Gülen-Erdoğan, dal sodalizio all’accusa di golpe
Chi è e cosa ha fatto il famoso imam divenuto nemico pubblico numero uno in Turchia dopo il fallito golpe del 15 luglio scorso. Dall’alleanza con Erdoğan all’attuale profondo dissidio
Fetüllah Gülen è considerato dal governo turco il nemico pubblico numero uno, accusato dal presidente Recep Tayyp Erdoğan di aver orchestrato dagli Stati Uniti il tentato golpe del 15 luglio scorso. Gülen è l’architetto e il leader di una comunità, da lui battezzata Hizmet (servizio) ma più conosciuta in Turchia come Cemaat (congrega), che si ritiene abbia milioni di aderenti nel mondo ed un patrimonio economico stimato dalle autorità americane tra i 20 ed i 50 miliardi di dollari. Come questo imam della Turchia nord-occidentale sia riuscito in questa opera colossale è una storia che copre cinquanta anni di vita repubblicana turca e s’intreccia con i più importanti avvenimenti della Repubblica anatolica contemporanea.
L’imam
Gülen è nato nel 1941 vicino ad Erzurum, una regione tormentata dalle lotte tra turchi, armeni e russi per il controllo del territorio: qui, più che altrove, il nazionalismo turco si è fuso con l’islam. Figlio di imam, divenuto imam lui stesso, Gülen seguì fin dagli anni ’60 gli insegnamenti di un grande teologo musulmano di origini curde, Said Nursi, predicatore sufi che rivoluzionò il credo islamico turco, proponendo tra le altre cose una nuova coesistenza tra scienza moderna e dottrina religiosa e un islam non politico, bensì attivo nella società civile.
Gülen ha sempre preferito evitare di dichiarare apertamente un’affiliazione con la schiera dei “nursucus”, i seguaci di Nursi appunto, soprattutto per via della connotazione negativa che il nome “nursucus” stava acquisendo negli anni ’60-’70 tra la nomenclatura kemalista. Fin dal principio della sua predicazione, Gülen ha sempre evitato accuratamente il coinvolgimento diretto nella vita politica del paese, fedele al principio di Nursi, ed ha tenuto il suo movimento sganciato dai partiti che, pure, ha di volta in volta più o meno esplicitamente appoggiato, non da ultimo l’AKP di Erdoğan.
La sua visione nazionalista dell’Islam, in contrapposizione con quella ecumenica di Nursi, è uno dei tratti fondanti del suo pensiero ed è ciò che spiega, ad esempio, il suo sostegno morale al colpo di stato del 1980, espresso in una serie di editoriali sulla rivista del movimento (Sızıntı), perché esso allontanava dalla nazione “lo spettro del disastro socialista e dell’ingerenza internazionale nell’indipendenza della Turchia”.
In quegli anni fu l’élite kemalista a tendere la mano ai movimenti islamici in generale, e a quello gülenista in particolare, perché impegnata a combattere i movimenti di estrema destra e sinistra. I kemalisti chiesero “rispetto per Atatürk” e promisero in cambio l’aiuto dello Stato, in un gioco in cui le parti cercavano di controllarsi e prevalere l’un l’altra. Il colpo di stato del 1980 segnò l’avvento di un’idea che già da venti anni circolava nei circoli islamici: la sintesi turco-islamica, ideologia che da allora la Turchia ha abbracciato.
L’allora primo ministro Turgut Özal, impegnato nel traghettare l’economia turca dal socialismo di stato kemalista al liberismo occidentalista, trovò in Gülen e nel suo approccio liberal-conservatore al mondo degli affari un alleato importante per dare alla luce quella classe media anatolica che sarà, diversi anni dopo, alla base del successo economico delle Tigri dell’Anatolia e della Cemaat stessa.
Il sodalizio tra Gülen e lo stato turco, nato con Özal, cesserà nel 1997, quando al colpo di stato “morbido”, che pure l’imam in un primo momento ancora aveva appoggiato, seguì la diffusione in tv di un discorso – ritenuto un falso dai sostenitori dell’imam – in cui il predicatore invitava esplicitamente i suoi seguaci ad insinuarsi nei gangli vitali dell’apparato statale turco:
“Dovete muovervi nelle arterie del sistema senza che nessuno noti la vostra presenza, fino a che raggiungerete tutti i centri di potere[…] Fino a che le condizioni non saranno mature, dovete continuare così […] Il tempo non è ancora giunto. Dovete attendere fino a quando potrete mettervi in spalla il mondo intero […] Dovete aspettare il momento in cui avrete tutto lo stato nelle vostre mani, in cui avrete al vostro fianco tutto il potere delle istituzioni in Turchia. […] Ora, ho espresso i miei pensieri e sentimenti a tutti voi, confidando nella vostra lealtà e segretezza. So che quando ve ne andrete da qui, insieme ai contenitori delle vostre bevande getterete via anche i pensieri ed i sentimenti che qui vi ho esplicitati”.
Per sfuggire alla cattura l’imam fuggirà allora negli Stati Uniti, adducendo motivazioni di salute, dove ancor oggi lo troviamo, alla guida della Cemaat e in attesa che la Turchia sottoponga ufficiale richiesta di estradizione per il tentato golpe del 15 luglio.
Gülen ha sempre guardato con favore all’Occidente, anche in virtù delle sue posizioni anticomuniste, e ha sostenuto l’avvicinamento tra Turchia e Unione Europea, benedicendo gli sforzi di adesione e mobilitando la Cemaat per migliorare la percezione che all’estero si ha della Turchia.
Inoltre, da quando si è rifugiato negli Stati Uniti ha più volte ribadito di non voler fare nulla per intaccare gli interessi americani in Medio Oriente. Tradizionalmente sospettoso verso russi ed iraniani, il sodalizio con gli Stati Uniti, alla ricerca di un islam con cui dialogare, è stato ideologicamente molto facile.
Secondo Gülen, musulmani e non musulmani un tempo coesistevano pacificamente perché l’Impero Ottomano riuscì a creare un clima di tolleranza reciproco. La Turchia, erede di quell’impero, deve dunque abbracciare il suo retaggio e divenire promotrice nel mondo di tolleranza tra le religioni, mentre i turchi dovrebbero assumere il ruolo di guida del mondo.
La Cemaat
La Congrega abbraccia un insieme di filosofie ed iniziative economiche e politiche talmente ampio che risulta difficile inquadrarla in una chiara definizione. La tendenza alla segretezza ha generato sospetti e teorie che facilmente sfociano in un complottismo di cui la mentalità turca è satura, e non sempre a torto. L’impero di scuole, istituti di ricerca e associazioni filantropiche mostrano al mondo il volto con cui la Cemaat vuole farsi conoscere: quello di movimento islamico non politico, che sostiene il dialogo inter-religioso, la cooperazione internazionale e un’etica fondata su educazione, comunicazione, business e società civile.
Le scuole sono la base dell’impero economico della Cemaat e consentono di perseguire più obiettivi. Uno di questi è la promozione del business turco, che consente di attirare ingenti capitali, specie sotto forma di donazioni, che hanno costituito il nucleo economico di partenza dell’impero economico di Gülen. Il ricercatore francese di origini turche Bayram Balcı offre una spiegazione di come la Cemaat opera, facendo l’esempio di gemellaggio tra città turche e città dell’Asia centrale, in cui membri della Congrega vengono inviati per stringere relazioni economiche, burocratiche e personali.
Le scuole servono anche a dare lustro all’immagine della Turchia nel mondo, soprattutto grazie all’eccellenza del livello di educazione offerto. Il professor İlber Ortaylı sostiene ad esempio che le scuole, oltre ad uno scopo educativo, abbiano un fine politico: la creazione di élites turcofile nelle nazioni straniere.
Infine, le scuole sono funzionali al reclutamento di nuove leve e alla creazione di quella che è stata definita la “Generazione Dorata”, destinata a prendere in mano le redini della Turchia.
Nel 2012 Fabio Vicini, ricercatore, contava nel paese 4055 scuole attive e 1.200.000 studenti arruolati. Questi studenti sono legati tra loro da una relazione pedagogica che rafforza i legami intracomunitari e, durante il percorso di studio, sono poi invitati a scelte specifiche, come la scuola di legge, che consente sbocchi lavorativi nelle istituzioni dello stato. Vicini sostiene che la Cemaat abbia, nell’arco di quattro decenni, cercato di entrare nello stato in reazione all’élite kemalista che dominava in precedenza l’apparato.
Questa penetrazione nello stato riguarda soprattutto alcuni settori: l’educazione, per formare quella che dagli anni ’80 sarà identificata come la Generazione Dorata e la polizia, vista la difficoltà nell’entrare nei ranghi dell’esercito almeno fino ai processi Ergenekon e Sledgehammer del 2008. Particolarmente importante l’infiltrazione nella KOM (Kaçakçılık ve Organize Suçlarla Mücadele Dairesi), l’organo delle forze dell’ordine che si occupa della lotta al crimine organizzato e al traffico illegale, individuato in principio come la chiave di volta per assicurarsi di poter mettere sotto processo gli avversari.
Per dare un’idea del grado di fedeltà che il sistema della Cemaat ha nei confronti di Gülen possiamo riprendere un’intervista a Bekir Aksoy, presidente del Golden Generation Worship and Retreat Center a Saylorsburg, in Pennsylvania, dove risiede Gülen. Aksoy ha dichiarato: “Mettiamola così: se un uomo con dottorato e carriera venisse ad incontrare il Maestro (Gülen), ed il Maestro ritenesse utile fondare un villaggio al Polo Nord, quest’uomo si presenterebbe qui l’indomani con la valigia in mano”.
Attorno a Gülen si è consolidato anche un forte conglomerato mediatico il cui obiettivo è sia dare voce alla comunità, sia farsi strumento di propaganda quando necessario. La punta di diamante del movimento erano, fino alla chiusura, il quotidiano Zaman e la sua pubblicazione in lingua inglese, Today’s Zaman. Questo impero mediatico includeva anche il canale televisivo STV, l’agenzia di stampa Cihan, numerose riviste accademiche, periodici e siti di notizie online.
Zaman è sempre stato il portavoce del movimento di Gülen: durante i processi Ergenekon e Sledgehammer, che hanno rappresentato l’apice dell’alleanza Gülen-Erdoğan e hanno consentito di decapitare l’élite nell’esercito e dare il via alla penetrazione gülenista nei ranghi militari, i media di Gülen erano schierati in prima fila contro i militari, rei di tradimento e di aver progettato un colpo di stato teso a sovvertire l’ordine democratico.
La stessa campagna aggressiva ha colpito l’ex capo di polizia Hanefi Avcı ed il giornalista di Hurriyet Ahmet Şık, che attraverso memorie ed inchieste hanno cercato di portare a galla il lungo lavoro di penetrazione della Cemaat nello stato turco. Entrambi verranno coinvolti nei processi Ergenekon, accusati di tentata sovversione dell’ordine costituzionale turco. Le copie del libro di Şık, l’Esercito dell’Imam, in cui il giornalista descrive minuziosamente la penetrazione degli uomini di Gülen nella polizia turca, sono state quasi tutte distrutte e circolano solo poche copie digitali in rete.
I processi Ergenekon e Sledgehammer furono molto contestati perché si riteneva fossero stati pilotati proprio da uomini legati alla Cemaat, che avrebbero costruito false prove per poter far condannare i militari. Nel 2014 Erdoğan riconoscerà pubblicamente l’illegittimità di quei processi, addossandone le responsabilità ai gülenisti, a quel punto diventati nemici giurati.
Gülen e Erdoğan
Per molti lettori occidentali è difficile capire l’origine del profondo dissidio tra l’attuale Presidente della Repubblica Erdoğan e il leader della Cemaat, che oggi scuote le fondamenta dello stato turco. Entrambi esponenti del sunnismo conservatore, essi appaiono tutt’ora alleati naturali; e in effetti così è stato per almeno un decennio, a partire dalla creazione dell’AKP, al suo primo successo elettorale nel 2002.
Erdoğan era fin dal principio conscio che, alla guida di un partito islamico, avrebbe dovuto prima o poi fare i conti con la reazione dell’esercito ancora saldamente in mano all’oligarchia kemalista. Gülen si è presentato come la spalla ideale per preparare delle contromisure a questa reazione.
Entrambi erano provenienti da quell’ampia fetta di società turca, divenuta economicamente forte e ancora orgogliosamente tradizionalista e puntavano alla trasformazione della Turchia da ultra-secolare e kemalista a conservatrice e religiosamente attiva. Gülen poteva già contare su una forte presenza nella polizia, negli apparati dei servizi segreti e nella magistratura. Erdoğan si presentava forte del voto popolare e con il sostegno di un’Europa che premeva affinché la Repubblica fosse riformata in modo da porre fine alle continue ingerenze dei militari nella vita politica e civile.
Questo comune obiettivo ha permesso di neutralizzare le differenze ideologiche tra Erdoğan e Gülen, che nascono dal diverso solco di tradizione islamica a cui i due fanno riferimento. Se Gülen abbraccia l’eredità di Nursi e la personalizza in senso nazionalistico, Erdoğan proviene invece dalla famiglia di Millî Görüş, organizzazione islamica fondata da Necmettin Erbakan, padre politico dell’attuale Presidente della Repubblica turca. Pur con forti presenze anche in in America e in Europa, soprattutto in Germania, questa organizzazione sposa invece una visione pan-islamica più distante dai valori Occidentali e che guarda con più favore ad est, incluso il mondo arabo.
Questa distanza ideologica da sola non basta però a giustificare il crollo dell’alleanza Erdoğan-Gülen. L’AKP, guidato con mano sicura dal suo fondatore, ormai mal sopportava la continua presenza della Cemaat nella vita politica turca. Dal canto suo, Gülen disapprova il progressivo allontanamento di Erdoğan dall’orizzonte europeo e occidentale, inaugurato già nel 2009 con la conferenza di Davos, e che pure risulta coerente con i suoi trascorsi nel Millî Görüş e con una vecchia ma mai dimenticata dichiarazione, in cui affermava che la democrazia fosse un treno da cui scendere una volta giunti alla destinazione voluta.
Dopo il grande successo di Ergenekon nell’estirpare l’avversario kemalista, questa divisione è venuta a galla più volte, ad esempio in occasione della spedizione della Mavi Marmara verso Gaza, aspramente criticata da Gülen ed invece sostenuta con forza da Erdoğan, almeno fino alla recente decisione di riallacciare i rapporti con Israele.
Anche il tentativo di pacificazione della questione curda li ha visti di nuovo opporsi. Il processo di pace è stato avviato da un Erdoğan alla ricerca di alleati per il suo progetto presidenziale, i curdi a cui promise l’agognato riconoscimento costituzionale in cambio di voti a favore; è stato invece ferocemente osteggiato da Gülen, da sempre avverso ad ogni soluzione di compromesso con il PKK. Il conflitto tra i due sfocerà nel tentativo di processare Hakan Fidan, capo dei servizi segreti turchi e fedelissimo di Erdoğan, per aver condotto colloqui riservati con il leader del PKK Abdullah Öcalan. Anche i processi alla rete politica curda (KCK) sarebbero il prodotto dell’azione della magistratura gülenista, come raccontato dall’editorialista di Zaman Etyen Mahcupyan ad Al-Jazeera.
Lo scontro si è via via negli anni inasprito. I processi a carico di diversi ministri e alcuni parenti di Erdoğan in seguito allo scandalo corruzione del 2013; la chiusura delle scuole güleniste con cui Erdoğan ha cercato di sradicare la rete di reclutamento e finanziamento della Cemaat nel paese; infine, con il colpo di stato del 15 luglio scorso, che rappresenta l’ultimo capitolo in ordine cronologico di uno scontro senza pari per il controllo
del potere in Turchia. Uno scontro in cui la democrazia turca è l’unica, vera, grande vittima.