L’Aja: termina il processo Mladić

Tra i più corti della storia del Tribunale Internazionale dell’Aja per l’ex- Jugoslavia, il processo Mladić si è concluso la scorsa settimana dopo circa 4 anni. Il verdetto finale è previsto per novembre 2017

20/12/2016, Alfredo Sasso -

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Ratko Mladić (foto ICTY )

Si è concluso in questi giorni il processo a Ratko Mladić, l’ultimo che ancora attende una sentenza presso il Tribunale Internazionale dell’Aja per l’ex- Jugoslavia (ICTY). Nei giorni scorsi, le parti d’accusa e di difesa hanno tenuto le proprie requisitorie finali, al termine di un procedimento durato circa quattro anni e mezzo, con la partecipazione di circa 400 testimoni e 11.000 prove documentali.

Sull’ex-generale dell’Esercito della Republika Srpska (VRS) pendono undici capi di imputazione per genocidio, crimini contro l’umanità e violazioni delle leggi di guerra. Mladić è accusato di quattro “imprese criminali congiunte” con i vertici politici e militari della Republika Srpska tra il 1992 e il 1995: la pulizia etnica nell’intera Bosnia Erzegovina, la campagna di t[]e nell’assedio di Sarajevo, il genocidio di Srebrenica, la presa degli ostaggi ONU.

Il verdetto finale è previsto per novembre 2017, quando dovrebbe giungere anche la sentenza dell’altro processo ancora in corso, quello d’appello per Jadranko Prlić e i vertici croato-bosniaci, che furono condannati in primo grado nel 2013. Queste due sentenze segneranno la chiusura definitiva dell’ICTY, che ha già trasferito gli altri casi restanti (tra cui l’appello di Radovan Karadžić e Vojislav Šešelj) presso il Meccanismo ONU per i Tribunali Penali Internazionali (MICT).

Accusa e difesa: le richieste finali

“Qualunque condanna diversa da quella massima prescritta dalla legge – l’ergastolo – sarebbe incompatibile con la prassi del Tribunale, un insulto alle vittime, vive o morte, e un affronto alla giustizia”. Con queste parole il procuratore Alan Tieger ha chiesto la pena massima per Mladić al termine di una requisitoria molto ricca di riferimenti documentali. Ribattendo all’argomentazione della difesa secondo cui Mladić avrebbe favorito un trattamento umano verso la popolazione musulmana e croata, Tieger ha mostrato diverse registrazioni in cui l’ex-generale della VRS ostentava soddisfazione per la distruzione e il disprezzo per le vittime. In un video, dice: “Ogni volta che vado a Sarajevo, uccido qualcuno di passaggio, e vado a fare fuori i turchi, chi se ne frega di loro”. In un’altra registrazione audio Mladić incita a bombardare quei settori di Sarajevo dove “non ci sono molti serbi”, per “mandare fuori di testa” i suoi residenti.

Il procuratore Tieger ha commentato che Mladić “non era un superuomo, ma piuttosto un uomo che ha avuto forza sufficiente per tagliare la Bosnia come un formaggio, e ha usato questi poteri per commettere crimini e distruggere la comunità”. La demitizzazione dei criminali di guerra sembra un passaggio cruciale per una più corretta ricostruzione giudiziaria e storica, nonché per smussare le diverse narrative sugli anni Novanta che permangono contrapposte nella regione post-jugoslava. “Mladić, Karadžić e gli altri leader serbi non erano personaggi mitici. Né mostri, come li presenta il discorso vittimista bosgnacco, né eroi e padri della nazione come li presenta la politica serba; ma piuttosto opportunisti banali, egoisti, presuntuosi e ubriachi di potere illimitato da decidere su migliaia di vite umane”, ha commentato Refik Hodžić, direttore del Centro per la Giustizia Transnazionale.

Quanto alla difesa di Mladić, le tesi centrali dell’arringa (meno basata sui documenti, e più su argomenti dichiarativi e di principio, rispetto all’accusa) sono state tre. La prima è la presunta separazione tra catena di comando politico, guidata da Karadžić, e quella militare con a capo Mladić. Il collegio difensivo ha presentato la poco plausibile immagine di un generale subordinato e male informato dai vertici politici, ostile ai gruppi paramilitari connazionali, estraneo ai crimini compiuti dalle forze di polizia erroneamente confuse per l’esercito dagli osservatori, addirittura privo di controllo delle unità militari del suo stesso esercito. La seconda tesi investe le cause profonde del conflitto bosniaco, attribuite dagli avvocati al disegno di Izetbegović e dell’SDA di costruire uno stato islamico, esplicitamente accomunato all’odierno ISIS (una descrizione “apocalittica, che non tiene conto né delle circostanze dell’epoca né delle prove”, ha prontamente ribattuto il procuratore Tieger).

La difesa ha dunque richiesto la piena assoluzione dell’imputato o, al limite, una condanna “non superiore ai 15 anni”. Tuttavia, uno degli avvocati ha ammesso che Mladić “non ha grandi speranze” al riguardo, poiché il Tribunale non sarebbe abbastanza imparziale. “È colpevole solo perché è serbo e ha difeso il popolo serbo in una guerra che altri hanno deciso”, ha detto l’avvocato Branko Lukić. Questo è stato il terzo argomento usato dalla difesa: il presunto pregiudizio antiserbo dell’ICTY, che attribuirebbe una colpa collettiva all’intero popolo. Secondo alcuni analisti, l’intera linea difensiva è apparsa inefficace e un po’ maldestra. “Quindi il punto della difesa di Mladić è che qualcun altro ha fatto peggio? Anche se fosse vero (e non lo è), non è rilevante”, ha commentato su twitter Eric Gordy, politologo esperto dell’area.

Il futuro della giustizia

Nonostante le grandi aspettative iniziali e il grande significato simbolico del processo Mladić, in questi giorni i media della regione, soprattutto quelli bosniaci, hanno dedicato scarsa attenzione al suo atto finale. Probabilmente è passato troppo tempo e vige ormai una certa stanchezza su questi temi. Va comunque riconosciuto che il processo è uno dei più corti ed efficaci della storia dell’ICTY. E’ durato quattro anni (quello di Karadžić durò cinque, quello dei vertici croato-bosniaci sette, quello di Šešelj dieci) ed è il più lungo per giorni effettivi di svolgimento (524), anche per effetto della volontà del Tribunale di arrivare a una sentenza in tempi ragionevoli, tenendo conto dell’età e delle precarie condizioni di salute di Mladić.

La prossima coincidenza tra sentenza e chiusura dell’ICTY imporrà nuove riflessioni sul ruolo della giustizia internazionale nella riconciliazione. “I processi non hanno modificato il panorama delle diverse narrative sul passato; piuttosto hanno contribuito a cristallizzare quelle già esistenti. L’ICTY è uno strumento interpretativo limitato: concentrandosi sulla responsabilità di pochi individui, non illumina le cause strutturali della violenza. Tuttavia le sentenze restano molto importanti per le vittime, e rappresentano solo uno dei possibili modi di cercare giustizia in ex-Jugoslavia.”, spiega a OBC Transeuropa Caterina Bonora, ricercatrice all’Università di Brema ed esperta in giustizia transnazionale.

Sulla coerenza tra le diverse sentenze, altro frequente oggetto di dibattito, Bonora ritiene che “con l’eccezione del caso Šešelj, l’ICTY è stato piuttosto coerente riguardo i fatti del conflitto bosniaco, cioè nello stabilire che determinati crimini sono stati commessi. Ad esempio, i crimini di Srebrenica sono stati considerati genocidio nelle varie sentenze ICTY (e in quella della Corte Internazionale di Giustizia), mentre quelli nelle altre municipalità sono stati ritenuti crimini contro l’umanità perché si riteneva mancassero prove per dimostrare l’intento di genocidio, anche quando si soddisfaceva il criterio oggettivo di genocidio”.

Seguendo questi criteri, una condanna di Mladić con pena elevata o massima sembra lo scenario più probabile, visti i precedenti delle sentenze Tolimir (braccio destro del generale, condannato all’ergastolo nel 2012, e confermato in appello nel 2015) e Karadžić, la cui sentenza già considera cruciale la partecipazione di Mladić nei crimini di Srebrenica.

Tuttavia, spiega Bonora, l’ICTY è apparso meno coerente nell’attribuzione di responsabilità dei crimini commessi. È successo nei casi Perišić e Stanišić/Simatović, ufficiali della Serbia per i quali è stato usato un criterio più restrittivo, pur senza negare l’entità dei crimini a sfondo etnico; ed è successo nella sentenza Šešelj, finora l’unico caso in cui si è negata la realizzazione di un attacco generalizzato alla popolazione non-serba in Bosnia Erzegovina. È possibile che questo caso sarà ribaltato in appello, visto che la sentenza è stata criticata anche dall’interno del tribunale stesso. Però ci vorrà tempo. E intanto il danno è stato fatto”.

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