Teatro: la Turchia che dice NO
Uno sguardo sulla tragica attualità della Turchia, sul ruolo degli intellettuali e sul futuro del teatro in questo contesto. Un’intervista al regista teatrale Volkan Yosunlu
(Pubblicato originariamente su Altrevelocità)
Volkan Yosunlu si è diplomato presso il dipartimento teatrale dell’Università di Ankara nel 2004. Ha subito intrapreso una carriera da attore e regista, dapprima recitando presso il teatro metropolitano di Kocaeli e poi lavorando anche in qualità di istruttore in laboratori per bambini del teatro del distretto di Konak (Izmir). Attualmente dirige due centri teatrali indipendenti di cui è fondatore, nella città di Bursa e a Istanbul. Ha preso parte alle recenti manifestazioni di protesta che hanno seguito i licenziamenti dei docenti dell’Università di Ankara. Lo abbiamo intervistato.
In tutta la storia della Turchia ci sono stati periodi di repressione da parte del governo. Cos’è successo, soprattutto dopo il 15 luglio 2016?
Quello cui abbiamo assistito non è stato un golpe vero e proprio, è stato un tentativo di golpe. Tutto è accaduto in pochissimo tempo, circa due-tre ore, e la popolazione turca ne è rimasta scioccata: non c’era neanche il tempo per capire cosa stesse realmente accadendo. A mio modo di vedere, nonostante ci siano stati altri colpi di stato nella storia del paese, quello del 15 luglio 2016 rappresenta una novità, qualcosa con delle dinamiche di cui non si possono rintracciare altri esempi nel passato. Restano tante domande irrisolte sulla notte del 15 luglio e, anche a tentativo di golpe concluso, non ci è stata fornita alcuna informazione ulteriore. All’improvviso, senza alcun chiarimento, è stato allora dichiarato lo stato d’emergenza.
Che cosa comporta?
Ufficialmente il governo dice di aver adottato questo misura per proteggere il popolo, per proteggere la legge e il parlamento, le istituzioni ecc. Nelle sue dichiarazioni pubbliche Erdoğan ha affermato che l’obiettivo è scoprire tutte le connessioni della rete t[]istica di Gülen e smantellarle, cacciando o incarcerandone i membri uno per uno. E a conti fatti, fino a oggi si è visto che tutti i membri della setta di Gülen sono stati effettivamente colpiti: si tratta di un successo enorme per il governo, contando che la rete di questa setta era radicata da ormai 15 e più anni all’interno di varie istituzioni.
In Turchia esiste però anche la “questione” legata alla classe intellettuale del paese, da sempre invisa al potere, che si è situata in molte occasioni all’opposizione del governo. Pure in questo caso, fin da subito gli accademici, gli studenti, gli scrittori, gli intellettuali hanno percepito che le operazioni del governo erano in realtà una manovra anche contro di loro, contro cioè tutta quella parte della società impegnata a ottenere libertà di parola e di espressione e che è generalmente contraria a Erdoğan. Gli intellettuali si sono infatti subito pronunciati a sfavore dello stato di emergenza, denunciandolo come restrittivo della libertà sociale. Il governo ha allora cercato di rassicurare, dicendo che tale misura sarebbe comunque durata solo tre mesi (che è la sua durata ufficiale, secondo la costituzione) ma è oramai da luglio che viene di volta in volta rinnovata.
Più concretamente qual è stato in passato il “terreno di scontro” fra la classe intellettuale ed Erdoğan?
Fin dalla prima presa del potere da parte dell’AKP nel 2002, il partito di Erdoğan ha messo in atto delle chiare scelte politiche: si è verificata un’ondata di privatizzazioni in svariati settori come i terreni pubblici, le aziende statali, diverse istituzioni. Sono state inoltre depenalizzate la violenza contro le donne e la pedofilia, tutti provvedimenti contro cui la classe intellettuale si era opposta ancor prima dell’ascesa dell’AKP.
Oltre a ciò, in Turchia si presentano altre problematiche di carattere etnico-identitario, come la questione curda, una parte di popolazione che non ha mai potuto ottenere diritti pari al restante popolo turco, e come conseguenza si è prodotto un dislivello economico netto. Due fa anni il problema curdo, che si era relativamente stabilizzato, si è improvvisamente riacutizzato quando il governo ha iniziato a bombardare la zona sud-est della penisola. Evidentemente i voti dei curdi stavano facendo perdere consenso a Erdoğan. Proprio in quei giorni gli accademici hanno pubblicato un manifesto a favore della pace, in cui si esprimeva una forte contrarietà ai bombardamenti e in cui si richiedeva la pace per tutta la popolazione, senza discriminazioni.
Come si vede in Turchia Akp e intellettuali sono sempre stati in frizione, se non in posizioni di aperto scontro, e tali dinamiche stanno forse arrivando adesso a un culmine. La classe intellettuale ha cioè sempre interferito con i piani del governo e lo ha fatto comunque non solo sulla base di una mera opposizione ideologica o idealista, ma spesso anche portando prove e argomenti concreti.
Potrebbe raccontare ai lettori italiani, un po’ più nel dettaglio, attraverso quali procedure si sta limitando la libertà e si stanno operando licenziamenti?
Il processo è partito in questo modo: dopo il 15 di luglio sono apparse varie liste di nomi e personalità da incriminare, con una tempistica così stretta per cui è facile arguire che fossero già pronte prima del tentativo di golpe.
Se diamo un’occhiata a queste liste, vediamo che i nomi lì presenti sono membri di diversi ordini (degli Architetti, di Commercio, etc.). Gli accademici presenti nelle liste sono cioè anche membri di camere che hanno una certa influenza e potere. In più, come accennavo in precedenza, ritroviamo i nomi di tantissimi che hanno firmato il documento per la pace in seguito ai bombardamenti di cui parlavo prima. Mi viene da dire che tale dichiarazione sia stata in qualche modo la goccia che ha fatto traboccare il vaso nelle relazioni fra intellettuali e governo.
Ci troviamo dunque in un periodo in cui la democrazia è di fatto sospesa e, se guardiamo al passato, non stupisce che la repressione si estenda quasi sempre verso quella fetta di società composta da professori, artisti ma soprattutto giornalisti, in generale dalle persone che vogliono raccogliere e raccontare informazioni in maniera obiettiva (molti giornalisti si trovano adesso in carcere e la libertà di stampa è fortemente limitata). Erdoğan ha affermato che questo tentativo di golpe è stato «un favore da parte di Dio». E, in effetti, per il governo si tratta proprio di un grosso favore.
Quali sono, invece, le motivazioni ufficiali del licenziamenti?
Ufficialmente le motivazioni parlano di affiliazioni ad associazioni t[]istiche che attentano alla stabilità dello stato. Ma “affiliazione” è variamente interpretabile: si dice infatti che chi viene licenziato abbia “sostenuto” tali associazioni, anche solo da un punto di vista puramente ideologico. La cosa tragica è che dunque chi viene accusato non è necessariamente un membro di Gülen e il decreto ha effettività immediata, senza alcun obbligo da parte del governo di mostrare delle prove. In questi licenziamenti non viene dunque rispettata nessuna norma del diritto! E chiunque all’interno dell’università si è schierato contro Erdoğan sta venendo licenziato.
Dopo il golpe del 1980 in Turchia è stato fondato un istituto centrale che controlla le università. È un istituto dal forte indirizzo politico e nei giorni scorsi il suo dirigente ha dichiarato che l’istituto ha cercato di convincere i firmatari pro-pace a ritirare la firma. È un processo che dice tutto, sostanzialmente si può tradurre con: «Cancella la tua firma, altrimenti ti mettiamo in carcere!». Stando così la situazione, le accuse contro gli accademici sono veramente frutto dell’immaginazione… alcuni si sono dunque cancellati ma chi ha deciso di lasciare il proprio nome è stato in seguito licenziato o portato in carcere. Come si vede si tratta di operazioni meramente punitive, in cui governo e istituzioni non stanno in alcun modo orientato dalla ricerca della verità.
Eppure, come ha affermato lei stesso, la setta di Gülen era riuscita a radicarsi in profondità nelle istituzioni. Quali sono effettivamente i legami fra gli universitari e Gülen?
L’80% degli accademici licenziati non ha nulla a che fare con Gülen. Il partito AKP e Gülen sono stati alleati fino a qualche anno fa, gli stessi ministri hanno ammesso di avere fatto grosse concessioni a Gülen e alle richieste dei suoi membri. Dopo che Gülen e Erdoğan si sono “separati” i membri del governo hanno iniziato a strapparsi le vesti in pubblico dicendo che sì, si erano alleati a Gülen ma – nelle loro stesse parole – “si è trattato di un []e”. È stata un’operazione di facciata totalmente ipocrita, portata avanti con la complicità dei media, che ha però in qualche modo convinto la maggior parte della società a perdonare Erdogan e a supportarlo nuovamente.
D’altronde, gli stessi impiegati pubblici che ora vengono licenziati sono persone che in passato sono state scelte dal governo turco, mica dagli accademici. Anzi,gli accademici e la classe intellettuale si sono sempre opposti alla nomina di personalità legate al movimento di Gülen nei luoghi chiave della macchina statale, proprio perché era un’associazione t[]istica. Il governo non ha ovviamente dato retta agli intellettuali, che in quel momento stavano cercando di svegliare il popolo, sottolineando la pericolosità di tali dinamiche. Gülen è una setta che cerca di fare il lavaggio del cervello ai propri affiliati tramite la retorica islamica. Dietro ad alcuni omicidi eccellenti di giornalisti si è scoperto esserci Gülen: un modo per infiltrarsi maggiormente nei gangli dell’esercito e della burocrazia… tutti fatti che sono stati ripetutamente denunciati da accademici e intellettuali già dal 2006, nell’occasione dell’omicidio di Hrant Dink .
Venendo al teatro, ci racconta il panorama all’Università di Ankara?
Dopo la fondazione della Repubblica Turca, la vita culturale del paese si è evoluta mese per mese. Sono nate molte università, quella di Ankara è fra le più vecchie e le più prestigiose, qui abbiamo anche un dipartimento di teatro, anch’esso molto prestigioso. Qui sono cresciuti molti registi e attori importanti, grazie al loro lavoro si è creata una vera e propria tradizione, un movimento teatrale intessuto di strette relazioni fra maestri e allievi.
Chi si è laureato ad Ankara è riuscito a mettere in moto una sorta di “catena di educazione culturale”, andando a insegnare in tutta la Turchia. Non a caso il dipartimento di Ankara è stato anche il primo ad aprire una prospettiva storico-critica sul teatro, in cui si sono prodotte ricerche per noi innovative. Oserei dire che le direzioni generali dell’approccio artistico turco hanno preso le mosse da qui, e qui molti hanno firmato la dichiarazione di pace, e non a caso è qui che si sta colpendo, dunque, per fare in modo che l’arte non si sviluppi e non progredisca. In passato alcuni spettacoli sono stati cancellati dalle programmazioni, a volte alcune scene sono state tagliate. Il governo ha sempre avuto problemi con questo gruppo di artisti, sono considerati “ribelli”… credo che ci sia la chiara volontà da parte del governo di interrompere questa “catena”, il governo vuole abolire una “fonte di dissidenza” riconoscibile e la dichiarazione per la pace è semplicemente un pretesto, non ci fosse stata avrebbero trovato un’altra motivazione.
Va detto che esistono componenti del mondo accademico fedeli al governo, ma nei dipartimenti teatrali e artistici tale percentuale scende perché l’arte richiede un background culturale che difficilmente può far combaciare le idee di chi studia queste materie con l’ideologia governativa.
Poco dopo i licenziamenti, lunedì 13 febbraio, ci siamo riuniti per manifestare solidarietà nei confronti dei professori licenziati. C’erano persone estranee all’Università di Ankara, segno che la comunicazione fra allievi e professori continua anche dopo la laurea. Non solo la comunicazione, anche la collaborazione artistica. Anch’io nei miei lavori teatrali spesso collaboro con giovani studenti del dipartimento di teatro di Ankara, stiamo parlando dunque di una vera e propria comunità.
Due giorni prima la nostra protesta, in un altro campus universitario c’è stata una repressione violenta da parte della polizia. Anche noi qui ci aspettavamo qualcosa di simile, ma non è successo nulla, forse perché si sta generando una sorta di diffidenza nell’opinione pubblica data dalla ripercussione mediatica. Mi pare dunque che il governo stia un po’ frenando nell’attaccare così duramente l’ambiente teatrale.
Quali prospettive, per il futuro del teatro e dell’Università in Turchia?
Siamo convinti che questo periodo di repressione finirà e la nostra tradizione teatrale continuerà a progredire. Recentemente c’è stato anche un incontro degli studenti turchi, dove si è affermato che nessuno può fermare il movimento artistico, nessuno può fermare l’arte. Penso che colpire il dipartimento di Ankara sia stata una mossa strategicamente sbagliata da parte del governo, infatti l’ambiente culturale si è compattato e sta rispondendo. Stiamo organizzando laboratori e workshop indipendenti per tutta la Turchia, in cui i professori licenziati potranno riprendere liberamente le loro docenze, richiederemo un contributo che andrà ai professori licenziati, che ovviamente soffriranno anche dal punto di vista economico a causa dell’estromissione dall’università.
Per fortuna il teatro non è solo un edificio e una struttura che gli consenta di sopravvivere, può svilupparsi dappertutto, anche all’aperto. Abbiamo inoltre deciso di riorganizzare e rimescolare le modalità di lezione fra studenti e professori, studiando forme per le quali anche gli studenti tengano dei corsi dal momento che questi sono già suddivisi fra varie materie come regia, drammaturgia, scenografia… si tratta di mantenere viva la collaborazione fra i vari rami del sapere teatrale, pensiamo che sia proprio questa sinergia che il governo vuole colpire.
E dal punto di vista della produzione teatrale, cosa accadrà?
In Turchia esiste un teatro statale nel quale le istituzioni coprono tutte le spese di produzione; esiste anche un teatro privato, che si sostiene con le entrate. Tali teatri non vengono sostenuti in alcun modo dallo stato e questo ha creato negli anni diversi problemi. Personalmente ho sviluppato il mio percorso artistico nell’ambito del teatro privato, ho iniziato nel teatro statale ma non ho voluto entrare a far parte del sistema, non ho voluto diventare un impiegato. Da noi le cose si muovono molto lentamente, servirebbero invece delle riforme radicali, negli ultimi 10 anni sono stati sempre gli stessi spettacoli a occupare i cartelloni e questo è un elemento contrario alla natura stessa del teatro e dell’arte: gli attori e i registi non possono mettersi in gioco con qualcosa di nuovo, la loro crescita tecnica e professionale si ferma.
Chi dirige il teatro statale in Turchia?
C’è un organismo centrale che sceglie spettacoli e testi per tutto il paese, mentre i teatri cittadini e regionali scelgono semplicemente il cast per la messa in scena (a volte anche gli enti regionali operano scelte sullo spettacolo, ma devono avere conferma da parte dell’autorità centrale). Tale meccanismo è frustrante, soprattutto per gli attori che si ritrovano affibbiate delle parti che non hanno scelto. Qualche anno fa c’era stato fatto il tentativo
di introdurre una legge che permettesse di stipulare contratti per attori e registi della durata di un anno, come avviene nel teatro privato. Ma anche in quel caso c’era dietro l’idea di un artista “impiegato”. Devo dire che i movimenti di protesta che si sono organizzati attorno a questo nodo non sono riusciti a ottenere attenzione.
In che modo dunque riesce a produrre le sue opere teatrali?
Da due anni ho la mia organizzazione teatrale a Bursa, dove dirigo anche una scuola. Nella parte asiatica di Istanbul sto anche per fondare un centro artistico. Stiamo, in poche parole, cercando delle possibili alternative. In Turchia esistono numerosi teatri privati, anche di notevoli dimensioni, è qui che occorre cercare per capire le direzioni della ricerca artistica recente.
Questa complessa situazione politica e sociale, in che modo influenza la sua pratica, come entra negli spettacoli?
È chiaro che la mia ideologia influenza la pratica artistica: non vorrei mai recitare in uno spettacolo che promuove valori contrari a quelli in cui credo. Cerco sempre un equilibrio e una corrispondenza fra ciò che faccio e quello che penso. Da quattro anni abbiamo un teatro privato nel quartiere Moda di Istanbul, tutte le sere sold-out. La questione non è avere ragione o no, la questione è che il nostro approccio innovativo viene apprezzato ed è in qualche modo “richiesto” dalla società. Nel teatro statale invece è stata recentemente impedita la messa in scena di 1984 di George Orwell.
Anche in vista del referendum del 16 aprile, in cui si voterà per dare alla repubblica turca un assetto presidenziale, si sente di rilasciare un’ultima dichiarazione?
Siamo arrivati a un punto in cui, con il referendum di aprile, sarà messa in discussione la struttura stessa della repubblica turca. I prossimi due mesi è ciò che seguirà il referendum influenzeranno nel profondo la vita sociale e politica del nostro paese. Recep Tayyip Erdoğan vuole costruirsi il proprio regime di "unico uomo" e ha individuato nel modello presidenziale la via per realizzare il suo progetto, e insiste per questo.
La proposta di riforma costituzionale che voteremo al referendum non è qualcosa che potrà portare la pace in Turchia. Anzi, è un modo per rendere la Turchia uno stato autocratico. Perciò i prossimi due mesi sono di enorme importanza: stiamo lavorando con tutta la forza che abbiamo perché vincano le ragioni del no al referendum. Crediamo nel sistema parlamentare, che ha certo al suo interno rotture e difetti, ma che proprio per questo è da rafforzare. Con noi si muovono tutte le forze progressiste di questo paese, i socialdemocratici, socialisti, sindacati, organizzazioni di massa così come alcune persone che hanno votato per l’AKP in passato… Stiamo combattendo per il "NO", con la brama dei giorni in cui fiorirà la democrazia.
Siamo però anche consapevoli che quello del referendum non sarà un risultato definitivo, in alcun senso. Anche in caso di vittoria del NO sappiamo che la Turchia non ritornerà all’improvviso a un’identità democratica e laica. Ma siamo certi che, come artisti e intellettuali di questo paese, non vogliamo un regime di un uomo solo, che crede di sapere tutto e pensa di avere la possibilità decidere tutto per conto suo. È una questione che non riguarda solo il nostro “ambiente” ma coinvolge ogni singolo cittadino: alla Turchia serve più democrazia, servono più diritti umani, più produzione artistica, più volontà di vita comune. Il nostro compito ora è quello di mantenere accesa la volontà di vita comune. Gli amici e i compagni all’estero, i lettori di questa intervista sappiano che la speranza non è ancora sconfitta nel nostro paese, e non lo sarà mai! Continuiamo a sperare, e anzi ne siamo convinti, che vivremo presto giorni migliori. Le misure repressive e le prove di forza dell’attuale governo stanno entrando nella loro fase conclusiva. Noi combattiamo per ricostruire un paese più libero e democratico, in un sistema laico che agisca entro i limiti del diritto e della legge. Speriamo dunque che il 16 aprile possa essere un punto di svolta verso questo futuro.