La memoria del coraggio e della disobbedienza
Un generale che si rifiuta di battersi fino all’ultimo uomo, un soldato che salva la vita di un soldato considerato nemico. Quale spazio nella memoria pubblica per queste testimonianze?
Non sono molti gli ufficiali militari di alto grado ricordati pubblicamente per aver ignorato gli ordini, rifiutato di colpire i civili e ritirato le proprie truppe. Nemmeno il processo di rielaborazione delle memorie a livello europeo, pur portando a un certa messa in discussione dei nazionalismi e del conflitto armato come soluzione delle controversie sul continente, sembra aver favorito una significativa e diffusa riemersione di questo tipo di testimonianze.
La discussione della memoria della Prima guerra mondiale, in particolare in questi anni di commemorazione del centenario, ha registrato un crescente interesse per il fenomeno della diserzione dei soldati di leva dalle trincee. La memoria istituzionale fatica tuttavia a riconoscere le esperienze di disobbedienza, soprattutto quando si risalgono i gradi della catena di comando, in un’ottica di salvaguardia dell’integrità dell’istituzione militare.
Se si escludono i contesti dove la legittimità politica è stata costruita a partire da un ribaltamento traumatico del sistema – come in Germania dopo la Seconda guerra mondiale – sono pochi i paesi europei che hanno riconosciuto pubblicamente personalità militari che si sono rifiutate di obbedire in occasione di episodi controversi del proprio passato nazionale.
Vlado Trifunović: dalla disobbedienza alla testimonianza
Il 15 gennaio 2017, all’età di 79 anni, è mancato Vladimir (Vlado) Trifunović, generale in pensione dell’Esercito popolare jugoslavo (JNA). I suoi funerali si sono svolti nel paesino natale di Rakelići, nei pressi di Prijedor in Bosnia Erzegovina, alla presenza di un centinaio di persone. Nelle ultime settimane, tuttavia, la figura di Trifunović è stata raccontata diffusamente dai mezzi di informazione di tutti i paesi dell’area e l’attenzione generale è tornata all’episodio che vide il generale protagonista nei primi mesi delle guerre di dissoluzione jugoslava.
Nell’estate del 1991 Trifunović era al comando del Trentaduesimo corpo della JNA di stanza a Varaždin, in Croazia. In seguito alle dichiarazioni di indipendenza e allo scoppio delle ostilità, in settembre, le forze della Guardia nazionale croata posero sotto assedio la caserma. Trifunović rimase bloccato con 220 soldati e 60 ufficiali, senza acqua né elettricità. L’ordine di Belgrado fu di resistere e combattere senza risparmiare la cittadina. Trifunović scelse invece la via del dialogo con le autorità croate e – dopo aver ordinato di mettere fuori uso l’armamentario – il 22 settembre ottenne di rientrare liberamente in Serbia con i suoi uomini.
In Serbia venne arrestato insieme agli ufficiali a lui più vicini. Nel dicembre 1994, dopo due assoluzioni, il tribunale miliare di Belgrado lo condannò a undici anni di detenzione per tradimento e per aver consegnato le armi al nemico. Riuscì a lasciare il carcere nel 1997, grazie ad un’amnistia invocata da diversi soggetti della società civile e concessa dall’allora presidente jugoslavo Zoran Lilić. Solamente nel 2010 ottenne la completa assoluzione. Trifunović si definì “l’unico generale che è stato condannato dalla Croazia come criminale di guerra e dalla Jugoslavia per non aver commesso alcun crimine di guerra”.
In Croazia gli venne infatti inflitta una pena di 15 anni ed il processo a suo carico è stato riaperto nel 2013. Non fu risparmiato nemmeno dalla giustizia slovena che lo processò per i crimini commessi nella ex-repubblica jugoslava, trovandolo infine innocente.
Negli anni, nonostante le difficoltà, Trifunović non smise di chiedere giustizia, di raccontare la propria storia in libri e interviste e difendere il proprio operato: “Non sono nato né ho studiato per commettere crimini o distruggere le persone. Alla Serbia, però, in quel momento non servivano uomini vivi, ma eroi morti di cui essere orgogliosa e coi quali nobilitare la storia. Va ricordato che con me erano rimasti solo i figli dei poveri. Tutti gli altri ragazzi, tutti gli altri soldati che avevano delle proprietà, che conoscevano qualcuno di importante, erano stati tirati fuori prima”.
Nel 2014 Vlado Trifunović è stato insignito a Sarajevo del premio Duško Kondor “al coraggio civile”.
La memoria del coraggio civile nelle guerre di dissoluzione jugoslava
Nelle memorie pubbliche dei paesi che hanno vissuto le guerre di dissoluzione jugoslava le testimonianze di coloro che si sono distinti per essersi sacrificati nel tentativo di opporsi alle logiche di contrapposizione etno-nazionale rimangono marginali, quando non apertamente contestate. Tuttavia, negli anni tali storie hanno trovato spazi di trasmissione. Numerose testimonianze di coraggio civile sono state ad esempio raccolte e divulgate da Svetlana Broz, mentre diverse realtà si sono impegnate per il riconoscimento pubblico di personaggi come Josip Reihl-Kir , che fu assassinato per il suo ruolo di mediatore tra le comunità croata e serba a Osijek, oppure Tomo Buzov, che pagò con la vita il tentativo di salvare dei civili bosgnacchi, al quale è stata di recente dedicata una targa commemorativa a Novi Beograd.
Il valore di alcuni atti ha ottenuto inoltre le prime forme di riconoscimento da parte delle istituzioni. Il nome più noto e condiviso è certamente quello di Srđan Aleksić: oggi diverse vie in Serbia, Bosnia Erzegovina e Montenegro portano il suo nome. La sua storia ha iniziato a varcare i confini della regione come esempio universale di coraggio civile. Ha trovato spazio su giornali e pubblicazioni in diversi paesi, è stata raccontata in un fumetto, mentre il pluripremiato film Krugovi (Circles, 2013) ne ha rafforzato la visibilità internazionale. Inoltre, la coincidenza tra la data della sua morte – il 27 gennaio 1993 – e la giornata della memoria – la principale commemorazione condivisa a livello europeo – non di rado favorisce associazioni e riflessioni più ampie.
Per un ufficiale di alto grado, tuttavia, il riconoscimento pubblico del valore di un atto di disobbedienza risulta molto più complesso. In quanto generale dell’Esercito popolare jugoslavo Trifunović è stato percepito come nemico in Croazia e Slovenia. Mentre in Serbia – una volta uscito dal carcere – ha subito marginalizzazione, ostilità e perfino minacce. Al suo fianco si sono schierati giornalisti, attivisti e personaggi politici che oggi continuano a impegnarsi per il riconoscimento del valore della sua figura. Ciò non lo ha aiutato a riottenere i diritti persi dopo il 1991, costringendolo a vivere per anni in una piccola stanza d’albergo.
La figura di Trifunović risulta d’altra parte stridente rispetto a quella che viene considerata la tradizione militare serba. Basti ricordare la figura del maggiore Dragutin Gavrilović, celebrato per il discorso rivolto ai propri uomini in occasione della battaglia di Belgrado del 1915: “Soldati! Eroi! Il comando supremo ha cancellato il nostro reggimento dai propri registri. Il nostro battaglione è già stato sacrificato per l’onore di Belgrado e della Patria. Non dovete più preoccuparvi per le vostre vite, esse non esistono più”. Nenad Lj. Stefanović, giornalista che ha lungamente lavorato al caso Trifunović, ha recentemente rivelato : “Dai cambiamenti del 5 ottobre 2000 almeno tre ministri della Difesa mi hanno spiegato che non è così facile né popolare riparare all’ingiustizia commessa nei confronti di Trifunović e menzionare il suo appartamento o la sua pensione: nell’esercito sono ancora infatti maggioritari quelli che pensano che Trifunović a Varaždin avrebbe dovuto morire con i propri soldati”.
L’ “altra” JNA
Nei giorni in cui la figura di Trifunović veniva consegnata alla memoria sono riemerse critiche non dissimili da quelle rivolte al generale negli anni Novanta, ma anche attestati di stima, fino alla proposta di intitolazione di una via a Belgrado. La sua testimonianza nel corso degli ultimi anni ha contribuito a far riaffiorare esperienze simili vissute da altri rappresentanti dei vertici militari dell’Esercito popolare jugoslavo. Tra gli altri il caso dell’ammiraglio montenegrino Vladimir Barović, che si oppose al bombardamento delle città croate della costa, finendo per togliersi la vita o quello di Dragoljub Bocinov, ammiraglio di origini macedoni, incarcerato per essersi rifiutato di colpire Spalato.
Persone che si trovarono strette tra la fedeltà a quello che rimaneva delle strutture federali jugoslave e la difficoltà ad accettare l’idea di colpire la stessa gente che avrebbero dovuto proteggere. Sullo sfondo un esercito i cui obiettivi, i cui valori di riferimento e la cui stessa composizione (visto l’abbandono o l’epurazione dei non-serbi) stavano rapidamente mutando.
Forse, ha osservato recentemente Ljubica Spaskovska , ricercatrice dell’Università di Exeter, “uno stigma di lunga data è stato finalmente rimosso”. Certo è che rispetto alle esperienze vissute in abiti civili, questo tipo di testimonianze portate da vertici militari sono costrette a spazi anche più ridotti e contesi. Tuttavia, il riaffiorare di tali vicende può offrire un peculiare contributo a una rielaborazione della memoria delle guerre jugoslave meno condizionata dalle narrazioni nazionali.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto Testimony – Truth or Politics. The Concept of Testimony in the Commemoration of the Yugoslav Wars, coordinato dal CZKD (http://www.czkd.org/ ) e cofinanziato dal programma "Europa per i cittadini" dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea.