Quadri dall’Armenia: una sinfonia concertata
Un reportage dall’Armenia che è modulato secondo la struttura di una sinfonia classica, un viaggio che ci porta dal Cenozoico sino all’attualità
(Questo reportage esce in contemporanea sulle pagine della rivista letteraria on-line Odissea)
PRELUDIO: Tbilisi, alle pendici del Monte Santo (Ode a Lima)
Lungo la riva destra del fiume Mtkvari, la città vecchia di Tbilisi biancheggia aggrappata al Monte Santo, sul quale troneggiano la grande ruota panoramica e il traliccio delle telecomunicazioni. Vista dagli aeroplani che incessantemente sorvolano il Caucaso e che collegano l’Occidente all’Asia, la città vecchia appare come una lastra di marmo bianca rigata da solchi neri e sottili.
Quei solchi sono in realtà strade lunghe e strette dove persino la luce si insinua a fatica; sui marciapiedi anziane signore passeggiano curve appoggiandosi al bastone con una busta della spesa inverosimilmente ricolma appesa al braccio sinistro; giovani con gli occhiali da sole si affrettano non si sa dove; coppie di fidanzati passeggiano tenendosi per mano; furgoni carichi di merci arrancano in salita e sfiorano pericolosamente i passanti con gli specchietti retrovisori.
In uno di quei vicoli (dalla via Rustaveli, l’arteria principale della città vecchia che scorre parallela al fiume, bisogna svoltare improvvisamente a sinistra dopo aver superato il Teatro dell’Opera e arrampicarsi di qualche metro per poi imboccare con prontezza la prima strada a destra), Lima gestiva il proprio negozio, che si chiamava semplicemente “Market”. Lima è armena, la sua famiglia vive da sempre in Georgia. A Tbilisi è a casa.
Nella sua bottega era possibile trovare di tutto: uova fresche, affettati, lampadine, bevande, oggetti per la casa. Magra e gentile, i capelli neri e lunghi raccolti da un fermaglio e lasciati cadere sulle spalle, Lima amava intrattenersi con gli avventori e li accompagnava fin sull’uscio una volta terminati gli acquisti. Dopo 30 anni, è stata costretta a chiudere l’attività: anche i clienti più fedeli hanno optato per i grandi centri commerciali che sorgono ovunque alla periferia della città e che hanno lo stesso aspetto, a Tbilisi come a Bishkek, a Novosibirsk come a Tomsk e a New York.
Lima non ha né annunciato né pubblicizzato la chiusura. Una mattina di giugno, una qualsiasi, con l’estate alle porte e gli abitanti di Tbilisi che si svegliano con i capelli già bagnati di sudore per via dell’aria calda e umida che ristagna nella valle, la saracinesca del “Market” è rimasta abbassata. Coraggiosa e decisa, Lima ha venduto il locale, ha lasciato la città e nessuno sa dove sia. “Lima non è più qui”, urlano alcune bambine a chi si avvicini al negozio, mentre saltellano sui contorni irregolari di una “campana” disegnata sul marciapiede con un gessetto colorato. Si arrestano un istante, con in mano il sasso da gettare sull’asfalto, per guardare in faccia coloro che ancora non sanno che il negozio rimarrà chiuso per sempre. Lima ha capito che, pur essendo riuscita a sopravvivere al crollo dell’URSS e al caos economico e politico che negli anni Novanta ha investito la Georgia, non si sarebbe potuta opporre alla forza omologatrice e distruttrice della globalizzazione neoliberista. I grandi consorzi internazionali sono arrivati anche nel Caucaso e hanno ormai quasi completamente soffocato le rivendite al dettaglio.
Il negozio di Lima è adesso in fase di ristrutturazione. Il nuovo padrone lo rinnova e spera presto di affittarlo. In un angolo del locale, Lima aveva il suo ufficio, dove spesso trascorreva anche la notte: una stanzetta ordinata, con i libri di contabilità, il computer, il crocefisso appeso alla parete. Ora è completamente vuota. Sul muro di fronte alla porta di ingresso sono rimasti soltanto l’ombra polverosa lasciata dal crocefisso, che probabilmente Lima ha voluto portare con sé, e un’icona della Madonna che piange inconsolabile sul corpo del figlio morto.
(Le finestre del palazzo di fronte spandono il riverbero del sole sui muri scrostati dell’edificio che a pian terreno ospitava il “Market”. Un muratore siede con le gambe piegate, come un pappagallo sul trespolo, su un mattone, proprio davanti al negozio. Fuma e centellina il caffè appoggiando appena le labbra al bordo della tazzina, quasi abbia paura di romperla. “Sì, certo, Lima, non è più qui, non si sa, non si sa dove sia… Il suo negozio? Va al primo che lo vuole”. Il caldo scioglie l’asfalto. Anche il palazzo signorile all’inizio della via è in ristrutturazione, c’è solo la facciata, come una scenografia a teatro; al di là delle finestre si intravvedono il blu del cielo e il bianco dei cumulonembi di condensazione sui monti del nord; sono le nubi che annunciano il meriggio. Il muratore fuma felice e incredulo di avere davanti a sé un uomo di “besa”, venuto dalla pianura del Danubio per far fede alla parola data molti anni prima in quel negozio della Città Vecchia).
PRIMO MOVIMENTO: romantico e un poco solenne (come il primo atto di “Anush”)
La strada che collega Tbilisi all’Armenia ha solo due corsie. È percorsa da camion mastodontici, ricchi fuoristrada, vecchie e piccole “Lade” con il portapacchi coperto da teli di plastica i cui orli vibrano gioiosamente al vento, e dalle marshrutke, furgoni adibiti al trasporto dei passeggeri. Un solo treno al giorno va da Batumi, sulla costa del Mar Nero, a Yerevan, via Tbilisi, passando per la Colchide, la pianura in cui gli argonauti cercarono il vello d’oro e che oggi viene attraversata in fretta dai turisti diretti in Turchia o a Kutaisi, la città che ha aperto il proprio aeroporto alle compagnie aeree europee a basso costo.
La Georgia guarda sempre più a occidente e sembra voler dimenticare il proprio passato sovietico. Gli autobus pubblici sono quasi inesistenti; chi non è dotato di un mezzo proprio e voglia raggiungere la capitale armena si deve affidare alle marshrutke o ai taxi. Un sistema che dà lavoro a decine di persone, soprattutto a coloro che erano impiegati in aziende statali sovietiche, privatizzate dopo il crollo dell’URSS e fallite nel giro di pochi anni.
L’altipiano che separa Tbilisi dalla frontiera è martoriato dal sole: la forte luce invade l’intera volta celeste e schiaccia l’erba al suolo, per giorni, fino a farla ingiallire a poi morire. Già agli inizi di luglio, i prati verdi si trasformano in un’enorme spianata di sabbia marrone, su cui si aprono qua e là le chiome di piccoli e coraggiosi alberi. Sono per lo più acacie, le cui foglie sono verdi e impassibili, indifferenti al caldo che soffoca il Caucaso. Lungo la strada, semplici casupole di cemento ospitano rivendite di frutta e verdura; impossibile scorgere l’interno di questi negozi che vivono del traffico frontaliero: lenzuola bianche o tende nascondono l’uscio per difendere commercianti e avventori dal caldo e dalle mosche.
A un certo punto, l’altipiano lascia il posto a colline dalle cime aspre e appuntite, che mimano montagne d’alta quota. La strada piega improvvisamente verso ovest e la frontiera si annuncia dietro a un’altura su cui svetta un traliccio con in cima un grappolo di ripetitori circolari e antenne di trasmissione rivolti verso Tbilisi. Le marshrutke si incolonnano indisciplinate al posto di blocco, cercano di superarsi a vicenda per arrivare prima ai controlli. I passeggeri scendono e si incamminano verso l’edificio bianco e lungo dove si trova la frontiera. Oltrepassato il confine, bisogna percorrere un centinaio di metri a piedi e superare il ponte sul fiume Debed, lungo il quale si attorciglia la ferrovia a un binario che si ostina a rimanere in territorio georgiano ancora per qualche chilometro prima di incontrare un cavalcavia e superare lo stretto corso d’acqua verde, che scorre veloce verso la piana del Mtkvari. Dal confine si intravvede già l’Armenia, mentre la Georgia rimane chiusa, invisibile al di là dell’altura su cui svettano i ripetitori. L’edificio della dogana, oltre il prefabbricato in lega metallica in cui alloggia la polizia di frontiera, è in tufo rossastro, a indicare l’ingresso in una terra di vulcani ormai spenti, di magma innocuo perché da secoli raffreddato, ma anche di terremoti improvvisi e violenti.
Superato Bagartashen, un paese che si trova a ridosso del confine, il paesaggio cambia radicalmente. La strada percorre un tratto lungo la valle del Debed per poi arrampicarsi, fra continui tornanti, sulle alture dell’Armenia settentrionale. La vegetazione è fitta a valle e si fa più rada a mano a mano che si sale. I querceti e i faggeti lasciano il posto ai pini caucasici, che ornano i pendii a mezza costa; sotto la fascia delle pinete domina il verde confuso della vegetazione tipica delle quote più basse; al di sopra si estendono i piani alpini ricoperti di erbe e licheni che trasformano le montagne in calvi giganti.
Ai lati della strada, negli spiazzi polverosi fra la carreggiata e lo strapiombo, dove spesso gli automobilisti si fermano per riposare, compaiono bancarelle improvvisate dietro alle quali siedono anziani signori o adolescenti. Vendono frutta, verdura, acqua, pannocchie di granoturco appena abbrustolite. Fra le piramidi di cocomeri striati di bianco fanno capolino le teste abbronzate di bambini ubriachi di sole. Immobili, seduti per terra o su un mattone appoggiato sull’asfalto, guardano indifferenti e con gli occhi socchiusi le auto sfrecciare.
Nessuno sembra accorgersi che l’immobilità a cui il meriggio costringe la natura è solo apparente. Nelle viscere della terra, la placca tettonica europea continua a scontrarsi e a essere sommersa da quella iraniana, in un processo lento e inarrestabile che dura ormai da 25 milioni di anni. Le rocce si contorcono come serpenti arrabbiati, scivolano l’una sull’altra, si distendono fino all’inverosimile per poi rompersi di schianto, rilasciando calore ed energia a scuotere come un panno di bucato l’intera penisola caucasica. Le due placche cominciarono a scontrarsi nel Cenozoico; nello stesso periodo anche l’Africa iniziò a muoversi verso nord, verso l’Europa. Contemporaneamente al Caucaso, anche in Europa la terra si increspò e formò i primi corrugamenti alpini. I movimenti tettonici dell’Eurasia condannarono l’antico Oceano Tetide alla scomparsa; chiuso in una morsa mortale, l’antico mare si restrinse fino a diventare un golfo all’interno del Mediterraneo, destinato a sua volta a sparire fra pochi milioni di anni, quando la penisola italiana scivolerà su quella balcanica. Il grande Oceano di un tempo era stato già dai marinai della Serenissima declassato a “Golfo di Venezia”, anche se i geografi delle epoche successive gli hanno restituito la dignità di mare, mare Adriatico, dal nome di Adria, una città scomparsa, di cui non si sono mai trovati i resti.
Nel Caucaso, come in Italia e nei Balcani, la Grande Catastrofe sembra lontanissima; forse arriverà quando l’umanità non esisterà già più, in un tempo altro, mitico, in cui il passato si ricongiungerà al presente, chiudendo il Tempo in una circolarità letale, che annullerà anche lo spazio e ridurrà l’esistente a un unico punto nero nel vuoto del nulla. In ogni caso, i venditori ambulanti sanno che non vale la pena occuparsi di simili questioni e sembrano essere impensieriti esclusivamente dal fatto che solo raramente gli automobilisti sostano per rifornirsi di viveri. Le marshrutke invece non possono permettersi il lusso di fermarsi, e il viaggio verso Yerevan continua, fra sorpassi e bruschi abbrivi
(I paesaggi del nord dell’Armenia non sono cambiati molto da come li aveva rappresentati il pittore Stepanos Nersissian a metà ‘800. Le ragazze dei paesi e delle contrade sprofondati nelle vallate non vanno più alla fonte per prendere l’acqua, ma la natura è rimasta selvaggia come un tempo. In uno di questi villaggi nacque anche il poeta armeno romantico Hovhannes Tumanyan, che creò la sua opera pricipale, “Anush”, nel 1892. Il poema è scritto nella variante orientale della lingua armena, che è anche l’idioma ufficiale dell’attuale Repubblica Armena. La variante occidentale era invece parlata nei territori dell’ovest, nell’ex impero ottomano, ed è oggi la lingua della diaspora. Le due varianti si discostano a tal punto da far pensare che si tratti di due lingue diverse. Il compositore Armen Tigranyan musicò il testo di Tumanyan e nacque così il primo melodramma armeno. Era il 1912, il paese viveva, in ambito culturale, il proprio risorgimento nazionale. La musica di Tigranian accosta motivi popolari armeni a quelli tipici del romanticismo russo, soprattutto di Pietr Ilich Chajkovski. A Vienna, il compositore Gustav Mahler – colui che fece letteralmente esplodere la tradizione classica europea e aprì le porte a una nuova era in campo musicale – riposava già da un anno nel cimitero di Grinzig insieme alla figlia Maria “Putzi”, morta nel 1907. L’Armenia arrivava in ritardo rispetto all’Europa, ma ciò non vuol dire che l’arte di questa piccola nazione sia meno interessante di quella occidentale. Nella musica di Tigranyan, inoltre, non mancano echi wagneriani, a testimoniare che il nuovo aveva comunque fatto breccia anche nel Caucaso. Le ragioni del Risorgimento culturale tardivo armeno vanno ricercate nelle complicatissime vicende storiche del paese: alla fine del XIV secolo, gli armeni avevano perduto per sempre il proprio impero – che nei tempi antichi si estendeva dall’attuale Turchia orientale fino al Mar Caspio – a causa delle continue e snervanti invasioni dei Turchi, dei Persiani e dei Mammalucchi sirio-egiziani. Soltanto nel XIX secolo gli armeni dell’est si sono ritrovati sotto un’entità statuale stabile. Nel 1813, infatti, passarono sotto il dominio degli zar russi, insieme alla Georgia. Furono gli armeni e i georgiani stessi a chiedere protezione ai russi affinché li difendessero dalle continue scorribande dei persiani, popolo musulmano. A unire russi, armeni e georgiani era la religione, il cristianesimo ortodosso. Gli zar garantirono quella tranquillità politica necessaria allo sviluppo di una coscienza e di un’arte davvero nazionali. Gli armeni dell’ovest, invece, erano già da secoli sotto il giogo dell’impero ottomano. Fino al 1991, anno in cui fu proclamata l’indipendenza, non è esistito un vero e proprio stato armeno, a eccezione della breve parentesi costituita dalla Prima Repubblica, nata nel 1918 e spazzata via dai Bolscevichi due anni più tardi. Nell’attuale Repubblica Armena il russo è ancora molto diffuso, anche se i giovani tendono ad abbandonare l’idioma di Tolsoj per concentrarsi sull’inglese, una lingua molto prestigiosa non solo perché parlata ovunque, ma anche perché veicola ideologie e modelli di vita occidentali. I rapporti fra Yerevan e Mosca sono rimasti comunque ottimi, e non sono come quelli che solitamente intercorrono fra uno Stato colonizzato e quello colonizzatore. Non si può parlare di vera e propria dominazione da parte dei russi in Armenia: piuttosto di simbiosi, di coesistenza di culture, in cui il Cremlino ha avuto spesso l’ultima parola per via della propria superiorità demografica, politica e, soprattutto durante il periodo sovietico, anche militare).
All’improvviso, dopo una lunga galleria, la strada abbandona le montagne e digrada verso valle, per costeggiare il lago Sevan, uno dei più grandi del Caucaso, i cui colori e le cui spume ricordano il mare. L’azzurro cobalto dell’acqua profonda e dolce contrasta con il marrone scialbo, spoglio e polveroso delle alture limitrofe. Il cielo dialoga con il lago, quasi a voler ribadire la dominazione incontrastata del blu sul paesaggio circostante. La strada diventa più comoda, a quattro corsie, e le marshrutke possono accelerare; Yerevan dista solo un’ora dal bacino di Sevan e i primi grattacieli si stagliano all’orizzonte, sagome regolari che compaiono e scompaiono fra gli scheletri dei magri cespugli cresciuti lungo il bordo dell’autostrada e già seccati dal sole.
SECONDO MOVIMENTO: allegro con moto – notturno, allegro sostenuto alla Khachaturyan
Il centro di Yerevan è racchiuso all’interno di un anello, costituito a ovest da un largo boulevard al centro del quale si trova un parco lungo e stretto, costellato di caffè e ristoranti. A est e a nord, invece, i declivi delle colline cingono la città, quasi fossero gli spalti di uno smisurato teatro a cielo aperto di cui la stessa Yerevan costituisce l’immensa platea. Yerevan è moderna, quasi interamente edificata in tufo rosa-rossastro. Agli inizi del secolo scorso, l’architetto Alexander Tamanyan ridisegnò la pianta urbanistica del centro storico; i palazzi da lui progettati sono ispirati al classicismo italiano e al Medioevo armeno: la piazza principale, Piazza della Repubblica, non solo ricorda l’architettura italiana del periodo fascista, ma sembra anche ricalcare la metafisica delle “Piazze d’Italia”, la serie di dipinti realizzata da Giorgio De Chirico agli inizi del secolo scorso.
I fregi e gli ornamenti dei palazzi sono quelli tipici delle chiese medievali armene. Anche l’imponente scalinata delle “Cascate”, adagiata sulla collina a nord-est della città, ricorda in maniera impressionante Piazza di Spagna a Roma. Yerevan sembra voler a ogni costo rimarcare le proprie radici occidentali e rimuovere quelle orientali, russe, persiane e in misura minore anche turche.
L’Armenia è un paese fortemente nazionalista e ciò è visibile persino nella struttura urbanistica della capitale. La via principale, che taglia l’anello del centro da nord a sud-est, è intitolata a Mesrop Mashtos, il monaco e linguista che nel 405. d.C. codificò l’alfabeto armeno. Via Mashtos, dopo aver attraversato trionfalmente il cuore della città, finisce ai piedi del Matenadaran, un maestoso edificio in stile neoclassico che ospita tutti i manoscritti e i libri stampati della tradizione armena, dal Medioevo fino al Novecento. Il Matenadaran non è un semplice museo, ma un vero e proprio tempio: le sale sono state progettate in maniera tale da assumere le sembianze delle antiche chiese armene che si trovavano in territorio ottomano, quelle distrutte dai “Giovani Turchi” ai tempi del genocidio. I manoscritti non sono solo dei documenti storico-culturali, ma anche dei veri e propri feticci. La visita al Matenadaran è sentita come un obbligo morale da ogni cittadino armeno e ha una valenza patriottica e quasi religiosa.
Accanto al Matenadaran si trova la gigantesca statua in bronzo della “Madre Armenia”, una donna dai tratti fisici squadrati (ispirati di nuovo alla retorica fascista italiana, soprattutto alla statua della Sapienza che si trova all’Università di Roma) con in mano una spada, a proteggere la città e l’intera nazione. I turisti camminano lentamente per le vie del centro, con le macchine fotografiche appese al collo e la bottiglia dell’acqua in mano come unica difesa dal sole forte e dal caldo che assedia la città. La vera Yerevan, quella sincera, autentica, non imbellettata di lussuosi negozi e dei simboli tipici della globalizzazione neoliberista, si trova però a sud, lì dove i visitatori stranieri raramente si avventurano.
La metropolitana, costruita durante il periodo sovietico e costituita da treni con due soli vagoni, collega la periferia settentrionale, dove si trovano i quartieri residenziali, a quella meridionale, che fino agli inizi degli anni Novanta ospitava le principali fabbriche del paese. Nell’Unione Sovietica una città acquistava prestigio e poteva vantarsi di essere una metropoli solo se aveva la metropolitana. Tbilisi e Yerevan erano capoluoghi piccoli e la costruzione di una ferrovia urbana sotterranea è stata un dono politico del Cremlino alle due capitali del Caucaso e non il frutto di una scelta legata alla necessità di muoversi velocemente e di diminuire il traffico di superficie.
L’Armenia era famosa per le sue industrie metalmeccaniche, che producevano materiale rotabile per le ferrovie dell’intero impero sovietico. C’erano anche fabbriche specializzate nell’alta tecnologia (un settore che è ancora oggi abbastanza forte nel resto del paese, ma non nella capitale), in particolar modo nella creazione di microchip e componenti aero-spaziali. Negli anni ’90, dopo una sciagurata politica di privatizzazioni, la maggior parte delle industrie è fallita.
La periferia sud di Yerevan è un triste monumento ai tempi passati, emblema di decadenza e di abbandono. Ai lati della linea della metropolitana si susseguono gli edifici che un tempo ospitavano operai e macchinari. I vetri alle finestre sono rotti o scheggiati, il ferro degli infissi, che nessuno più ha verniciato, cola sotto forma di ruggine sui mattoni di tufo rosso. All’interno dei cancelli la vegetazione ha preso il sopravvento sulle panche e sugli spazi in cui i lavoratori si riunivano per fumare durante le pause. I binari di servizio, che collegavano alcune aziende con la linea ferroviaria per Tbilisi e l’Iran, si snodano per decine di metri incorporati nell’asfalto di stradine secondarie. Si interrompono all’ingresso degli ex stabilimenti: la morsa dell’asfalto si allenta e le rotaie tornano a scorrere sulla terra; vengono però subito soffocate da erbacce altissime e persino da qualche albero da frutto, cresciuto per caso fra le traversine.
Le uniche fabbriche ancora attive sono quelle legate alla produzione di materiali edili e alla manifattura del tabacco. Lungo il grande boulevard che unisce il centro della città all’autostrada, ci sono solo alcune officine, davanti alle quali giovani apprendisti abbronzati e a petto nudo sorseggiano un caffè o bevono una coca-cola ghiacciata. Guardano sornioni i rari passanti, con gli occhi semichiusi per l’albedo solare che spande luce ed energia non solo dal cielo, ma anche dall’asfalto e dagli edifici circostanti. Le uniche abitazioni a mostrare qualche traccia di vita sono le vecchie “krusciovke” a 5 piani, i condomini che il Presidente dell’URSS Nikita Krusciov fece costruire per risolvere l’annoso problema della casa che costringeva le famiglie dell’impero a condividere gli appartamenti.
La situazione economica in Armenia è critica proprio perché non c’è produzione industriale. Anche in centro, sono numerosi i segnali che indicano il disagio in cui la popolazione è costretta a vivere: balza agli occhi l’enorme quantità di “Lombard”, una parola che in russo sta a indicare i monti di pietà: già nel Medioevo, infatti, i primi ad aprire i banchi dei pegni ovunque in Europa furono dei ricchi commercianti lombardi. In uno di questi locali c’è anche Astrid, professoressa di chimica all’Università di Yerevan. Alta e dinoccolata, la pelle olivastra, i capelli nerissimi e gli occhi grandi e allungati, sta impegnando la collana d’oro ereditata anni fa dalla nonna: “Non è un grande problema – dice Astrid con un sorriso che non riesce a nascondere la delusione – a settembre comincerò di nuovo a tenere lezioni private e ricomprerò la collana. Purtroppo adesso è estate e gli studenti sono in vacanza. Solo dello stipendio universitario non è possibile vivere: la paga media di un docente è di circa 180 dollari al mese…”
TERZO MOVIMENTO: lento ma non troppo – ostinato
Azhad Saryan vive in un appartamento in centro città, in un edificio in mattoni di tufo rosso che si trova proprio lungo la via Mashtos. Siede al tavolo di lavoro e con un monocolo appoggiato all’occhio sinistro incastona con grande precisione una pietra preziosa nel gambo di un anello d’oro. Azhad ha appreso sin da bambino dal padre Serzh l’arte orafa. Ogni domenica mattina vende i gioielli che produce in una specie di fiera che ha luogo in un ampio locale nella centralissima Piazza della Repubblica.
Azhad è in realtà un assistente sociale, lavora in una cooperativa da lui stesso fondata insieme a degli amici alcuni anni fa, quando ha capito che non avrebbe potuto impiegarsi in un ente pubblico senza l’appoggio di un politico o di un qualche potente amministratore. Dopo un anno trascorso in Russia, a Mosca, in cerca di una sistemazione migliore, Azhad ha deciso di tornare a Yerevan per non lasciare soli i genitori ormai anziani, Serzh e Iulia. Serzh ha lavorato per 40 anni come ingegnere presso l’Azienda Trasporti di Yerevan. Ha una pensione di circa 90 euro al mese. Iulia ha insegnato lingua armena per tutta la vita nella scuola elementare del quartiere e la sua pensione è uguale a quella del marito. La famiglia Saryan, per potersi permettere una vita decente, non solo crea e vende gioielli, ma ospita anche a casa propria studenti e volontari stranieri, per lo più giovani, la seconda o la terza generazione di emigranti armeni che decide di tornare nella terra dei progenitori per imparare la lingua.
La Repubblica Armena ha circa 3 milioni di abitanti; più di 8 milioni di armeni vivono all’estero, soprattutto in Russia, negli Stati Uniti d’America e in Ucraina. La diaspora armena è cruciale per la sopravvivenza della stessa Repubblica: le rimesse degli immigrati non solo contribuiscono a risanare le casse dello Stato, ma anche quelle delle singole famiglie rimaste in patria che possano vantare almeno un parente in terre lontane. I Saryan all’estero non hanno nessuno, e per questo si arrangiano come possono per arrivare alla fine del mese. In una calda sera d’estate, Iulia si intrattiene con gli ospiti stranieri nella spaziosa cucina del suo appartamento. Sul tavolo ci sono ancora i resti dell’abbondante cena: il lavash – il pane armeno, piatto come una piadina – il formaggio salato, le melanzane affumicate e trifolate in padella, la carne, il vino rosso della piana di Areni, la località dove per la prima volta nella storia gli esseri umani hanno scoperto la vite e i segreti della sua coltivazione.
Iulia esalta le gesta del popolo armeno, che è eroicamente sopravvissuto al genocidio e che per secoli non ha avuto un proprio Stato. Ricorda che nel Medioevo l’Armenia occupava l’intero Caucaso, prima che arrivassero gli “usurpatori”, vale a dire georgiani, azeri e turchi. Nello stesso tempo, però, è molto critica nei confronti delle attuali élite politiche, soprattutto del presidente Serzh Sargsyan, che governa ininterrottamente il paese dal 2008. Nel 2018, Sargsyan non si potrà più candidare ma il Parlamento ha prontamente cambiato la Costituzione e dal 2017 l’Armenia non sarà più una Repubblica presidenziale bensì parlamentare. Questo significa che i poteri politici non si concentreranno più nelle mani del presidente ma in quelle del premier. Inutile dire che Sargsyan sta già pensando di presentare la propria candidatura a Presidente del Consiglio. Iulia era una compagna universitaria di Sargsyan. Lo ricorda come un ragazzo silenzioso, timido, ma con grandi capacità organizzative.
Il presidente appartiene al Partito Repubblicano, che ha stravinto alle elezioni politiche del 2012 e che controlla in toto la vita pubblica e i mezzi di comunicazione di massa del paese. In ogni caso, la popolarità del Presidente sembra lentamente ma inesorabilmente incrinarsi: nonostante abbia ancora l’appoggio della maggioranza della popolazione, nelle strade di Yerevan si sentono sempre più spesso lamentele nei confronti delle scelte politiche dei governanti. Nel 2013, dopo un incontro a quattr’occhi con il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin, Sargsyan ha deciso di interrompere le trattative legate a una collaborazione economica e culturale con l’Unione Europea per avvicinarsi all’Unione Eurasiatica, in cui l’Armenia è entrata nel 2015. Dell’Unione Eurasiatica fanno parte la Federazione Russa, la Bielorussia, il Kazakistan e il Kirghizistan.
La decisione di Sargsyan non è campata in aria: la Russia – che ha promosso con tutte le proprie forze la formazione di questa organizzazione internazionale – è un partner importantissimo per l’Armenia. Nell’immenso territorio compreso fra Mosca e Vladivostok vive più di un milione di armeni e il fatto che per loro non sia necessario il visto di ingresso è un vantaggio notevole. In più, la Russia non ha soltanto interessi nel Caucaso, ma è anche fisicamente presente nel nord della penisola: paradossalmente, la sua influenza è più forte in Armenia o in Sud Ossezia che non in Cecenia e nelle altre repubbliche caucasiche direttamente controllate da Mosca.
La rottura delle trattative con l’UE ha però costretto l’Armenia all’isolamento geo-politico: le frontiere con la Turchia sono chiuse a causa dei problemi legati al genocidio di inizi Novecento, quando il governo dei “Giovani turchi” fece uccidere 1 milione e mezzo di armeni presenti sul territorio ottomano: l’UE avrebbe potuto contribuire a scongelare i rapporti fra i due paesi. Le relazioni diplomatiche con l’Azerbaigian sono ai minimi storici a causa della guerra in Nagorno-Karabakh; quelle con la Georgia sono assai precarie: Tbilisi ha optato per una decisa e chiara politica pro-occidentale, soprattutto dopo l’aggressione russa che fra il 1991 e il 2008 ha sottratto al paese l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Solo l’Iran, c