non avrebbero più rivisto e si allontanavano ancora di più dalla Siria.
 
Come vedi quest’Europa piena di muri?
 
Quella dell’erigere muri è insostenibile dal punto di vista della pratica politica. C’è sempre una strada per superare un muro a meno che chi si sta scagliando contro i profughi in questi mesi non ammette pubblicamente di essere pronto a sparare su chiunque si muova. Per me quanto sta avvenendo è un processo inevitabile. Possiamo governarlo o farci governare. I muri vanno nella direzione, anche se non sembrerebbe, di farci governare. Uno degli strumenti invece per governare la situazione sono i corridori umanitari, anche se non so se è una strada percorribile da tutte le migliaia di infelici che ci sono. Sicuramente fermare la guerra e fare un po’ più di giustizia contribuirebbe a cambiare le cose.

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