Un Oscar per Lesbo
E’ in corsa per il Premio Oscar. Il documentario “4.1 Miles” di Dafne Matziaraki racconta il dramma dei 500mila rifugiati e migranti approdati sulle coste di Lesbo nel 2015
Lesbo non è riuscita a portarsi a casa il Nobel per la pace, per cui molti l’avevano proposta, insieme a Lampedusa, per la solidarietà dimostrata dai suoi abitanti ai 500mila profughi approdati nell’isola dell’Egeo nel corso del 2015. Ma forse riuscirà a fregiarsi di un Oscar, la notte del 26 febbraio a Los Angeles. Quello per il miglior documentario: “4.1 Miles”, girato da Dafne Matziaraki, studentessa greca di giornalismo all’Università di Berkeley in California.
Il titolo allude alla distanza fra le coste settentrionali di Lesbo e quelle turche: al braccio di mare che migliaia di siriani, afghani, pakistani, iracheni hanno cercato di attraversare su gommoni o barche progettate per 6 persone e che invece ne stipavano 50. Uomini, donne e tanti bambini: sui 500mila arrivati vivi a Lesbo nel 2015, secondo i dati della Federazione Panellenica del personale delle capitanerie di porto, 750 avevano meno di 13 anni.
Il documentario, già premiato negli Stati Uniti a settembre con un “Oscar” studentesco assegnato ogni anno dall’Accademia americana di arti cinematografiche ad allievi di atenei Usa, è rientrato quindi fra la rosa dei cortometraggi che si disputeranno l’ambita statuetta di Hollywood.
L’eroe di “4.1 miles”, come ha raccontato Dafne Matziaraki al New York Times che il 28 settembre ha pubblicato il documentario , è il capitano Kyriakos Papadopoulos della capitaneria di porto di Mitilene, il capoluogo dell’isola.
La regista ha trascorso tre settimane a Lesbo nell’ottobre 2015 e ha immortalato con la sua telecamera una giornata particolare: il 28 ottobre, a bordo dello scafo 602 guidato da Papadopoulos. “Ma papà è riuscito a salire?” chiede piangendo un bambino appena issato in coperta. Un’altra scena ritrae il capitano che cerca di rianimare una piccola di poco più di un anno, priva di sensi perché ha bevuto tanta acqua. “È viva?” “Sì, chiamate l’ambulanza!”. Un uomo invece non ce la fa: era in mare attaccato da ore solo a una trave di legno, dopo che il barcone dove era stipato era andato a pezzi e la sua Odissea finisce in un sacco nero portato via dal personale di terra. Sulla banchina, l’intero paese si è raccolto e si fa il segno della croce.
Tra la vita e la morte
“Il mio film descrive il momento cruciale fra la vita e la morte, quando indipendentemente da convinzioni politiche, paure o addestramento ricevuto, alcuni uomini superano se stessi per salvare uno straniero”, racconta Dafne al New York Times.
Perché Papadopoulos e il suo equipaggio sono arrivati al 2015 dopo anni di ispezioni marittime relativamente tranquille: “Nel 2001 solo venti profughi sono arrivati sulla nostra isola” – narra il capitano all’inizio del documentario – “Oggi invece il nostro lavoro si è trasformato in un incubo quotidiano. Facciamo fino a dieci uscite in mare al giorno, perché non si può rimanere in ufficio, o riposarsi, quando sai che ci sono uomini che stanno morendo in mare. Ogni volta che cerco di salvare un piccolo dalle acque vedo nei suoi occhi spaventati quelli delle mie due figlie, che hanno 6 e 13 anni. Non posso tirarmi indietro. Ma il mondo deve sapere cosa sta succedendo qui”.
Ha 41 anni, una moglie e due figlie, l’eroe di questo video che dura 21 minuti da pugno nello stomaco. La sua famiglia discende da profughi greci di Nicomedia, sulla costa anatolica, scappati a Lesbo dalle persecuzioni turche contro i cristiani degli anni ‘20 del secolo scorso. Kyriakos adora l’ouzo di Mitilene, il migliore liquore all’anice greco come sanno tutti gli intenditori. Frequenta lo storico caffè “Ermes” del capoluogo isolano, dove la sera ti offrono ouzo, mezedakia (gli stuzzichini che accompagnano l’ouzo), piatti tipici e musica greca. Fino all’inizio dell’enorme flusso di profughi era un appassionato sub, ma si può ancora immergersi in acqua per pescare o guardare gli splendidi fondali di questa isola, quando il braccio di mare fra isole elleniche e Turchia si è trasformato in una tomba per migliaia di disperati?
Certo, oggi, dopo l’accordo stretto fra Ankara e Unione europea nel marzo 2016 coloro che affrontano le 4.1 miglia fra le coste turche e le isole dell’Egeo si sono drasticamente ridotti, la vita di Kyriakos è tornata a ritmi più normali. Anche se i gommoni della speranza continuano a rischiare il viaggio “Se l’anno scorso avevamo una media di mille arrivi al giorno, oggi abbiamo settimane in cui vengono salvati fino a 60 uomini in mare” racconta a OBC Transeuropa la cronista Chazigeorghiou del locale quotidiano “Dimocratis”. “Il problema ora è cambiato: i richiedenti asilo sono bloccati sull’isola, chiusi in gabbia nell’hot spot di Moria”.
Basta ascoltare il radiogiornale dell’Egeo, che ogni mattina snocciola notizie come “Quaranta uomini sono stati trovati in mare e soccorsi dalla capitaneria di Samo e dalla navetta di Frontex: il bilancio è di un morto”. “Quattro africani son stati rispediti da Lesbo in Turchia: non avevano i requisiti per il diritto d’asilo”.
Il documentario greco che corre per l’Oscar sarà in lizza, quindi, con Fuocommare” del regista Francesco Rosi, dedicato ai profughi di Lampedusa: non esattamente in competizione diretta, perché il film italiano è nella sezione “miglior film straniero” e non in quella dei cortometraggi. Ma le due isole simbolo dell’accoglienza migranti nel Mediterraneo saranno entrambe rappresentate a Los Angeles.
La giovane Dafne Matziaraki dovrà vedersela con rivali come “Extremis” di Dan Krauss: il documentario esplora le strazianti decisioni che le famiglie devono prendere davanti ai loro cari, tenuti in vita solo da macchinari ospedalieri. E con “The White Helmets” di Orlando von Einsiedel: Siria, un gruppo di irriducibili soccorritori rischia la vita per salvare le vittime dalle macerie. Per ora i concorrenti sono dieci: a gennaio saranno annunciati i 5 prescelti per arrivare alla sera del 26 febbraio.
Intanto, nel Mediterraneo, la lotta per la vita continua.