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Pankisi, la terra dei figli
Un viaggio a Duisi, principale villaggio della valle del Pankisi, Georgia nord-orientale, dove molti figli hanno rinnegato le tradizioni dei padri. Reportage
(Quest’articolo è il secondo di due dedicato alla valle del Pankisi e realizzati a seguito di un viaggio degli autori nella Georgia nord-orientale)
Entrati nella valle del Pankisi il tassista spegne l’autoradio “qui la musica è vietata, i fondamentalisti non vogliono”. Una trincea di silenzio corre lungo i campi, un silenzio armato. I piccoli villaggi in cui vive la comunità kist scorrono lungo strade di fango, rare figure scivolano lungo i muri. Le persone non ci rivolgono la parola, spesso non salutano nemmeno, per pudore e diffidenza.
Nel villaggio di Duisi, il più grande della valle, è l’ora della preghiera. Dai tetti di lamiera svetta un vecchio minareto, contadino e muto, quello della moschea vecchia, dove si trovano i pochi ancora fedeli alla dottrina sufi. Il richiamo, rauco e metallico, viene dalla moschea nuova, col suo minareto occhiuto di megafoni, snello e pulito, che fa ombra alle Mercedes parcheggiate all’ingresso. “Sono quelle dei predicatori”, ci dicono, persone che “ricevono denaro dall’Arabia” per diffondere il wahhabismo e invogliare i giovani ad andare a combattere in Siria.
Un processo di “arabizzazione”
Khaso Khangoshvili, capo del consiglio degli anziani del Pankisi, lo dice chiaramente: “Ormai quasi la totalità della comunità kist del Pankisi segue il wahhabismo. Siamo vittime di un processo di arabizzazione ben più pericoloso dei passati tentativi di russificazione forzata – spiega – perché i russi hanno cercato di annientare la nostra cultura, di cancellare la nostra lingua, ci hanno persino deportato ma hanno sempre rappresentato, per noi, qualcosa di estraneo a cui opporre resistenza”. Non così per l’estremismo islamico “che si basa sulla nostra stessa religione e che è arrivato nella valle insieme ai confratelli ceceni durante le guerre con la Russia degli anni Novanta”.
Il fondamentalismo è come un cancro ormai in metastasi, e Khaso Khangoshvili lo sa bene. Per questo gestisce, con le forze che l’età gli consente, un minuscolo e spoglio museo etnografico, ai muri pochi strumenti di cucina, qualche foto ingiallita, degli abiti tradizionali, la sparuta memoria della sua gente. E per questo ha raccolto e messo per iscritto l’Adat, il “codice d’onore” dei kist, ovvero l’insieme delle norme, dei precetti, delle tradizioni di una comunità che muore.
“I giovani non seguono più la tradizione, non riconoscono più l’autorità del consiglio degli anziani, e così la nostra cultura scompare”. Ad attrarre i più giovani sono proprio quelle Mercedes parcheggiate davanti alla moschea, fiammanti in una terra di fango e polvere. Sono le promesse di agiatezza dei fanatici che predicano austerità e rigore, dei bigotti che vietano la musica e le feste, e che al contempo ostentano un benessere fatto di automobili di lusso, televisori al plasma, quando una famiglia normale vive con meno di cento euro al mese. Nei due mesi precedenti al nostro arrivo, ben tre imam wahhabiti sono stati arrestati dalle autorità georgiane con l’accusa di t[]ismo internazionale e reclutamento.
Camerieri a Tbilisi
“Qui non c’è lavoro – ci dice Selina – e i nostri figli vedono il mondo da internet e dalla televisione, sanno com’è e non accettano più un destino da pastori. Per questo si arruolano”. La donna, fazzoletto in testa e aria contadina, insegna inglese ai bambini. “Alle donne è generalmente vietato lavorare, ma io sono vedova e mi è consentito”. L’insegnamento è però uno dei pochi lavori permessi “perché si lavora con bambini”, niente adulti, tanto meno uomini.
“Quando mio marito è morto, quelli della KRDF mi hanno insegnato l’inglese così che potessi insegnarlo nei loro centri”. La KRDF è un’organizzazione non governativa locale, riceve finanziamenti dall’UNHCR e il suo centro nel Pankisi è un luogo di aggregazione per donne e bambini. Qui è più facile anche parlare: “Le donne non stanno male, siamo libere”, dicono, ma veniamo a sapere che “quelli” – indicando col mento la moschea wahhabita – “non lasciano uscire le donne, e vogliono vietare anche lo dhikr”, il tradizionale rito sufi che le donne del villaggio celebrano ogni venerdì. La verità è che le donne, nel Pankisi, vivono in uno stato di subalternità sancito dalla tradizione ma aggravato dalla presenza dei fondamentalisti: “Di solito ci sposiamo giovani, e abbiamo anche dieci figli – dicono, a metà tra orgogliose e rassegnate – “anche in Italia è così?”.
I matrimoni, nella valle, vengono contratti a quindici, sedici anni, e questo malgrado la legge georgiana vieti espressamente matrimoni prima dei diciotto anni. Ma la legge georgiana, nel Pankisi, non è sempre rispettata. E’ la legge dei fondamentalisti che conta. L’imam wahhabita Abdurrahman Pareulidze lo dice chiaramente: “Il matrimonio religioso non prevede limiti di età” e accusa il consiglio degli anziani, che si rifiuta di riconoscere la validità dei matrimoni infantili, di “insultare l’Islam e il Corano”. Un’accusa grave, da quelle parti, dove si deve diventare adulti in fretta, specialmente le bambine che sono costrette a sposarsi in tenera età.
Anche per questo il centro della KRDF è rivolto soprattutto ai più piccoli e sembra una specie di oratorio laico, uno spazio di libertà distante dal clima oppressivo delle famiglie. “Anche io ho due figli piccoli – ci dice ancora Selina – e spero che imparando l’inglese possano avere una vita migliore, come fare i camerieri a Tbilisi”. I camerieri a Tbilisi. Questo è il futuro migliore, quello che si può sperare, per i giovani della valle.
Wahhabiti, mai sentiti nominare
“Giusto la settimana scorsa un ragazzo di Omalo è partito per la Siria”, ci spiega un’altra donna. “Conosco la famiglia, è stato un trauma. I ragazzi partono di nascosto, perché le famiglie non vogliono”. Ma come partono? “Il viaggio in Siria è costoso, ci sarà sicuramente qualcuno che li finanzia, ma non sappiamo chi”. E forse non lo sanno davvero ma in una comunità così piccola, dove tutti si conoscono, è più spesso la regola dell’omertà a vincere.
Alcuni nomi sono noti, tra questi Ahmed Chatayev “il monco”, eroe di guerra ceceno (perse il braccio a seguito di torture da parte dell’esercito russo), trasferitosi dal Pankisi alla Siria nel 2015 e ritenuto la mente dell’attentato all’aeroporto di Istanbul dello scorso giugno, o Murad Margoshvili, noto come Muslim al-Shishani, kist di Duisi, leader del gruppo Junud al-Sham, affiliato ad al-Nusra.
“Qui non ci sono fondamentalisti, siamo tutti musulmani, tutti fratelli” ci dice Razman, occhi azzurri, sguardo sornione. Uno abituato ad avere a che fare con gli occidentali che, nel Pankisi, vengono solo a caccia di mostri da sbattere in prima pagina. Così il confine tra omertà e autodifesa diventa labile. “Non ho mai sentito parlare di wahhabiti” conclude.
Nel nome del figlio
Il cimitero di Birkiani è uno dei luoghi dove è possibile vedere le tombe di coloro che hanno scelto la via della guerra, del jihad, contro i russi e contro “l’occidente”. Il numero di guerriglieri kist caduti nelle guerre cecene, o in Siria, è ignoto. I corpi vengono sepolti altrove, lontano dalla valle. Le famiglie spesso non sanno quale sia la sorte toccata ai figli. Tra questi anche Abu Omar al-Shishani, uno dei leader dell’ISIS, nato proprio a Birkiani e morto – secondo quanto dichiarato dall’ISIS – lo scorso luglio.
Il padre, Teimuraz Batirashvili, vive ancora nel Pankisi ed ha appreso dalla televisione le notizie sulla sorte del figlio, al secolo Tarkhan, che fu pastore bambino e poi soldato georgiano, distintosi nella guerra del 2008 contro i russi. Un figlio di cui essere fieri fino a quando non cambiò nome e scelse di farsi mujaheddin “per adempiere il Jihad sulla Via di Dio”.
Ma quell’uomo, barba lunga e kalashnikov in spalla, è ancora Tarkhan? Il vecchio non risponde, chiude la porta in fretta, stanco di giornalisti e domande stupide, stanco di rinverdire il dolore. Perché nel nome del figlio c’è l’origine, il luogo da cui si parte, e c’è la fede, un Dio per cui morire. Ma nel nome del figlio c’è anche un’assenza, uno strappo del sangue, perché nel suo nome, Abu Omar al-Shishani, non ha lasciato traccia del padre: Al-Shishani, letteralmente “il ceceno”, è un epiteto diffuso tra molti dei guerriglieri caucasici arruolatisi tra le fila dell’ISIS, mentre Abu Omar fa riferimento a uno dei primi califfi dell’Islam.
Chi sceglie la via del jihad lascia tutto, fin dalla scelta del nome che simboleggia – nell’abbandono del cognome – il rifiuto della cultura dei padri. Un rifiuto che, si è visto, diventa sempre più diffuso nella valle del Pankisi e testimonia la lacerazione della comunità, degli affetti, delle famiglie. Se la patria è la terra dei padri, cui fare ritorno, oggi il Pankisi non è più patria di nessuno, ma terra di figli che hanno scelto di essere orfani. Qual è stata la colpa dei padri? “Credere nel passato”, afferma l’imam della moschea tradizionale, facendo riferimento alle tradizioni cui i kist sono da sempre legati. Ma è una risposta insufficiente se pensiamo al caso di Omar al-Shishani, figlio di un georgiano ortodosso. Evidentemente il fondamentalismo fa presa anche su chi, nella regione, non è nato musulmano. Le ragioni della sua diffusione, quindi, non sono da cercarsi solamente dentro all’Islam.
Fondamentalismo all’opera
Il Pankisi è un luogo in cui è possibile osservare il fondamentalismo islamico all’opera, colto nel momento in cui agisce sulla comunità locale, trasformandone la cultura e segnandone, irrimediabilmente, il destino.
Il suo successo è costruito in modo capillare, comunità dopo comunità, valle dopo valle, un passo alla volta.
Nel caso del Pankisi, isolamento e povertà, assenza di futuro e disoccupazione, sono le cause prime della diffusione del wahhabismo. Ritornando dal nostro viaggio non ci si può che chiedere quante valli del Pankisi esistano al mondo.