Turchia, caccia ai gülenisti
La linea dura di Ankara contro i seguaci di Fetullah Gülen, ritenuti responsabili del tentato golpe del 15 luglio, approfondisce in Turchia il clima di sospetto. Il punto
Il governo turco prosegue nella sua campagna di arresti, destituzioni ed altri provvedimenti amministrativi, con l’obiettivo dichiarato di ripulire l’apparato statale da quelli che Ankara considera i due grandi nemici del momento: la rete del predicatore Fetullah Gülen (in autoesilio negli Stati Uniti) nota come “Hizmet” (“il servizio”) e gli autonomisti curdi del PKK.
Sono oltre 100mila i dipendenti pubblici licenziati, sospesi dall’incarico o tratti in arresto, con casi che vanno ben oltre la possibile affiliazione ai due gruppi citati. Lo stato di emergenza dichiarato in seguito al tentato golpe consente al governo di perseguire i sospettati superando le tutele costituzionali normalmente previste e rende molti di questi provvedimenti inappellabili in futuro.
Le indagini sulle responsabilità nei fatti del 15 luglio non sono sono poi in mano ad una magistratura indipendente, ma sono condotte attraverso commissioni con un presidente a nomina governativa e coadiuvate dalle informazioni raccolte dall’intelligence turca (MIT) che, per legge, rispondono all’ufficio del primo ministro.
E’ ormai opinione diffusa, anche tra coloro che avevano inizialmente sostenuto il governo, come il capo del principale partito d’opposizione Kılıçdaroğlu, che l’azione dell’esecutivo stia andando oltre l’obiettivo di assicurare alla giustizia i responsabili del tentato golpe e si stia invece trasformando in un’azione volta ad annullare ogni opposizione interna.
Commissioni ed epurazioni
Le indagini in corso mirano ad individuare qualsiasi potenziale “nemico dello stato” per rimuoverlo da posizioni rilevanti e rimandano solo ad un secondo tempo l’accertamento delle specifiche responsabilità individuali. E’ importante perciò fare luce sul modus operandi che lo stato turco ha scelto di adottare nella sua guerra contro i gülenisti e non solo. A parlarne è stato il portavoce del governo Numan Kurtulmuş, ripreso anche dal giornale Hurriyet, delineando due strategie fondamentali.
La prima consiste nella creazione di commissioni interne alle strutture stesse, che riesaminano il personale interno alla luce di alcuni elementi indiziari, campanelli d’allarme che possono segnalare un collegamento tra il dipendente pubblico e l’organizzazione gülenista. Tra questi elementi troviamo abbonamenti a giornali e riviste come Zaman o Aksiyon e conti correnti o depositi finanziari presso la Bank Asya, tutte ramificazioni dell’impero economico di Gülen, oppure l’utilizzo dell’applicazione per comunicazioni criptate su cellulare Bylock.
Per soggetti con accesso a informazioni riservate, invece, il caso passa direttamente in mano all’ufficio del primo ministro, dove viene esaminato da un’apposita commissione che vede coinvolte le più alte gerarchie statali ed i servizi segreti turchi.
In un recente articolo uscito sul giornale di orientamento kemalista Sözcü e ripreso anche da alcuni siti web ritenuti vicini al movimento di Gülen, l’editorialista Saygı Öztürk ha criticato duramente la natura di queste commissioni interne, esponendo quelle che sono, a suo avviso, le carenze di metodo che darebbero poi adito a giudizi arbitrari ed []i.
Le commissioni sarebbero composte da 5-6 membri con incarichi di natura ispettiva o legale, e il cui presidente avrebbe l’ultima parola su chi debba essere destituito da ogni incarico pubblico perché ritenuto legato alla “Hizmet”. Secondo Öztürk, il presidente a capo di queste commissioni sarebbe solitamente un uomo di provata fedeltà all’attuale governo e tale fedeltà implicherebbe una carenza di imparzialità di giudizio. Le audizioni a cui queste commissioni sottopongono i dipendenti delle rispettive agenzie governative si baserebbero poi su informazioni ricavate o da intelligence raccolta dai servizi segreti, oppure da indagini interne attraverso le testimonianze di colleghi.
Preoccupazione sullo svolgimento di queste indagini sono arrivate dallo stesso primo ministro Yıldırım che, riconoscendo la possibilità di casi di malagiustizia, ha dato mandato agli uffici territoriali del Centro di comunicazione con il primo ministro (BIMER) di raccogliere rimostranze e contestazioni degli impiegati pubblici colpiti da provvedimenti di sospensione o licenziamento a partire dal 15 luglio. Il risultato è stato il formarsi di lunghe code fuori dagli uffici preposti. Le richieste di appello verranno esaminate da un’ulteriore apposita commissione, supervisionata ancora una volta dall’ufficio del primo ministro stesso.
Yiğit, morte di un procuratore
Tra le conseguenze dei provvedimenti adottati c’è anche un preoccupante numero di suicidi tra coloro che sono stati in qualche modo coinvolti nelle purghe governative. Un caso particolare è quello di Seyfettin Yiğit, procuratore morto nel carcere di Bursa, dov’era detenuto dal luglio scorso. L’uomo è stato trovato impiccato in un bagno del penitenziario.
Le accuse a lui rivolte combaciavano con il leitmotiv degli ultimi mesi: complicità nel tentato colpo di stato di questa estate e di appartenere alla comunità di Gülen, l’organizzazione che il governo turco imputa responsabile del tentato golpe. Yiğit era stato a capo delle indagini sui casi di corruzione che nel 2013 colpirono il governo AKP e furono il primo grande capitolo dello scontro tra Erdoğan e Gülen.
Si attende ora la pubblicazione dei risultati dell’autopsia, che dovrà stabilire se si sia trattato di suicidio, come le autorità continuano ad accreditare, oppure di omicidio.
Quest’ultima è la convinzione della figlia di Yiğit che, rifiutando l’idea del suicidio, in occasione del rito funebre del padre, ha dichiarato ai media che il padre non apparteneva affatto alla comunità di Gülen, ma era un cosiddetto Suleymancı, aderente cioè ad un’altra comunità religiosa turca che non risulta coinvolta nel tentato golpe ed è considerata più vicina al governo.
L’aura di incertezza che coinvolge questo e molti altri casi di suicidio sta lasciando spazio a molte teorie sulla natura di queste morti: da chi crede che siano una punizione per colpe passate e chi invece attribuisce tutto ciò alla volontà della Hizmet di mettere a tacere possibili collaboratori. Al di là delle possibili interpretazioni, è la mancanza di trasparenza di molti casi a surriscaldare il dibattito interno e rendere difficile l’emergere della verità.
Clima di sospetto
Le cifre impressionanti della purga dello stato turco e la decisione del governo di procedere ad un’opera di pulizia dell’apparato statale – condotta con metodi poco trasparenti ed approssimativi – suggerisce che il peggio per il paese deve ancora arrivare. Se i provvedimenti di sospensione e licenziamento non potranno essere contestati grazie allo stato di emergenza, dovranno comunque presto tenersi i processi per le imputazioni più gravi e a carattere penale.
Polizia e magistratura sono tra i corpi dello stato più colpiti dalle purghe anti-güleniste, con la conseguenza che la capacità dello stato di gestire i futuri processi risulta compromessa, come sostenuto anche da Emma Sinclair-Webb, direttrice di Human Rights Watch per la Turchia.
Non sono inoltre chiari i criteri che verranno utilizzati per sostituire magistrati e procuratori rimossi dall’incarico. L’allarme circa la sempre più flebile separazione dei poteri esecutivo e giudiziario nella democrazia turca contribuisce a generare un clima di sospetto e sfiducia che renderà impossibile il raggiungimento di verdetti condivisi e rispettati. Il rischio è che le ferite del tentato golpe non possano rimarginarsi nemmeno a processi conclusi e vengano definitivamente compromesse fiducia nelle istituzioni e pace sociale.