Bosnia Erzegovina, Serbia | |
Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio
Un ponte che non riesce ad unire, un fiume che ancora divide. Una recensione all’ultimo libro del giornalista e scrittore Luca Leone
Di solito i fiumi fanno da confini naturali e dividono, mentre i ponti – superando gli ostacoli – uniscono e congiungono. Un quarto di secolo fa in Bosnia Erzegovina spiravano venti di divisione e di separazione, soprattutto se – come nel caso della cittadina di Višegrad – la geografia la poneva a ridosso del confine serbo pur con una popolazione (al censimento del 1991) per quasi due terzi bosgnacca. Scrive Luca Leone, giornalista e scrittore esperto di Bosnia, nel suo libro "Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio " uscito quest’anno per Infinito Edizioni, che tutto cominciò nell’aprile del 1992 quando l’esercito che fu popolare e jugoslavo attaccò con l’artiglieria per poi ritirarsi e lasciare spazio alla pulizia etnica nei confronti della popolazione bosniaco musulmana. Che sarà perpetrata dai paramilitari delle "Aquile bianche" di Vojislav Šešelj, dei "Vendicatori" e delle "Tigri" del famigerato Arkan (Željko Ražnatović), anche se saranno i due cugini Milan e Sredoje Lukić ad occuparsene con particolare ferocia.
Così il bianco ponte ottomano fatto costruire nel Cinquecento dal visir Mehmed Paša Sokolović e celebrato dal noto capolavoro di Ivo Andrić "Il ponte sulla Drina" fece da sfondo muto di continui orrori. Tra le sue undici arcate, “sotto le quali rumoreggia il fiume verde, rapido e profondo”, passarono cadaveri e sangue, contraddicendo il Nobel jugoslavo che lo descrisse come una di quelle opere che “non condividono la sorte delle cose transitorie di questo mondo”. In realtà il ponte silenziosamente le condivise tutte, venendone anche danneggiato.
Višegrad conobbe rastrellamenti, deportazioni, massacri, stupri (va ricordato l’albergo Vilina Vlas – tuttora funzionante – dove duecento donne e bambine vennero violentate e poi uccise) che produssero la scomparsa di circa tremila persone mentre la Drina si arrossò di sangue. L’incendio di una casa in Pionirska ulica , in cui vennero rinchiuse decine di persone e 53 bruciarono vive ad opera degli ultranazionalisti serbi, richiama in pieno il metodo delle stragi naziste.
La seconda parte del libro di Leone è una sofferta raccolta di testimonianze. Testimonianze che ci dicono che oggi Višegrad è una città irrisolta, “sonnolenta e omertosa”, dove il revisionismo ed il negazionismo (la città appartiene alla Republika Srpska, è ormai per l’88% abitata da serbo-bosniaci ed il sindaco è del partito democratico serbo, l’SDS) impediscono che si parli di genocidio, come fece tre anni fa un’ordinanza comunale rimuovendo d’imperio quella parola dal monumento alle vittime nel cimitero musulmano. Sebbene i due Lukić siano stati pesantemente condannati dal Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, Milan all’ergastolo e Sredoje a 27 anni di carcere, altri carnefici “minori” sono ritornati a vivere in città e c’è chi li considera degli eroi.
E il ponte? E’ stato abbellito con effetti luminosi e vi è stato vietato il traffico veicolare per meglio salvaguardarlo; dieci anni fa è entrato a far parte dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco . Ma nonostante la sua austera bellezza, la sua storia secolare e la sua immortalità letteraria il Ponte sulla Drina non è amato: non lo amano i bosniaci musulmani perché per due volte nel Novecento (era successo anche nella Seconda guerra mondiale) sul ponte venivano uccisi e buttati giù; non lo amano i serbi perché è stato costruito da un turco (anche se in realtà giannizzero); non lo amano i croati di cui sappiamo ciò che hanno fatto a Mostar ad un ponte forse ancora più noto. E’ insomma un ponte – quello di Višegrad – che ancora non riesce (simbolicamente) a fare il ponte, cioè a unire; la Drina, che come tutti i fiumi separa, rimane sempre più forte.