Trento film festival: premiata Anca Damian

La regista romena Anca Damian vince la genziana d’oro al Trento Film Festival col suo quarto lungometraggio dal titolo La montagne Magique.

10/05/2016, Nicola Falcinella -

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“La Montagne Magique” di  Anca Damian

La giuria del 64° Trento Film Festival ha scelto tra i 14 lavori in concorso e premiato sabato 7 maggio con la Genziana d’oro per miglior film – Gran Premio “Città di Trento” la regista romena Anca Damian per “La Montagne Magique”, il suo quarto lungometraggio.

La Genziana d’oro miglior film di alpinismo è stato assegnato a “K2 – Touching the Sky ” della polacca Eliza Kubarska, mentre la Genziana d’oro per il miglior film di esplorazione o avventura all’americano Greg Kohs per “The Great Alone ”. Premio della Giuria al coreano “My Love, don’t cross that river ” di Jin Moyoung e menzione speciale al cinese “On the Rim of the Sky ” di Hongjie Xu. Infine Genziane d’argento per il miglior contributo tecnico-artistico al cinese “Behemoth ” di Zhao Liang e per il miglior cortometraggio al norvegese “Last Base ” di Aslak Danbolt.

Tra i riconoscimenti non ufficiali, il premio Cinemamore per la sezione Orizzonti Vicini, dedicata ai film prodotti o girati in Trentino Alto Adige, è andato a “Between Sisters” di Manu Gerosa, il Premio Museo usi e costumi della gente trentina per un film etnoantropologico sugli usi e costumi delle genti della montagna allo svizzero “Z’bärg” di Julia Tal e il Premio studenti al tedesco “Café Waldluft” di Matthias Kossmehl.

“La Montagne Magique” di  Anca Damian

La Damian, nota soprattutto per “Crulic – The Path To beyond” (2011), ha raccontato in un particolarissimo documentario animato, la storia del polacco Adam Jacek Winkler. Un personaggio fuori dagli schemi e dalle tante vite, nato in Polonia a fine anni ’30, sopravvissuto alla guerra e deciso fin da giovanissimo a voler migliorare, almeno dal suo punto di vista, il mondo. Se da bambino il suo obiettivo è combattere i tedeschi, presto si sposta sul fronte anti-comunista, a opporsi ai sovietici. Giovane dissidente, si rifugia a Parigi, dove fa l’imbianchino, il pittore, il fotografo e coltiva la passione per la montagna e l’alpinismo. Intanto prosegue l’attivismo politico, anche con spedizioni azzardate verso l’est Europa che costeranno una detenzione a sua moglie. Nel 1979, con l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Urss, trova una nuova causa nella quale identificarsi e, dopo vari tentativi, soprattutto per avere un passaporto che gli permetta di arrivare a destinazione, si reca nel Paese asiatico. Con qualche difficoltà raggiunge il comandante Massoud e combatte al suo fianco. Solo la malaria ferma la sua determinazione a combattere e dovrà far ritorno in Francia. Winkler è morto in una salita solitaria sul Monte Bianco nel 2002, per piantare un drappo in segno di solidarietà al popolo afgano.

Un film di coproduzione Romania, Francia e Polonia, con le musiche di Alexander Bălănescu, già menzione della giuria al Festival di Karlovy Vary nel luglio scorso, è realizzato utilizzando tante tecniche diverse: disegno su carta, cartone, vetro, collage, grafica, fotografie, vecchi video e altro. La regista racconta la storia come se fosse una lettera che Winkler scrive alla figlia, dalla quale, per forza di cose, è stato a lungo lontano. Un film su un’ossessione, visivamente molto bello, strabiliante nel suo caleidoscopio di tecniche che si susseguono, segno di una capacità tecnica sopraffina e una creatività ricca. Forse nella prima parte i fatti si susseguono in modo troppo accavallato e quel che resta di più è l’ossessione del protagonista. Più che un combattente per la libertà, sembra voler vivere all’estremo una propria libertà, come un uomo che non si pone limiti, ma forse anche incapace di aderire a una causa collettiva, spinto da una forza interiore a inseguire quel che ritiene la propria ragione di vita. 

Documentari

Hanno richiamato molto interesse anche i due documentari turchi della sezione Terre alte. Molto curioso è “Extraordinary People ” di Orhan Tekeoglu, che racconta alcune storie di persone comuni alle prese con sogni e creazioni che sembrano impossibili o assurdi. Un uomo si è costruito una piccola funivia per uso familiare per tornare dalla città a vivere nel villaggio dei suoi nonni, a 1000 metri di quota, senza costruire altre strade inutili. Un ritorno alla campagna e alle origini, rispettoso dell’ambiente e realizzato semplicemente tirando dei cavi per poche centinaia di metri, da una parte all’altra della valle. Un’altro personaggio, sempre nella zona a est intorno al Mar Nero, si è costruito una casa stranissima, in grado, secondo il realizzatore, di resistere alle alluvioni e non farsi trascinare a valle. Il documentario racconta poi del villaggio di Kuskoy, dove si insegna il linguaggio dei fischi, ripreso dai suoni degli uccelli già nel XV secolo e molto utile per comunicare a distanza. A Trabzon il festival delle danze tradizionali Horon richiama molti danzatori, mentre in un altro villaggio si svolge una gara con automobiline in legno costruite a mano e infine si racconta la storia di un uomo che sta allestendo una banca dei semi per conservare e utilizzare le sementi autoctone. Sognatori che fanno credere che si possa resistere all’omologazione.

Più complesso “Bakur ” di Ertuğrul Mavioğlu e Çayan Demirel l’anno scorso fu censurato al Festival di Istanbul su pressione di Erdoğan provocando la reazione in segno di solidarietà degli altri registi turchi, che a loro volta ritirarono i loro film dal festival. Si tratta di un documentario sicuramente molto politico, che fa il paio con “Primavera in Kurdistan” di Stefano Savona, che vinse proprio a Trento nel 2006. Se là era una marcia tra le montagne con alcuni guerriglieri del PKK, qui è la vita quotidiana in tre campi di addestramento del Partito dei lavoratori del Kurdistan. Bakur è il “Nord”, ovvero un quarto del territorio abitato dai curdi che fu assegnato alla Turchia dopo la fine dell’impero Ottomano. Siamo nel sud e nell’est del Paese e i registi filmano  gli allenamenti, gli allestimenti dei campi, la ricerca di luoghi sicuri, ascoltano i giovani arruolati da poco (alcuni di loro sono morti a Kobane) e i capi. Raccontano di una resistenza che dagli anni ’30 è sempre stata viva, fino allo scioglimento del partito nel 2002 e alla “ricostituzione” nel 2004, con un cambio di obiettivi: non più la lotta per uno stato, ma per una confederazione. È un film che cerca di entrare nel mondo della guerriglia, della fatica, delle attese e delle motivazioni che li uniscono e li spingono a continuare. Un documentario per forza di cose a sua volta guerrigliero, sporco, forse lacunoso, ma anche generoso e utile a comprendere di più.

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