Guerre jugoslave, militarizzazione della memoria

Pratiche commemorative, memoria europea, processi di vittimizzazione delle memorie. Intervista con Vjeran Pavlaković, Professore associato al Dipartimento di Studi Culturali presso l’Università di Fiume

26/05/2017, Marco Abram -

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Vjeran Pavlaković

Quali sono le caratteristiche principali del ricordo delle guerre di dissoluzione jugoslava nei paesi post-jugoslavi?

Le guerre degli anni ’90 pesano su tutti i paesi ex-jugoslavi, in particolare in Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia e Kosovo, dove si è svolta la maggior parte dei combattimenti. In questi paesi molto spazio pubblico è dedicato alla memoria della guerra e le pratiche commemorative servono da arena per il confronto politico. Molti politici utilizzano la memoria della guerra per legittimarsi o per delegittimare i propri avversari. In tutti i casi le commemorazioni servono a omogeneizzare la nazione e alla costruzione degli stati-nazione. Quindi, invece di commemorare in modo esteso tutte le vittime o di condannare la guerra, si concentrano su una sola parte, cosa che non sorprende se guardiamo alla memoria dei conflitti nella storia. In Unione Europea e nell’area sud-est europea ci si aspetterebbe che le élites avessero imparato dal passato. Tuttavia si ripete uno schema già visto durante l’era comunista, quando si ricordava solo una parte, i vincitori, mentre l’altra – i collaborazionisti – erano dimenticati ed esclusi dal “memoryscape”.

Quali sono secondo lei le principali differenze tra i paesi post-jugoslavi nel rapporto con le guerre degli anni Novanta?

In Croazia le due commemorazioni principali sono Vukovar (una narrazione di vittimizzazione relativa alla caduta di Vukovar nel 1991) e la narrazione vittoriosa dell’Operazione Tempesta nel 1995 a Knin. L’attenzione è rivolta ai croati e alle vittime croate, e in questa memoria molto militarizzata c’è poco spazio per le vittime dell’altra parte, in particolare per la popolazione serba in Croazia.

Credo si sia potuto notare il tentativo di ampliare il discorso nel momento in cui la Croazia stava entrando nell’UE, ma ora vediamo un nuovo ciclo di retorica nazionalista. Nonostante un’apertura dello spazio della memoria tra il 2000 e il 2014, ora vediamo una certa involuzione. Sfidare la narrazione ufficiale dominante è molto difficile per gli storici, per i media indipendenti e per la società civile, perché questa narrazione vittoriosa è stata fondata negli anni ’90 ed è rimasta sostanzialmente inalterata fino ad oggi.

Si tratta di una memoria militarizzata. Invece di concentrarsi su iniziative che hanno fermato la guerra o hanno impedito ulteriore violenza e utilizzarle come importanti messaggi di tolleranza, queste sono marginalizzate e l’attenzione rimane sulle atrocità, sulle vittime o sulle battaglie vittoriose. Un esempio di un anniversario di pace è quello dell’Accordo di Erdut, che ha permesso la reintegrazione pacifica della Slavonia orientale, tuttavia non riceve molta attenzione. Questa è una caratteristica generale delle commemorazioni, dal momento che le pratiche commemorative in grado di evocare emozioni forti sono più facili da manipolare politicamente.

In Serbia invece non c’è una sola narrazione, in quanto non esisteva un consenso sugli obiettivi delle guerre degli anni ’90: si trattava della preservazione della Jugoslavia? Della creazione di una grande Serbia? Si voleva costruire uno stato-nazione serbo e mantenere il Kosovo? Il risultato fu fondamentalmente una serie di sconfitte. Questa mancanza di una forte narrazione ufficiale fa sì che in Serbia ci sia un dibattito più intenso sulla natura della guerra rispetto a quanto avviene in Croazia.

Ma l’altro aspetto che riguarda questo caso è che, in seguito alle attività del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (ICTY) e alle accuse di genocidio, la Serbia ha sostenuto di non essere stata coinvolta nelle guerre negli anni Novanta, per cui anche la costruzione di monumenti ufficiali è molto rara. Ci sono molte iniziative locali, per i soldati che hanno combattuto nella JNA e che sono caduti in Croazia o in Bosnia Erzegovina, ma sono promosse “dal basso”. L’eccezione è il bombardamento della NATO nel 1999. Tutti vogliono avere una narrazione vittimizzante e il bombardamento della NATO lo consente. Le autorità prestano molta attenzione a commemorare questi eventi e a costruire monumenti ufficiali.

L’approccio più frammentato e schizofrenico alle guerre degli anni ’90 si può vedere in Bosnia Erzegovina, dove ci sono tre narrazioni ufficiali e contrastanti sul passato. Lo si rileva anche nello spazio pubblico, dove i monumenti dominanti dipendono dal gruppo etnico che si trova al potere in quel determinato luogo. Ci sono poche eccezioni: ad esempio il distretto di Brčko ha memoriali dedicati a tutte e tre le parti. Tuttavia in un luogo come Prijedor, dove ci sono state molte vittime civili bosgnacche, quasi tutti i monumenti sono dedicati alla parte serba. Poiché in molte zone della Republika Srpska lo spazio pubblico è negato alle vittime bosgnacche, molti memoriali sono legati alla comunità islamica e sono costruiti sulle proprietà delle moschee. Molto raramente si trovano nelle piazze o in altre aree visibili. In altri luoghi, nella Federazione BiH, alle vittime serbe non sono sempre garantiti spazi di memorializzazione equi. Quest’anno alcune commemorazioni sono state spostate da Tuzla e da Sarajevo (dalla Dobrovoljačka ulica) in quanto la parte serba ha sostenuto “non ci sentiamo al sicuro avendo questa commemorazione”. È una mossa politica o no? Erano davvero minacciati? Non ne sono sicuro, ma possiamo notare come tutti i problemi della Bosnia e la memoria della guerra si riflettono nel modo in cui quest’ultima è commemorata.

Conosco meno il caso del Kosovo, ma so che c’è una forte narrazione ufficiale dominante anche qui. Il focus è sul vittorioso Esercito di liberazione del Kosovo, mentre gli anni di resistenza pacifica restano ai margini della memoria pubblica.

Quale spazio viene dato alle guerre di dissoluzione jugoslava nella memoria europea? Vengono ricordate in altri paesi?

Probabilmente non ha un ruolo molto importante. La maggior parte delle persone ne ha effettivamente sentito parlare attraverso il lavoro del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, i cui obiettivi erano la riconciliazione e il confronto con il passato in questi paesi, ma che in genere ha provocato una reazione contro la cosiddetta comunità internazionale. Penso che nell’opinione pubblica europea la maggior parte delle persone sappia della guerra attraverso i processi e, nonostante tutte le critiche, l’ICTY abbia in qualche modo creato una memoria a livello europeo. Il massacro di Srebrenica è il perno di tale memoria, così come il ruolo dei peacekeeper olandesi in quell’occasione.

La politica europea della memoria influenza in qualche modo il ricordo delle guerre degli anni Novanta nella regione? A suo parere, quale dovrebbe essere il ruolo delle istituzioni europee?

Possiamo riconoscere l’esistenza di un processo di "europeizzazione" della memoria che riguardai nuovi stati membri e i paesi candidati. La mia collega, Ana Tassone Milošević (Università di Leuven), studia il "download" della memoria europea nei nuovi stati membri e il "caricamento" delle memorie nazionali dai nuovi stati membri alla "memoria europea". Per esempio, ha esaminato come i parlamentari europei croati hanno introdotto la commemorazione di Vukovar al Parlamento europeo. Hanno accesso a questa memoria i cittadini in Belgio, Germania o Svezia? Probabilmente no, ma almeno in qualche modo viene “caricata”. In precedenza il paradigma della memoria europea si concentrava sull’antifascismo e sull’Olocausto, che erano sempre nella checklist per ogni nuovo Stato membro. Dopo l’ingresso dei paesi dell’ex blocco sovietico nel 2004, è stata “caricata” una nuova memoria anticomunista che è ora parte anche del “download”. Quindi ora la memoria europea è contraddistinta da questa dualità in cui è legittimo parlare dell’Olocausto e dell’antifascismo come dell’anti-comunismo. Penso che ciò abbia influenzato il modo in cui la memoria funziona qui, perché ora la destra sostiene "guardate, condannare i crimini comunisti è una posizione europea".

L’Unione Europea dovrebbe fare di più? I progetti in corso sono molti e l’Europa prende la questione piuttosto sul serio. Ma penso che l’Europa abbia bisogno in definitiva di una narrazione forte o nuova in quanto è sembrata davvero frammentata negli ultimi tre anni. Ci sono la crisi dei migranti, il ritorno dei controlli alle frontiere e i partiti populisti che aggressivamente cercano di rivedere la narrativa antifascista europea. Possiamo ancora parlare di un paradigma europeo della memoria? Le memorie nazionali vengono incentivate in Croazia, in Ungheria, in Francia, ecc. Per quanto tempo durerà questa narrazione di tolleranza, antifascismo e di commemorazione di tutte le vittime?

A ventisei anni dall’inizio delle guerre jugoslave le testimonianze personali hanno ancora uno spazio importante nelle pratiche commemorative. Qual è il loro ruolo? Sono potenzialmente utili per mettere in dubbio le narrazioni dominanti? Risultano facilmente manipolabili a scopo politico?

L’iniziativa Rekom, che si propone di creare una commissione regionale per stabilire la verità sui crimini di guerra e sulle altre violazioni dei diritti umani, include le testimonianze delle vittime tra i suoi obiettivi primari. Sono buone o cattive? Dipende sempre da chi le registra ed è sempre una battaglia per lo spazio e il riconoscimento pubblico, come la costruzione di memoriali o la denominazione delle vie. Le autorità statali spesso sostengono film documentari e interviste che ripropongono la narrazione dominante. Ma molto lavoro viene fatto anche da gruppi come Documenta , che ha una collezione chiamata “Croatian memories ” con un enorme numero di interviste di storia orale. Hanno fatto un buon lavoro nell’includere una varietà di prospettive sia sulla guerra degli anni ’90 che sulla Seconda guerra mondiale. Purtroppo Documenta è spesso attaccata dalla destra radicale, in quanto riconosce anche le vittime civili serbe, quindi talvolta importanti testimonianze o memorie alternative non riescono a raggiungere un pubblico più vasto. Anche gli archivi dell’ICTY sono una grande risorsa in materia di documenti e testimonianze che possono aiutare a comprendere le guerre in questa regione da molteplici prospettive.

Diversi progetti sulla memoria utilizzano i linguaggi artistici per parlare delle guerre recenti. Cosa pensa del ruolo che l’arte può svolgere nel confronto con il passato?

Può svolgere un ruolo molto importante, ma dipende da come viene utilizzata. I graffiti o la street art che celebrano solo la vittoria fondamentalmente riproducono la narrazione dominante. Ad esempio, in Croazia si trovano molti graffiti e opere murali legate a Vukovar. È una modalità creativa, ma è necessario dare spazio anche all’altra parte e a coloro che hanno lottato per trovare soluzioni pacifiche. Quindi nel “confronto con il passato” l’arte può rappresentare per la generazione più giovane una modalità per esplorare la narrativa al di là della semplice parata militare.

In Croazia, tuttavia, le opere d’arte che sfidano la narrazione dominante vengono spesso accusate di tradimento. Ad esempio, l’anno scorso una poesia satirica che criticava l’Operazione Tempesta ha provocato una grossa controversia. Oliver Frljić, ex direttore del Teatro nazionale di Fiume, ha sollevato numerose polemiche quando ha invitato cinque donne a parlare dell’Operazione Tempesta da varie prospettive, un evento che è finito con la minaccia e l’aggressione di un certo numero di persone.

Quanto è utile la provocazione? Da un lato è positiva perché richiama l’attenzione su temi sensibili che possono essere discussi al di fuori della sfera politica, ma d’altra parte le risposte emotive fanno passare in secondo piano le importanti discussioni che sarebbe necessario fare. Nel suo programma di giustizia di transizione Rekom ha incluso anche le arti, in particolare il teatro, promuovendo ad esempio opere recitate sia in serbo che in albanese. In altre parti del mondo l’arte è una componente importante della giustizia di transizione. Ad esempio, in Perù i popoli indigeni che hanno sofferto l’oppressione di stato usano il quilting e la stone art per discutere del passato, perché non hanno una tradizione di testi scritti o per mancanza di spazio pubblico commemorativo. L’arte consente alle voci emarginate di essere ascoltate al di fuori della sfera politica e permette di trattare il passato diversamente, in modo meno militarista e più partecipativo.

In questo contesto, cosa cercate di proporre con il progetto Framnat ? Quale è il fulcro del vostro lavoro e in che modo trattate la memoria degli anni ’90?

Stiamo esaminando sette commemorazioni in Croazia, cinque relative alla Seconda guerra mondiale e due alla guerra degli anni ’90. La principale area di analisi sono i discorsi politici. Vogliamo studiare come l’élite politica e gli altri attori sociali (comunità religiose, ONG, organizzazioni dei veterani e delle vittime) usano la memoria per definire come vedono la nazione. Poiché la Croazia ha avuto diversi governi e presidenti durante il periodo preso in esame, possiamo osservare come i politici e gli altri attori utilizzano la memoria. Conduciamo anche indagini nei luoghi della memoria per registrare le varie pratiche commemorative e analizzare le rappresentazioni date dai media dei messaggi che vengono trasmessi durante questi rituali politici.

Come ricercatore, è molto difficile sostenere che vogliamo cambiare il modo in cui le persone commemorano la violenza passata, quindi in questo momento stiamo solo cercando di mappare tutte le pratiche commemorative che siamo in grado di osservare. Alla fine, vorremmo dare una qualche raccomandazione politica o stimolare un dialogo sull’utilizzo della memoria culturale. Perché ogni paese avrà una qualche memoria e ogni sistema politico utilizzerà il passato in diversi modi.

Vogliamo utilizzare il nostro passato per l’omogeneizzazione nazionale? Vogliamo utilizzarlo per rendere lo stato nazione esclusivo o per imparare che possiamo essere migliori di così, per evitare conflitti futuri? Il ruolo dell’UE nell’elaborazione delle pratiche commemorative oggi è più debole in quanto lo stesso progetto UE è incerto, quindi molti paesi della regione stanno tornando ad una retorica più nazionalista, in sostituzione al discorso europeo inclusivo che ha dominato nell’ultimo decennio.

Ciò è anche dovuto alla crisi dei migranti, che ha portato questi paesi a diventare più difensivi, mentre la politica della memoria enfatizza il messaggio "prima la nazione". I risultati del progetto FRAMNAT mostreranno come la lingua, i simboli e i media vengono usati per trasmettere e spesso distorcere il passato. Ci sono stati eventi chiaramente traumatici, dipende da noi e dai leader politici in che modo saranno utilizzati. Le élites politiche, i leader religiosi, gli intellettuali e i media hanno la responsabilità di proporre alla società una politica della memoria che sia inclusiva e rafforzi la democrazia liberale, e non una narrazione xenofoba basata sulla vittimizzazione di una parte.

Percorso didattico

Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto Testimony – Truth or Politics. The Concept of Testimony in the Commemoration of the Yugoslav Wars, coordinato dal CZKD (http://www.czkd.org/ ) e cofinanziato dal programma "Europa per i cittadini" dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea.

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