Whistleblower in Kosovo: quale protezione?

La tutela dei whistleblower e il confronto con le legislazioni di altri paesi della regione è stato il tema centrale di un evento organizzato dal portale web Kosovo 2.0

22/05/2017, Ngadhnjim Avdyli - Pristina

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L'incontro promosso da Kosovo 2.0

(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0 il 9 maggio 2017)

Il 3 maggio, in occasione della Giornata Mondiale della libertà di stampa, Kosovo 2.0 ha organizzato l’evento “Potresti essere un whistleblower?”, un’occasione di dibattito sullo status legale del whistleblower in Kosovo, in comparazione con la Serbia ed altri paesi della regione.

Per poter rispondere a questa domanda, è stato invitato Shkelqim Hysenaj, presidente del Consiglio dell’Associazione dei Giornalisti del Kosovo, per moderare la discussione tra i partecipanti al panel. Tra questi ultimi Florent Spahija, consulente legale dell’ONG Istituto Democratico del Kosovo (Kosova Democratic Institute-KDI), attiva nel campo della lotta alla corruzione; Arben Hajrullahu, professore presso il Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Pristina; Edmond Dunga, consulente del progetto contro il Crimine Economico in Kosovo dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa; e Ivana Jeremić, vice capo redattrice del Center for Investigative Reporting in Serbia (CINS).

Anche alcuni cittadini hanno partecipato alla discussione, condividendo le loro idee e domande con gli invitati al dibattito.

Per discutere inizialmente la regolamentazione dello status dei whistleblowers in Kosovo da un punto di vista legale, Spahija ha sviluppato un’analisi della Legge sulla protezione degli Informatori – una legge che definisce la posizione dei whistleblowers in Kosovo e con la quale lo stesso Spahija ha avuto molto a che fare.

Secondo Spahija, la legge presenta una serie di problematiche. Questa legge ha creato problemi quando il KDI si è trovato ad affrontare casi di whistleblowers, nello specifico per quanto riguarda il fornire una consulenza legale. Secondo Spahija, la legge, che è entrata in vigore nel 2011 per proteggere i whistleblowers, con i suoi soli 11 articoli è troppo concisa.

“Il KDI ha avuto a che fare con casi di whistleblowers e quello che abbiamo imparato è che è difficile fornire consulenza legale ai whistleblowers perché la legge non contiene adeguate specifiche”, ha detto Spahija.

Spahija ha sottolineato che tra le principali carenze della legge vi è la mancanza di specificazione dello status di whistleblower e la mancanza di chiarezza sulle azioni che le istituzioni dovrebbero intraprendere quando casi di whistleblowers le coinvolgono. “Qui [in Kosovo] secondo la legge sono considerati whistleblowers tutti i cittadini e i lavoratori – ha specificato – e questo ci porta a pensare che la legge intervenga solo in principio in materia e non si spinga oltre in ulteriori specificazioni. Questa legge protegge l’anonimato dei whistleblowers ma le carenze rimangono evidenti nei casi in cui l’identità del whistleblower viene rivelata”.

Un’altra questione riguarda il fatto che la legge non prevede vari livelli di denuncia: a differenza di quanto accade in altri paesi dove la legge riconosce tre livelli di whistleblowing, in Kosovo esiste solo un primo livello, quello di informazione interna. In molti altri paesi, le leggi prevedono questo primo livello di informazione all’interno dell’istituzione in cui si denuncia una violazione, tanto quanto un secondo livello di informazione ad un’ente esterno nel caso in cui l’istituzione in causa non abbia fatto fronte alla violazione denunciata. Infine, se in tutti e due i livelli le istituzioni di riferimento falliscono nell’adottare misure adeguate, le leggi in altri paesi prevedono un terzo livello di whistleblowing attraverso i media.

Secondo Spahija, questi elementi rimangono una sfida aperta per il legislatore kosovaro, e per questo motivo diverse ONG impegnate nei campi della lotta alla corruzione e della governance, come Levizja FOL, KDI e COHU, hanno messo a disposizione il loro sostegno per riformare la legge, al fine di renderla più specifica e creare definizioni chiare rispetto a cosa e chi siano i whistleblowers, come questi vengano protetti e quali misure debbano essere adottate.

Il professore universitario Arben Hajrullahu ha riportato la sua esperienza all’Università di Pristina. Alcuni mesi fa, Hajrullahu informò i suoi superiori del caso di uno studente che aveva formalmente terminato i tre anni di università ricevendo la sua laurea durante la prima settimana dell’inizio dei corsi. Hajrullahu ha sottolineato che in Kosovo denunciare ciò che si ritiene sia una violazione è visto come un infrangere le regole vigenti. Secondo Hajrullahu, non rivelare nulla in merito a irregolarità è una sorta di regola aurea nelle istituzioni pubbliche kosovare.

Hajrullahu ha aggiunto che questo deriva da una costante mancanza di responsabilità dei funzionari delle istituzioni. Ma insiste nel dire che questo non è dovuto alla mancanza di legislazione, quanto piuttosto alla mancanza di meccanismi di implementazione delle leggi. Infine, ha rifiutato di definirsi un whistleblower, dicendo che quello che ha fatto rimane una responsabilità professionale che lo "obbliga" a far sentire la sua voce su qualsiasi violazione di cui sia testimone.

“Se percepisce una violazione di legge, questa deve essere denunciata – ha affermato Hajrullahu – ma ciò che è ancora più importante è di non pregiudicare il caso. Non devono essere commessi []i nelle prime fasi. Per prima cosa, il caso deve essere riportato a coloro che nell’istituzione sono i responsabili per la gestione delle denunce, poi devono essere fatte tutte le verifiche necessarie e devono essere adottate le misure necessarie”.

Jeremić ha riportato alcuni casi di whistleblower in Serbia. Ha sottolineato come la cornice legale in Serbia sia in teoria ben definita. La legge specifica le azioni che devono essere intraprese da un’istituzione. Jeremić ha anche aggiunto che in Serbia ci sono stati oltre 200 casi in cui whistleblowers hanno denunciato diverse violazioni. Aggiungendo poi che la magistratura ha però fallito – nonostante la chiarezza della legge in vigore – nel proteggere i whistleblowers. Di conseguenza, nonostante vi siano casi in cui whistleblowers abbiano denunciato violazioni di legge, queste sono spesso rimaste lettera morta.

L’ultimo ad intervenire è stato Edmond Dunga che lavora come consulente al servizio delle istituzioni statali sulla regolamentazione giuridica dei whistleblowers. Dunga ha condiviso la sua esperienza e le sue impressioni rispetto alle modalità in cui questa materia è stata regolata in altri paesi della regione.

Secondo Dunga, guardando alla regolamentazione legale in Serbia e in Kosovo, ci sono chiare differenze tra i due paesi. E non riguardano solo la cornice legale e la sua implementazione. Ha sottolineato che in Serbia la legge è ben strutturata. E’ adeguatamente specifica e presenta piani d’azione soddisfacenti, cosa che non può essere detta per il Kosovo. “La legge in Kosovo è un modello troppo semplificato di concetti e misure legali che nei fatti non offrono protezione ai whistleblowers” ha sottolineato Dunga che ha poi parlato a lungo della sua esperienza legata a come è nata la legge sui whistleblowers in Serbia. Ha sottolineato che il Consiglio d’Europa ha sostenuto le istituzioni serbe, dando consigli sulla proposta di legge. Il tutto è risultato in una legge concreta, implementabile e chiara per la protezione dei whistleblowers. Secondo Dunga, dovrebbe essere definito un nuovo modello in Kosovo, al fine di offrire maggiore protezione e le istituzioni dovrebbero accettare il coinvolgimento della società civile e dare peso alle critiche esterne nella fase di discussione di una nuova legge.

In Kosovo sono state poche le istituzioni centrali ad aver avuto a che fare con dei whistleblowers che hanno denunciato violazioni interne. Nonostante ciò, vi sono stati casi in cui le violazioni sono state riportate all’Agenzia Anticorruzione, alla polizia, alla dogana del Kosovo ma anche questi pochi casi non sono stati tutelati adeguatamente dalla Legge sugli Informatori.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto

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