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Nella Gaziantep dei rifugiati
Tra Gaziantep e Aleppo ci sono solo 92 chilometri: due città vicine, geograficamente e storicamente, ora divise dalla guerra. Viaggio nel sud della Turchia, al confine con la Siria
Il cartello stradale indica: Reyhanli 12 km, Halep 79 km. Stiamo percorrendo il confine sud della Turchia, nella piccola lingua di terra che s’insinua tra il confine nord-occidentale della Siria e il mare.
A sessanta chilometri a ovest di Aleppo, situata proprio sul confine, la cittadina turca di Reyhanli è una delle principali mete dei rifugiati siriani in fuga dalla guerra. Di fronte, sempre sul confine ma in territorio siriano, c’è uno dei più grandi e famosi campi profughi, Atma, che conta ormai quindicimila ospiti ufficiali.
Gaziantep, 92 chilometri da Aleppo
Siamo in viaggio tra Antiochia e Gaziantep, la città più importante, popolosa, ricca del sud della Turchia. Una città che cambia a ritmo vertiginoso, travolta da un vero e proprio shock demografico. In Turchia, oggi, si contano quasi due milioni e 500 mila rifugiati: le cinque province sul confine turco siriano – Kilis, Hatay, Mardin, Sanliurfa e Gaziantep – ne ospitano da sole la metà (dati AFAD, Ministero dell’Interno turco, Gestione delle Migrazioni).
Tra Gaziantep e Aleppo ci sono solo 92 chilometri: due città vicine, geograficamente e storicamente, legate da una lunga consuetudine di rapporti commerciali e culturali; allo scoppio della guerra Gaziantep è diventata una meta naturale: per i rifugiati, certo, ma anche per quell’insieme di investimenti, affari e flusso di denaro che la guerra porta con sé. Negli ultimi anni, la città si è sviluppata in modo incredibile, lo si vede a occhio nudo.
Un cambiamento che Nabil, operatore siriano di una ONG locale che ci accoglie al nostro arrivo, descrive molto bene: “Tre anni fa, quando sono arrivato qui, c’era meno traffico, interi quartieri non esistevano ancora, si vedeva meno gente per strada e c’erano molti meno caffè e ristoranti nuovi, per gli stranieri. Gaziantep è in pieno boom demografico ed economico. La guerra porta distruzione e povertà, ma qui ha portato tanti soldi".
Arrivando in auto dall’aeroporto, il paesaggio in trasformazione racconta la Gaziantep che non t’aspetti – una ricchezza e varietà di edifici, strade e negozi. E tantissimi nuovi condomini in costruzione.
La città è passata da un milione a un milione e 800 mila abitanti in pochi anni: i rifugiati siriani sono quasi il 20% della popolazione.
La guerra vicina
Che la guerra sia davvero vicina, lo si sente dai racconti delle persone incontrate in viaggio: molti hanno parenti e amici in Siria, e comunque anche chi vive in Turchia preferisce non esporsi. Infatti, i nomi di questi appunti sono tutti inventati. Sono storie di chi ha dovuto ricostruire la propria vita e vive una quotidianità ormai radicata, ma anche sospesa nella speranza di tornare.
Mohammed, rifugiato, 29 anni, insegna come installare impianti di condizionamento in una scuola professionale a Gaziantep nata per dare un futuro ai ragazzi siriani. Mohammed è fortunato. E’ riuscito a riavviare qui la sua attività, esercitando la professione che faceva a Damasco prima di scappare, e trovando il modo di metterla a servizio degli altri. Suo padre è stato un affermato imprenditore, la sua famiglia possedeva un’azienda tra le prime accreditate nel registro ufficiale delle imprese in Siria. Sorride orgoglioso: "Su venticinque ragazzi formati nel primo corso finito un mese fa, già cinque hanno trovato un lavoro". Vive in un appartamento, che condivide con il padre e tutta la sua famiglia: "Mia moglie, i miei due figli e io viviamo in una stanza".
Come è arrivato qui? “Dovevo entrare nell’esercito e combattere. Sono scappato.” La storia di Mohammed è quella di tantissimi giovani fuggiti dalla Siria per sottrarsi all’esercito: in un primo tempo si è fermato ad Aleppo, poi è arrivato a Gaziantep. E qui è rimasto.
Città nella città
I rifugiati siriani sono una città nella città. Secondo le ultime stime fornite dalla municipalità locale, su 400 mila rifugiati siriani, 300 mila vivono in città, 50.000 si trovano nei campi profughi, mentre si stima che altri 50.000 sfuggano alle registrazioni ufficiali.
Una comunità imponente che nel cuore di Gaziantep ha occupato principalmente il commercio del mercato vecchio: i siriani vendono sete, argento, spezie e frutta secca, baklava, alimentari vari. E dalla Siria, nonostante la guerra, le merci continuano ad arrivare.
Ahmed vende foulard in seta e cotone fatti dalla sua famiglia, ancora ad Aleppo. E’ qui da due anni; ci offre il tipico tè turco, raccontandoci la sua vita e di come riesca a far affari in questa nuova realtà. Si vende soprattutto il fine settimana: ci sono turisti, dalla Turchia, e l’afflusso dai centri vicini. Si viene in città a fare spese, o a cercare di vendere qualche cosa.
A tutti abbiamo chiesto: com’è la vita a Gaziantep? La prima risposta è sempre la stessa: troppo cara. Inevitabilmente, il boom della guerra ha fatto alzare i prezzi, il costo della vita è molto cresciuto rispetto a soli due anni fa. Gli affitti hanno subito un balzo notevole, e questa è una delle criticità maggiori per i rifugiati in città.
Dal centro di Gaziantep alle periferie, e da Gaziantep stessa verso il confine, è un viaggio verso la povertà. E’ come se i rifugiati fossero improvvisamente più visibili, non assorbiti dai luoghi e dai ritmi della parte più ricca.
Periferie
Nelle cittadine di Reyhanli e Antakya la guerra è semplicemente a due passi: geograficamente e temporalmente. E’ lì che incontriamo i rifugiati più poveri: sono tantissimi, chi ha pochissimo, chi non ha niente. Vivono in tende lungo la strada o, i più, in garage trasformati in rifugi: qualche filo appeso per bucati improvvisati, un fornello, a volte qualche piccolo mobile, centinaia di materassi a terra. Si arrangiano così.
Lungo la strada tra Gaziantep e Antiaka c’è Islahiye: forse, uno dei campi profughi in Turchia più famosi dell’emergenza siriana. Le distese di tende di Islahiye sono ormai entrate nell’immaginario comune di questa guerra. Il campo non è visibile dall’esterno, protetto da una copertura azzurra lungo tutta le recinzione e sorvegliato dai militari, all’ingresso c’è un blindato. Decisamente meno nota, intorno al campo, c’è una sorta di cittadella, cresciuta spontaneamente, a partire da una vecchia scuola assegnata ai rifugiati. Da lì, l’insediamento si è diffuso a una serie di casermoni disabitati e ormai occupati. Una vera comunità quasi urbana, una periferia dismessa, che si sta organizzando.
In mezzo agli edifici dove vivono i rifugiati, c’è una moschea nuova, appena costruita (un anno fa non c’era). Ci fermiamo a una sorta di caffè, un piccolo spaccio e punto di ristoro, vecchio e maltenuto, pochi tavoli e neanche un bancone. Fuori piove, dentro non è affollatissimo (di soli uomini, comunque), ci sediamo a prendere un caffè “siriano”: va da sé, il caffè siriano, ci dicono accogliendoci, è migliore di quello turco. Del resto, parlando con i siriani, è un giudizio diffuso e che riguarda un po’ tutto: dalla seta alla costruzione delle moschee, dai pistacchi, al caffè, “in Siria è meglio”.
Fehmi, un altro operatore umanitario locale, ci aiuta a comprendere meglio quanto infinita sia questa emergenza – che cresce, incontrollata, moltiplicandosi nei numeri e nei luoghi. Ci racconta di come i campi profughi – al di qua e al di là del confine, ormai chiuso – esplodano di gente. In Siria, in particolare, intorno ai campi ufficiali, si sono formate delle aggregazioni spontanee, dove continua ad arrivare gente in fuga dalla guerra, impossibilitata a lasciare il paese. Sono campi informali, questi, dove la vita è durissima e in cui non è possibile portare aiuto ufficiale (arrivano solo alcuni volontari indipendenti): significherebbe alimentare nuovi arrivi e rendere più ingestibile una situazione già esplosiva.
A scuola
Per quasi tutti i siriani in Turchia l’impatto con la nuova lingua è molto duro: la profonda differenza tra le due lingue è un ostacolo che isola gli anziani, disorienta gli adulti e rende più difficile l’apprendimento a scuola per i ragazzi.
Ad Antyaka visitiamo una scuola organizzata da una ONG locale per bambini siriani.
Una palazzina davvero malmessa, ma non del tutto fatiscente, di due piani. Al momento questa scuola è frequentata da più di 250 bambini e bambine. Dalla cucina ai ripostigli, ogni spazio possibile è una classe: ci sono banchi ovunque, e studenti per ogni banco.
La direttrice dell’istituto ci spiega come hanno organizzato l’insegnamento: è una scuola parallela a quella del paese che li accoglie, e con un programma didattico approvato dal governo della Turchia. Ci racconta in che modo i due sistemi scolastici s’incrocino: gli studenti che vanno alla scuola siriana hanno l’obbligo di frequenza della classe prima, quinta e nona (equivalente a una nostra terza media) in una scuola turca locale.
Ci racconta anche come la corsa al rialzo dei prezzi non riguardi solo la grande Gaziantep: anche ad Antyaka, cittadina di medie dimensioni, gli effetti si fanno sentire. Da un anno all’altro, l’istituto ha visto raddoppiare il canone d’affitto: da gennaio 2017, la direttrice non sa fare previsioni su dove finiranno.
Le classi sono miste per genere ed età: bambini, bambine, i piccoli con i più grandi. Gli insegnanti sono a loro volta rifugiati siriani – uomini e donne – o docenti turchi. Oltre alle classiche materie della scuola dell’obbligo, s’insegna il turco e l’inglese. C’è anche una psicologa, una giovane professionista siriana che ci mostra un sagomato di cartone, a forma d’uomo, con cui svolge attività sul rispetto di genere e rispetto del corpo – quali le distanze, come s’interagisce.
Nella scuola si percepisce, fortissima, quella sensazione d’incognita così tipica dei luoghi dove i rifugiati s’impegnano a ricostruire una normalità. Una precarietà, più o meno operosa, più o meno dignitosa, che si sforza “d’abitare” – nel senso più immediato e genuino del termine – l’attesa. Tutti aspettano la fine della guerra, divisi tra lo sforzo per l’inclusione nella nuova realtà e la speranza di tornare.
Per la direttrice della scuola – una donna dall’aria severa e instancabile – "l’educazione resta lo strumento principale dell’integrazione". Crede, però, nell’importanza di "far crescere i bambini nella loro cultura d’origine" – due scuole, due lingue. "E’ importante perché un giorno torneremo. Se la guerra finisse oggi, partirei oggi stesso a piedi per tornare".
* Gian Matteo Apuzzo è appena rientrato da un viaggio nel sud della Turchia al confine con la Siria svoltosi all’interno del progetto di cooperazione "WomenNet" finanziato dalla legge 19/2000 della Regione Friuli Venezia Giulia e che vede come partner Auxilia onlus (capofila), Università di Trieste e Maram Foundation (Gaziantep).