Rifugiati: l’integrazione attraverso il lavoro

L’inserimento lavorativo dei rifugiati è fondamentale per la loro integrazione nella società europea. Ma né i governi nazionali né le istituzioni europee sono riuscite finora a dare una risposta adeguata

12/01/2017, Sergio Cebrián -

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Pixabay

(Quest’articolo è pubblicato in collaborazione con Voxeurop.eu )

Di fronte alla recente ondata migratoria, le risposte date dalle istituzioni europee si sono rivelate fallimentari come quelle dei governi nazionali, e le divisioni fra gli stati membri si sono manifestate in tutta la loro evidenza nel momento in cui si è reso necessario definire una politica unitaria di accoglienza.

La mancanza di coordinamento di fronte all’arrivo di centinaia di migliaia di immigrati – più di 1,5 milioni nel 2015 e meno di 400mila nel 2016 (dati Frontex) – provenienti da zone di guerra, come la Siria, l’Afghanistan e altri paesi asiatici o africani, ha accresciuto i timori dei cittadini europei, già vittime di attacchi t[]istici e della crisi economica, aumentandone la sensazione di vulnerabilità.

Ma emerge chiaramente dal DNA europeo che il vecchio continente è stato sempre terra di accoglienza, e che il lavoro di chi arriva, in cerca di un miglioramento della propria condizione economica ma anche della possibilità di godere di uno stile di vita unico al mondo, contribuisce alla crescita dell’Europa.

Uno studio

Per la sua importanza, il tema è stato affrontato in uno studio  della

Fondazione Bertelsmann, con sede a Berlino. Il rapporto, intitolato "Da rifugiati a lavoratori: cartografia delle misure di sostegno all’integrazione del mercato del lavoro per richiedenti asilo e rifugiati negli stati membri dell’Ue", fotografa la situazione nei paesi dell’Unione, e segnala un gran numero di carenze, come la mancanza di una strategia a lungo termine, l’assenza di dati affidabili, o l’elevato numero di ostacoli burocratici.

Secondo Iván Martín, professore del Migration Policy Centre dell’Istituto Universitario Europeo (IUE) e coordinatore dello studio, "è un []e considerare i rifugiati come lavoratori appena arrivano: fuggono da guerre o persecuzioni, e spesso non hanno la formazione o l’esperienza lavorativa richieste dai mercati europei". L’esperto segnala inoltre altri problemi come i "numerosi ostacoli amministrativi per accedere al mercato del lavoro, a partire dai permessi di breve durata", e il fatto che "i centri pubblici per l’impiego o i corsi di formazione non vengono adattati alle loro specifiche necessità".

Anche la risposta politica ha palesi margini di miglioramento: secondo Martín, "si è posto l’accento sullo sviluppo di meccanismi di solidarietà fra i paesi europei per affrontare una sfida che è, essenzialmente, europea. Gli stati membri, però, si sono rifiutati di accettarli. E le istituzioni comunitarie non sono riuscite finora a utilizzare le corpose risorse del bilancio europeo, che finanziano l’accoglienza degli immigrati in tutti i paesi, per imporre meccanismi di coordinamento e solidarietà. Tuttavia, nel nostro studio si evidenzia che, trattandosi di una sfida europea, e avendo identificato problemi e persino risposte molto simili nei singoli stati, ci sono tutte le basi per favorire il coordinamento e la cooperazione fra i paesi europei che potrebbero imparare a vicenda dalle rispettive esperienze".

In conclusione, aggiunge Martín: "La cosa più urgente da fare è contrastare il clima sociale negativo che si è creato intorno ai rifugiati nella maggior parte dei paesi europei. La maggioranza di questi rifugiati è molto giovane, l’83 per cento ha meno di 35 anni e ha davanti a sé un’intera vita lavorativa, di modo che investire su questi ragazzi significa anche investire sul futuro dell’Europa".

Caso tedesco

Il caso della Germania, di gran lunga il primo paese per numero di rifugiati accolti, è indicativo in questo senso. Dei quasi 1,5 milioni di richiedenti asilo arrivati in Germania nell’ultimo anno e mezzo, solo 30mila hanno un lavoro. Questo nonostante il paese abbia un tasso di disoccupazione del 4,2 per cento, ben al di sotto della media europea (10,1 per cento) secondo le cifre di Eurostat. Alla fine del 2016 erano circa 350mila i richiedenti asilo registrati come disoccupati.

"Le esperienze dei rifugiati all’ingresso nel mercato del lavoro non sono molto positive, ed è l’ambito in cui mostrano il maggior grado di insoddisfazione quando vengono intervistati ", dice Gerhard Hammerschmid, professore della prestigiosa Hertie School of Governance di Berlino.

Accedere al mercato del lavoro tedesco viene definito dall’esperto "molto complicato", poiché "tutte le qualifiche di chi si candida per un’offerta di lavoro devono essere verificate dalle autorità". Il procedimento amministrativo dell’Agenzia Federale del Lavoro tedesco e dell’Ufficio Federale per l’Immigrazione e i Rifugiati, attraverso il quale viene trovato un impiego a un rifugiato, è lungo e complesso, e per ottenere i permessi necessari per concludere l’assunzione ci vuole fra un mese e un mese e mezzo. Ulteriori ostacoli sono l’apprendimento del tedesco o la mancanza da parte dei richiedenti asilo anche dei più elementari strumenti per l’ingresso nel mercato del lavoro.

In ogni caso esistono iniziative interessanti in questo paese, promosse da esponenti del mondo economico e della società civile, come quella di Andreas Tölke, un giornalista che ha fondato un’organizzazione per l’integrazione dei rifugiati chiamata Be an Angel  – ”Sii un angelo” – o l’iniziativa  Wir Zusammen   – “Noi insieme” –, che riunisce le più grandi aziende tedesche con l’intento di favorire l’integrazione dei rifugiati. Il coinvolgimento di attori locali si rivela fondamentale per rendere effettiva l’integrazione lavorativa degli immigrati nell’Ue, come evidenzia lo studio della Fondazione Bertelsmann: "Sotto vari aspetti, gli attori decisivi per la risoluzione dei problemi riguardanti l’integrazione dei migranti si trovano a livello locale, dai datori di lavoro ai sindaci e ai singoli cittadini".

(Testo tradotto in italiano da Laura Bortoluzzi)

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