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Predrag Matvejević, ricordo
Ieri 2 febbraio è morto nella sua casa di Zagabria l’amico, il professore, l’intellettuale europeo Predrag Matvejević: una voce contro i nazionalismi, un critico del potere, un narratore del Mediterraneo
A volte mi rivolgevo a lui chiamandolo Professore, altre chiamandolo affettuosamente Peđa (diminutivo di Predrag). Ieri 2 febbraio, a Zagabria, è morto l’amico, il professore, l’intellettuale che tutto il mondo ha conosciuto come Predrag Matvejević. L’età, la malattia, la lontananza… sapevo che prima o poi sarebbe successo. La morte ahimè ci coglie sempre impreparati. Da tempo pensavo che avremmo dovuto rivederci. L’ultima volta ci sentimmo circa un anno e mezzo fa, quasi due. Osservatorio Balcani e Caucaso non navigava in buone acque, era stato lanciato un appello di solidarietà per scongiurare il licenziamento di metà dello staff. Predrag che era già malato e debole rispose velocemente all’appello: “Certo cari amici, avete tutto il mio sostegno”.
Ricordo il suo sorriso, la sua voce sottile, la sua gentilezza e quel ciuffo di capelli d’argento che gli attraversava la fronte, il suo sguardo vivo e profondo.
Ricordo una conferenza organizzata insieme, Predrag ovviamente era l’ospite d’onore, io modestamente lo dovevo solo introdurre al folto pubblico che sapeva sempre raccogliere in sala. Con sé aveva un pacco di fogli, appunti scritti a mano, estratti di testi antichi, citazioni varie. Si sedette accanto a me e una volta finito di presentarlo al pubblico lui sparpagliò in modo disordinato tutte quelle carte sul tavolo e iniziò a parlare fissando il pubblico, senza mai gettare anche un semplice sguardo su tutte quelle carte aperte a ventaglio davanti a sé. A lui tutti quei documenti non servivano affatto. Sapeva passare da un argomento all’altro, dall’attualità più stretta alla più remota antichità, dal semplice al complesso, dal ricordo personale, all’argomentazione filosofica. Il tutto con una tranquillità e semplicità coinvolgenti. Un grande, sì, una grande persona che sapeva catturare il pubblico, il quale se ne restava in silenzio, trasportato come una barca su un fiume dal dis-correre di un pensatore europeo. Perché Predrag credeva nell’Europa, in un’Europa in grado di mantenere al suo interno somiglianze e differenze. “Né le somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono le prime a prevalere, talvolta le ultime”. Criticava quelle piccole democrature, come lui stesso le aveva definite, coniando una parola e un concetto entrato nel lessico della politologia. Detestava il nazionalismo, le divisioni etniche, ed era ben consapevole che “la cultura civica si acquisisce più difficilmente di quanto si creda”. Credeva nella fratellanza, nell’amicizia.
Ricordo ancora quel saluto alla Stazione Centrale di Milano, l’abbraccio e una frase che non dimenticherò mai e che oggi mi commuove più che mai: “Luka, per me sei come un fratello”. Non fu per caso che Predrag mi si rivolse in quel modo abbracciandomi stretto, in mezzo alla folla della stazione. Ognuno dei due aveva compiuto un gesto di sincera amicizia, qualcosa che riguardava le nostre vite private, al di là degli abiti che tutti indossiamo, dell’intellettuale, del professore, del giornalista, del direttore, ecc. Era emersa la semplicità dell’essere umano, qualcosa che punta dritto al cuore e che lo riempie.
Caro Peđa, avrei voluto riabbracciarti, scambiare due battute intrise di quell’ironia balcanica che non ti ha mai abbandonato, e sorridere insieme davanti ad un calice di vino rosso come un tempo. Oggi, non posso che gridare forte il tuo nome, come facevano gli antichi greci, e piangere la tua morte. Addio mio caro Professore!