Turchia, il golpe visto dalla CNN Turk
I giornalisti della CNN turca hanno vissuto in prima persona il tentato golpe dato che la loro sede è stata attaccata dai golpisti. Un’intervista con Ferhat Boratav, caporedattore della CNN Turk
Ferhat Boratav è caporedattore di CNN Turk, una delle più importanti emittenti televisive della Turchia. Ci riceve nel suo studio, oltre le file di scrivanie della sala principale, ora occupate da decine di giornalisti e operatori. La notte del 15 luglio queste sale vennero occupate dai militari (una delle vetrate è ancora là, in frantumi, a memoria degli eventi) per forzare l’interruzione delle trasmissioni. Superiamo anche la porta che conduce alla sala riprese da cui la notte del 15 luglio scorso venne trasmesso, attraverso Facetime, l’appello del presidente Erdoğan alla popolazione.
Un luogo dunque denso di eventi e significati rispetto al tentato golpe, tanto che Boratav ci chiede di aprire l’intervista con un video, realizzato dall’emittente, proprio sugli accadimenti di quella notte: si vedono i soldati, i tentativi di opporsi da parte di alcuni giornalisti, la folla che si raduna attorno all’edificio, l’intervento della polizia e, infine, la ripresa delle trasmissioni.
“È il racconto di un’ora e mezza di eventi concitati. Sono circolate voci che dipingevano il golpe fallito come finto. Da quel che ho potuto io stesso sperimentare, è stata una cosa seria, un golpe non tentato, ma fallito”, ci tiene a precisare.
Quali sono le ragioni di questo fallimento?
Credo siano state soprattutto due: la prima è la reazione avuta dai media. I golpisti ritenevano che i media si sarebbero fatti da parte, che avrebbero compreso le loro ragioni e si sarebbero allineati, ma così non è stato.
La seconda è la presa di posizione della gente, scesa nelle strade letteralmente per combattere i soldati. Questa gente è venuta fino a questo palazzo per salvarci. Se avessero fallito, noi oggi non saremmo in onda.
Ad oggi, chi è possibile ritenere responsabile di questo fallito golpe?
Io conservo ancora i messaggi ricevuti su Whatsapp di quella notte. Verso le 10.30, circa un’ora dopo le prime avvisaglie del golpe, un mio collega mi scrisse: “Questa è opera dei gülenisti”.
Quindi fin dal principio eravamo certi di chi fosse dietro questa operazione e la ragione è semplice: non esiste altra fazione, all’interno dell’esercito, che abbia un numero di affiliati e capacità organizzativa sufficienti ad organizzare il golpe. Sono stati in grado di reclutare soldati da oltre 20 unità differenti, alcune delle quali sono unità di élite, provenienti da tre diverse basi militari, oltre a tre squadre di unità speciali per dare la caccia a rappresentanti chiave del governo.
Quando tutto è finito, abbiamo assistito a confessioni e ammissioni di colpa da parte di ufficiali di alto rango, i quali hanno dichiarato di essere parte del network di Gülen e di esserlo fin dal principio della loro carriera.
Ci sono ancora due collegamenti mancanti per completare il quadro: quando saranno di dominio pubblico sarà tutto più chiaro.
Il primo, molto importante, è la figura di Adil Öksüz, che è ritenuto emissario di Gülen nelle forze aeree. Era stato arrestato la notte del fallito golpe. Testimoni hanno confermato la sua presenza all’interno di una delle basi militari usate durante le operazioni, da dove diramava istruzioni agli ufficiali. È stato arrestato dalla gendarmeria, presentato ad una corte per la conferma dell’arresto, ma questa ha rigettato l’arresto per insufficienza di prove e quindi lasciato a piede libero. Se ne sono perse le tracce ed ora è in corso una grossa caccia all’uomo. Sappiamo però che Öksüz ha viaggiato verso gli Stati Uniti due giorni prima del golpe e poi è rientrato in Turchia. Si ritiene abbia portato con sé le ultime indicazioni e il via libera per l’operazione.
Il secondo elemento mancante è quella che si chiama in gergo “pistola fumante”, la prova definitiva che stabilisca la responsabilità oltre ogni dubbio.
Ritiene che ci siano o ci siano state responsabilità da parte del governo nel favorire la crescita della rete di Gülen, alla luce dell’alleanza storica con l’AKP?
Il mio interesse per Gülen risale a metà degli anni ’80. Io ero parte del team che per la prima volta mandò in onda un video, in cui il predicatore dava chiare istruzioni ai suoi seguaci su come infiltrarsi nello stato. Quel video venne divulgato nel 1999. Conosco questi uomini ed i loro metodi molto bene.
Quando l’AKP salì al potere nel 2002 era un partito nuovo, fondato soltanto due anni prima, e perciò dotato di scarsa esperienza nell’arena politica. Avevano bisogno di persone, tecnici e burocrati per gestire la quotidianità del governo e dell’amministrazione. Gülen fornì loro queste persone. Fu un matrimonio di convenienza. Gülen fornì la manodopera ed ovviamente ottenne qualcosa in cambio: sono sicuro che ottennero alcuni accordi favorevoli in occasione di bandi e commesse pubbliche. Soprattutto, ottennero ulteriore accesso all’apparato dello stato. Se oggi osserviamo questi generali o ufficiali di rilievo sospesi dai loro incarichi, licenziati o arrestati, vediamo che ricevettero tutte le loro promozioni sotto il governo AKP.
Questo matrimonio di convenienza è crollato in un momento preciso, ovvero quando Gülen ritenne di essere forte a sufficienza per chiedere di più al governo. Ciò è avvenuto durante la riforma costituzionale di circa due anni fa. Per la prima volta nella storia repubblicana, un movimento religioso rilasciò una dichiarazione di esplicita natura politica. Gülen disse: “Vorrei che i morti potessero uscire dalle loro tombe e votare a favore degli emendamenti alla costituzione”. Questi emendamenti aprirono la strada ad Erdoğan verso l’elezione diretta della carica di presidente della repubblica. Si trattò di un fortissimo sostegno da parte di Gülen ad Erdoğan e alle sue ambizioni.
Quello è il momento in cui Gülen si schierò apertamente in campo politico. Fino ad allora i gülenisti potevano dire di essere soltanto un’organizzazione di beneficenza; invece da quel momento non fu più possibile per loro nascondere le loro ambizioni politiche. Il governo ottenne gli emendamenti ed i gülenisti rivendicarono il risultato. Al tempo c’erano sondaggi che cercavano di identificare la base elettorale gülenista, 10%, 15% o 20%, nessuno lo sapeva con certezza. In quel momento Gülen chiese una fetta di potere politico.
E cosa chiedevano esattamente i gülenisti al governo?
Sicuramente posizioni nei ministeri e nel governo, la possibilità di presentare loro candidati alle elezioni parlamentari. E ci riuscirono! Pensate ad Hakan Şükür, famoso ex calciatore: venne eletto in parlamento nelle fila dell’AKP e sapevamo che era un affiliato alla rete gülenista.
Dopo di questo ci furono altre situazioni, come lo scandalo corruzione del 2013 o il tentativo da parte dei gülenisti di mettere sotto accusa il capo dei servizi segreti (MIT) vicino a Erdoğan, ma il nodo della questione fu lo scontro politico in seguito a questo episodio.
Il Consiglio di Sicurezza Nazionale ha espresso parere favorevole per estendere ulteriormente lo stato di emergenza (provvedimento poi ufficialmente adottato il 3 ottobre scorso). Ritiene ci sia davvero bisogno di estendere lo stato di emergenza o sarebbe meglio assecondare le richieste di parte dell’opposizione di tornare alla centralità del parlamento
Ho definito il 15 di luglio come un terremoto. I geologi ci dicono che un terremoto avviene ma la faglia che l’ha determinato non scompare. Le faglie che minacciano la società e lo stato turco non sono scomparse. Il golpe fallito comporterà che le persone cambieranno il loro modo di comportarsi nella vita pubblica, è qualcosa che stiamo già vedendo. Vediamo anche che il dialogo tra governo e partiti di opposizione è migliorato rispetto ai tempi precedenti. Il fatto che tutti indistintamente si siano opposti al golpe ha cambiato la natura del sostegno popolare all’AKP e dei media favorevoli al governo.
Ovviamente ci sono diverse opinioni e politiche tra governo e opposizioni. Credo che la gente capisca l’estensione di altri tre mesi dello stato di emergenza. Nessuno si aspetta che tutto torni alla normalità in soli tre mesi. Piuttosto, un’estensione ulteriore di questo provvedimento, oltre i sei mesi, ritengo sarebbe assai dannoso per questo paese. Dobbiamo tornare ad una vita politica normale. Pochi giorni fa organizzazioni di rating internazionali hanno rivisto al ribasso le valutazioni del paese, citando l’instabilità politica. Lo stato di emergenza ha certamente influenzato questa decisione ed è chiaro quindi come questo possa, alla fine, diventare un fattore di instabilità.
Non saprei se un’inchiesta parlamentare sia lo strumento migliore per valutare i fatti del 15 luglio. Ci sarà sicuramente un processo, uno di enorme portata. Nella nostra esperienza, un processo è lo strumento più efficace per capire cosa sia realmente successo. Una commissione parlamentare potrebbe politicizzare ulteriormente la vicenda, anche più di quanto non sia già avvenuto.
Il punto è che comunque venga condotta l’indagine, che sia in un tribunale, all’interno del parlamento, o da parte di una commissione governativa, l’importante è che il lavoro sia fatto in trasparenza e che consenta di arrivare ad un risultato: capire esattamente cosa sia successo, chi siano i responsabili e cosa può essere fatto perché non si ripeta in futuro.
Il fatto che le opposizioni siano coinvolte nel dibattito è fondamentale. Hanno stabilito le loro commissioni per monitorare le misure adottate dopo il fallito golpe e sono una voce attiva nel dibattito. Mi auguro che continuino a fare parte di tutto ciò.
Tra i partiti di opposizione l’HDP, contrario allo stato di emergenza, è però stato escluso da qualsiasi incontro ufficiale del governo sul tema, nonostante abbia 59 parlamentari.
Il caso dell’HDP è complesso. Innanzitutto non è stato solo il governo a volere l’HDP fuori dal dibattito. Ad esempio il MHP (partito della destra ultranazionalista) è molto ostile all’HDP, li vorrebbero tutti in prigione. Il CHP (partito socialdemocratico di centrosinistra) ha una posizione diciamo a metà strada, non vogliono che l’HDP cada vittima di una caccia alle streghe, ma neppure vogliono maturare un qualche genere di relazione con loro.
La mia opinione personale è che una voce curda nel parlamento sia indispensabile. L’unico rimedio sicuro contro il terrorismo è la possibilità di garantire a chiunque l’esercizio dei diritti politici, escludendo l’uso delle armi e della forza. Chiunque ha diritto ad essere rappresentato e ad esprimere la propria visione nel parlamento, a patto che vi sia una concreta rinuncia alla violenza. È assolutamente cruciale avere un partito, sia l’HDP o un altro, che rappresenti i curdi in parlamento.
Le azioni condotte dal governo dopo il fallito golpe hanno riguardato decine di migliaia di persone, la cui vita personale e familiare è stata stravolta. Pensa che queste azioni siano andate oltre il legittimo mandato di lotta ai golpisti?
Dobbiamo stabilire se l’azione del governo sia mirata a colpire un certo gruppo, oppure stia traboccando in altre direzioni. Ecco perché sono così convinto circa la necessità di avere le opposizioni a monitorare questo processo, con la possibilità di comunicare al governo i risultati di questo monitoraggio. Credo anche che il governo stesso sia consapevole: per questo hanno stabilito delle commissioni in ogni agenzia statale in tutto il paese allo scopo di riesaminare i casi; sono sicuro che molti dipendenti pubblici verranno reintegrati nelle loro posizioni. Si tratta comunque di un’operazione rischiosa: il governo cerca di separare i colpevoli dagli innocenti e facendo ciò può coinvolgere persone non responsabili.
Dovremo osservare con cura come questo processo di revisione verrà gestito. È necessario che vengano garantiti mezzi legali per consentire a coloro che si sono sentiti ingiustamente accusati di poter fare ricorso, mezzi che ad oggi non ci sono. Altrimenti negli anni futuri lo stato turco avrà continui ed enormi problemi, sia con la Corte costituzionale, sia con la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Ci sono però decine di casi di persone, anche importanti, colpite da provvedimenti con accuse quantomeno generiche, pensiamo al caso dei fratelli Altan. Spesso queste persone sono incarcerate in attesa di processo. Non ha l’impressione che quanto sta già avvenendo rappresenti già una violazione dei diritti individuali?
Nessuno dovrebbe attendere il proprio processo in prigione. Ciò dovrebbe essere valido per tutti, a meno che non ci sia una palese e valida motivazione per agire diversamente.
I casi contro alcuni giornalisti o accademici riguardano diversi temi: alcuni casi sono legati al fallito golpe, altri invece riguardano ad esempio la petizione che gli accademici per la pace hanno firmato in relazione alla questione curda. Poiché tutto ciò sta avvenendo in contemporanea, la percezione generale è che tutto si mescoli in un’unica matassa, cosa che non va a beneficio degli interessi del paese. L’autorità deve essere cauta altrimenti equivale a spararsi nei piedi.
Pensiamo ad esempio al caso di Öksüz, di cui abbiamo già parlato. Lui è professore associato in un’università, quindi è un accademico. Se è davvero coinvolto in questo golpe, è ovvio che non gli vada garantita alcuna immunità per il semplice fatto di essere un accademico. Se invece cominci a perseguire tutti gli accademici che hanno qualche sorta di relazione con il movimento di Gülen, ecco che allora cominciano i problemi.
Per quanto riguarda la purga in sé, il principio è che l’autorità dello stato dovrebbe essere indivisibile. Non è possibile avere membri di polizia, ad esempio, che indossano l’uniforme ma obbediscono ad un altra autorità diversa dallo stato, perché questo distrugge il tessuto stesso dello stato. Potete immaginare avere giudici e procuratori che ricevono ordini da una fonte opaca. Questo è fondamentale, ma questa operazione di pulizia dello stato deve essere condotta senza lasciare alcun dubbio nella mente delle persone e l’intero processo dev’essere chiaro, trasparente e degno di fiducia.
Ci sono casi di dipendenti della CNN coinvolti in provvedimenti legati al colpo di stato?
No, assolutamente.
Lei è giornalista. Ritiene sia possibile svolgere questa professione in sicurezza in questo momento nel paese? Quali sono le preoccupazioni?
Ci sono un paio di cose che preoccupano i giornalisti. La prima è che è molto probabile che tutte le mie conversazioni telefoniche siano sorvegliate, ed io non ho la minima idea di chi lo stia facendo. L’autorità legittima? Qualcuno legato a Gülen? O una terza possibilità? Non lo sappiamo. Molti giornalisti sono stati portati a processo a causa di queste intercettazioni illegali.
La seconda preoccupazione riguarda il sommarsi degli effetti del caso Gülen e di molte altre situazioni, le quali contribuiscono a creare nel paese un palpabile clima intimidatorio. Le persone sono spaventate che qualunque loro azione possa essere considerata sbagliata e quindi perseguita. Non è un problema che riguarda soltanto i giornalisti, pensiamo anche alle nostre fonti. Questo impedisce la libera espressione delle idee e delle opinioni e danneggia il giornalismo. Tutto questo deve cambiare, non è sostenibile.
Sta circolando nei media internazionali la notizia circa l’hackeraggio, da parte del gruppo RedHack, di alcune email di proprietà di Berat Albayrak, ministro dell’Energia e genero di Erdoğan, il quale avrebbe tra le altre cose intrattenuto conversazioni circa la gestione della linea editoriale di alcuni gruppi mediatici, incluso il gruppo Doğan, proprietario di CNN Türk.
Il caso delle email mi è nuovo, io stesso ne sono al corrente da poco. So che la fonte delle email ha dichiarato che queste email sono dei falsi. Ne seguiremo gli sviluppi, non abbiamo ancora udito commenti da parte politica. Personalmente però non utilizzo quel tipo di materiale. Nel caso Wikileaks, ad esempio, ero molto più preoccupato circa i documenti filtrati: ho poi utilizzato alcuni di quei documenti, perché l’autorità statale stessa ha riconosciuto l’autenticità dei documenti. Ma quando si tratta di altri documenti hackerati provenienti da altre fonti, io non posso permettermi di riutilizzarli senza aver la possibilità di confermarne l’autenticità.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto