I molteplici volti dell’Albania
Un viaggio che spazia dalla storia antica al più recente passato delle città albanesi di Tirana e Kruja
L’una è il presente e il futuro dell’Albania, l’altra il suo passato: Tirana e Kruja andrebbero visitate assieme, magari in uno stesso viaggio. La prima è la città più popolosa e la capitale del paese: moderna, aperta a molteplici influssi. L’altra è minuscola, molto più antica, uno scrigno di tradizioni, il concentrato di tutte le memorie nazionali. In pochi altri luoghi, come in Albania, per comprendere il presente e il possibile evolversi di una nazione occorre tenerne d’occhio il passato. Non è un caso se la statua equestre che campeggia nel mezzo della piazza centrale di Tirana rimanda a quella molto simile che ti accoglie a Kruja, non appena arrivi sotto la rupe della cittadella medievale. Entrambe le sculture hanno lo stesso soggetto: Giorgio Castriota detto Skanderbeg, l’eroe della nazione.
E così come Tirana, con il suo traffico intenso dagli ingorghi imprevedibili, letteralmente ruota attorno al pratone sempreverde che circonda la statua dell’eroe, Kruja è stata definita, dal governo albanese, direttamente la ‘Città-Eroe’. Quando ci arrivi con un piccolo tragitto dalla capitale (37 km.) capisci subito il perché: appollaiata su una fortezza naturale ai piedi delle montagne, Kruja domina il cuore dell’Albania. E’ dotata di fonti d’acqua (il suo nome pare richiami la krua, la ‘sorgente’), e racchiusa da una possente cinta di mura. Ha una superficie terrazzata e digradante di appena due ettari, ma la posizione strategica spiega molto della sua storia straordinaria: Kruja è come un nido d’aquila, animale simbolo del paese.
Ma c’è anche una questione di nomi: ad appena 4 chilometri da qui una zona archeologica è stata identificata con Albanopolis, città della tribù illirica degli Albanoì: sede, dunque, dei più antichi abitanti storici della regione, e precisamente di quella parte di essi che avrebbe generato il nome con cui il paese è oggi conosciuto. Anche l’uomo della strada, qui, si fa vanto d’essere diverso da tutti i popoli confinanti (slavi, greci, bulgari, minoranze turche), poiché discendente appunto dagli antichi Illiri. E non pochi storici gli danno ragione. Per una curiosa coincidenza anche il primo staterello albanese ricordato dalle fonti medievali ebbe il suo centro sempre a Kruja: un ‘Principato d’Arbania’, fondato attorno al 1190 e durato breve tempo.
Ma Kruja deve la sua importanza anzitutto a Skanderbeg: era la capitale dei suoi domini e la più importante delle numerose fortezze da lui fondate.
Arrivo nell’appariscente Museo di Skanderbeg, inaugurato all’interno delle mura trentacinque anni fa, di primavera, quando i prati sono in fulgore e punteggiati di fiori: lo trovo frequentato da molti albanesi e dagli ancor radi turisti stranieri. E’ uno spettacolare percorso per immagini nella storia dell’identità di una nazione: fin dall’atrio mi accolgono ricostruzioni figurative grandiose, intervallate da non pochi reperti originali. Al piano terra dalle vetrine traslucide occhieggiano le antiche armi bronzee degli Illiri, e di seguito sfilano, severi ed ispirati, i busti dei protagonisti della resistenza ai Romani. Personaggi come Pirro e la regina dalmata Teuta, che noi ‘romanocentrici’ siamo abituati a sentir descrivere come acerrimi nemici, diventano qui campioni della libertà. Le successive, travagliate vicende della storia medievale portano ai confusi e contrastati secoli tra l’XI e il XV in cui al lento declinare di Bisanzio e alle fallite prove imperiali della Grande Serbia e della Grande Bulgaria si sostituì poco a poco, ma inesorabilmente, il crescente potere ottomano. L’Albania nacque, e sopravvisse, su un terreno difficile.
Il culmine dell’esperienza del museo è dedicato all’epopea di Skanderbeg. Siamo al piano più alto, dalle cui terrazze si ammira un panorama suggestivo di vallate. La sua biblioteca privata lascia intuire un eroe colto e raffinato. Le sue armi, esposte qui in copia conforme all’originale, sono tanto pesanti e lunghe da parere quelle di un gigante.
Questo edificio potrebbe benissimo diventare il santuario di uno dei tanti nazionalismi fiorenti nei Balcani. Ma a fare da antidoto alle derive più pericolose in Albania è forse proprio la singolarità di questo eroe. Giorgio Castriota (così si chiamava originariamente) era, come rivela il nome, un cristiano. Ostaggio alla corte del sultano a Costantinopoli fu convertito all’Islam e divenne uno dei suoi migliori ufficiali, tanto da meritarsi l’appellativo di Principe Alessandro (questo significa appunto Iskander-beg, con chiaro riferimento al grande condottiero dell’antichità). Eppure sarà proprio lui, una volta passato all’opposizione del potente invasore, e abbandonata la religione islamica, a divenire l’eroe della resistenza nazionale contro la Mezzaluna.
Questo fa sì che la vicenda storica fondante dell’identità albanese sia diversa in un punto cruciale dalle altre epopee nazionali dei Balcani. Altrove, infatti, la memoria e la celebrazione della resistenza al dominio ottomano sono indissolubilmente intrecciate con l’identità religiosa prevalente della nazione. Invece l’Albania è un paese in grande maggioranza islamico, il cui eroe nazionale è però un cristiano che dall’Islam abiurò per combattere, come alfiere di tutto il popolo, la massima potenza musulmana dell’epoca.
Anche così si spiega il fatto che chi passeggia per le vie di Tirana ha la sensazione di trovarsi in una città aperta. Aperta, a partire dalla topografia: a differenza di Kruja, è collocata in una zona pianeggiante e non conserva più che le mura di un castello, preservate invece a racchiudere tutto il centro in altre antiche città del paese. Ma è aperta soprattutto mentalmente: poiché vi si alternano, in una simbiosi che fin qui pare decisamente pacifica, chiese ortodosse e cattoliche, moschee e tekke della minoranza Bektashi: una corrente religiosa del variegato mondo musulmano, che in Albania fissò la sua sede dopo essere stata espulsa dalla Turchia post-ottomana. L’Albania pare il più intimamente laico dei paesi balcanici. E pur vedendo coesistere una pluralità di fedi, è molto probabilmente anche il più tollerante.
Intendiamoci: il paese vive da tempo una competizione politica estremamente accesa, ed è reduce da una sorta di stato di guerra civile che alla fine del secolo scorso parve portare al collasso lo stato appena sorto dalle ceneri del regime comunista. Eppure questa tensione interna non ha a che fare con le diversità delle fedi, ma piuttosto con il retaggio di una conflittualità cantonale o clanica che impedì per lunghi secoli la formazione di uno stato unitario.
Così, passeggiando per le strade di Tirana, oltre agli enormi edifici ultramoderni che sovrastano perfino la monumentale edilizia razionalista del vecchio regime, incontri entro poche centinaia di metri l’enorme cattedrale ortodossa della Risurrezione, da poco ricostruita; poi la più grande moschea dei Balcani, finanziata dalla Turchia di Erdoğan, che è in fase di completamento; infine, la cattedrale cattolica di San Paolo, in piena efficienza e sempre affollata, anzi affollatissima di fedeli, come mi è capitato di vederla un giorno di Pasqua.
Curiosamente, anche la statua del Santo che la sovrasta regge in mano, come Skanderbeg, una spada sguainata. Tuttavia essa è rivolta verso il basso, e rappresenta ‘la spada dello Spirito’: come mi ha ricordato colui che quando lo conobbi era vescovo vicario di Tirana-Durazzo, George Frendo, e che da alcuni mesi è stato nominato da Papa Francesco arcivescovo metropolita. Mi ha ricevuto cordialmente dopo una breve attesa tra i numerosi fedeli in attesa di parlargli. ‘La spada dello Spirito’ non è altro che la parola di Dio; parola che Paolo, che nella parte iniziale della sua vita era stato un persecutore dei cristiani, si diede poi a diffondere egli stesso tra i pagani dopo la propria conversione. Fino a cadere di spada pure lui, nel martirio a Roma, che avvenne per decapitazione con una lama (privilegio concesso a chi, come Paolo, era pur sempre un cittadino dell’impero).
Fortunatamente, nell’Albania di oggi il passaggio da una religione ad un’altra è non solo lecito, ovviamente, ma viene considerato una questione del tutto privata e individuale: come è giusto che sia in un paese dove la libertà religiosa, assieme alla laicità dello stato, pare saldamente stabilita. Mons. Frendo mi ha spiegato anzi che il cristianesimo, qui, sembra attraversare ‘una nuova primavera’ anche dal punto di vista delle conversioni.
In effetti il paese vive, nonostante le frequenti discordie politiche intestine e le sempre accese contrapposizioni tra i due principali partiti-schieramenti politici, uno stato di equilibrata coesistenza tra le sue componenti religiose: deriva, forse, anche dalla consapevolezza di una libertà di culto conseguita solo da pochi decenni, dopo la caduta della tirannide comunista.
Vicende personali, storie familiari spesso travagliate e dolorose di un passato non troppo lontano, e una adeguata formazione culturale (scolastica?) delle ultime generazioni hanno posto le basi di una generale predisposizione alla tolleranza.
Ma sicuramente vi hanno contribuito istituzioni come quella nella cui sede, un giorno, entro quasi per caso. Mentre tento a fatica di interpretare la targa collocata all’esterno di un edificio e scritta in un albanese che mastico pochissimo, vengo notato da una funzionaria che vi si sta recando al lavoro, e che forse per questo mi prende in simpatia e mi accompagna all’interno. Si tratta dell’ente che si occupa degli ex perseguitati e prigionieri politici sotto il regime di Enver Hoxa. L’atrio sembra quasi un piccolo museo: foto d’epoca, grafici, mappe dei campi di prigionia del regime. La cifra che mi indicano è terribile: circa il 30% dell’intera popolazione albanese sarebbe stata oggetto della persecuzione politica (ma anche religiosa) del fanatismo di uno stato che destinava ai campi di concentramento anche l’intero gruppo familiare del singolo dissidente.
Quando esco, seguo le rive curate e verdeggianti del piccolo fiume che attraversa la città, il Lana. E, a poche centinaia di metri da quella sorta di memoriale di un passato greve e terribile come un macigno, sono sorpreso da uno spettacolo del tutto opposto: di allegrezza, gioia, di leggerezza inattesa.
Dall’antico Egitto in poi, è vero, le piramidi non suscitano in noi associazioni mentali troppo allegre: dispotismo, monolitismo, rigide gerarchie del passato, oscure pratiche mortuarie. Le stesse sensazioni dovrei provarle anche di fronte alla ‘Piramide’ di Tirana, eretta in onore di Enver Hoxa. Questo monumento dalla forma insolita è il residuo più clamoroso delle manie di grandezza di quello che fu uno dei più temuti dittatori dell’Europa orientale. Tuttavia ci capito in una giornata di tiepido sole primaverile, e scopro che la leggerezza e la giocosità delle nuovissime generazioni albanesi ne hanno fatto un’attrazione da lunapark: bambini e ragazzi si divertono a salirne a fatica le pareti, per poi buttarsi a ridiscenderle come su un enorme scivolo. Oggi l’edificio è completamente vuoto e pressoché inutilizzato: e pare mansueto come un vecchio cane da guardia ormai privo di denti e stuzzicato dai monelli.
Mi si concede di dare un’occhiata all’interno. E’ tutto un cantiere rimasto fermo, tra grandi, spettacolari sale ricavate in spazi dalle forme originali e dalle soluzioni architettoniche interessanti. Possibile sede di una biblioteca o di sale di esposizioni o di concerti, oppure centro per conferenze stampa, o prestigiosa sede di una futura Ambasciata europea: l’incertezza passata e presente sulla sua destinazione rispecchia, oltre che una certa tortuosità delle procedure decisionali che fa molto somigliare l’Albania all’Italia, anche la disponibilità tutta albanese ad aprirsi a futuri diversi, in un avvenire che non appare mai troppo predeterminato dal peso del passato. Poiché il passato albanese, non ha, appunto, un volto monolitico.
Così come non monolitico si è rivelato nel tempo il volto per eccellenza dell’arte albanese: quello della ‘Dea di Butrinto’. Butrinto è una zona archeologica inserita nel 1992 tra i siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, e fu scavata principalmente dagli italiani. Tra i resti della città greco-romana venne rinvenuto negli anni Venti un bellissimo volto in marmo: appartenente, si disse, a una dea. Tuttavia, gradualmente, si scoprì che la ‘dea’ era in realtà… un uomo, o meglio un dio: Apollo. Il quale, in effetti, veniva talvolta rappresentato con lineamenti alquanto delicati, quasi femminei.
L’ambigua e seducente divinità di Butrinto ha oggi il posto d’onore nel grande Museo Storico Nazionale, un solenne edificio eretto dal regime comunista a Piazza Skanderbeg: la soavità accentuata dal suo marmo traslucido fa da curioso contraltare al baffuto eroe bronzeo che cavalca lì sulla piazza di fronte a lei, per sempre marziale ed impettito.
A pochi passi da lì, sempre nel centro storico di Tirana, un’altra sorprendente contraddizione: corre lungo le pareti nella antica moschea di Et’hem Bey, costruita tra il XVIII e il XIX secolo. Ho visitato decine di moschee nei Balcani e in Turchia, ma questa è l’unica in cui abbia ammirato una lunga serie di immagini naturalistiche: affreschi di paesaggi, città, piante, cose e persone, che contravvengono ai divieti posti alle raffigurazioni del mondo reale che sono tipici dell’Islam più rigoroso.
La mia passeggiata nel centro di Tirana si conclude di fronte a un piccolo dio rovesciato. Bisogna riandare ad uno dei più bei brani della letteratura greca: racconta Plutarco che, al tempo dell’imperatore Tiberio, una nave che costeggiava il litorale tra Grecia ed Illiria (all’altezza delle petrose e disabitate isole Echinadi) udì una voce misteriosa levarsi dal mare in bonaccia, senza che fosse evidente da dove sorgesse. Chiamava il pilota, Tamos. Timoroso, l’uomo rispose. ‘Tamos, Tamos!’, riprese allora la voce, ‘quando arrivi a Palode, annunzia che il grande Pan è morto!’ Palode era un antico nome di Butrinto; sicché, proseguendo verso nord, l’imbarcazione vi giunse ben presto. Titubante, e senza fermarsi, il pilota si volse allora verso terra, e diede a gran voce il fatidico annunzio. Subito, un immenso grido di cordoglio si levò dalla costa, piangendo e lamentando la scomparsa del dio.
Una parabola sulla caduta degli dei pagani e l’avvento del Cristianesimo, come la interpretarono poi i padri della Chiesa? Fatto sta che proprio un piccolo Pan in bronzo proveniente da Butrinto è conservato in una vetrina del poco frequentato Museo Archeologico di Tirana. Vi entro accolto con grande cortesia dalla responsabile. Mi accompagna lungo le sale semivuote accendendomene via via le luci, spiega che il Museo dipende dall’Istituto di Studi Albanologici e che avrebbe bisogno di un riallestimento e della creazione di un catalogo. Cerco, fino a trovarlo in una vetrina polverosa, il Pan di Butrinto. La povera statuetta giace per qualche motivo rovesciata sul ripiano in vetro, caduta chissà perché dalla piccola base. Basterebbe poco per risollevarla, penso: e chissà se dal giorno di quella mia visita qualcuno non l’abbia già fatto. Basterebbe poco, penso, anche per far compiere un passo decisivo a questo piccolo paese: tanto devoto al suo passato, così aperto al suo futuro.