Chi ha vinto nella guerra dei dieci anni?

Dopo la condanna di Mladić e il suicidio di Praljak una riflessione su quanto criminali e crimini della dissoluzione jugoslava tengano ancora in ostaggio il futuro dell’Europa

05/12/2017, Michele Nardelli -

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Ratko Mladić - UN International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia/flickr

(Pubblicato in contemporanea con www.michelenardelli.it )

Spenti i riflettori sulla condanna all’ergastolo di Ratko Mladić tutto sembrava riprendere a scorrere nella “normale” indifferenza con cui si guarda a questa parte d’Europa che ci ostiniamo a non considerare tale. E a non capire, alternando reazioni all’emergenza e superficialità.

Non è stato infatti diverso nemmeno in larga parte dei commenti sulla condanna di quello che un tempo era il capo militare dei serbo-bosniaci, immortalato sul banco degli imputati all’Aja nei panni di un vecchio livido di rancore che – giustamente – finirà i suoi anni dietro le sbarre. Commenti in genere improntati a descriverlo come l’incarnazione del male, il malvagio della carezza al bambino di Srebrenica prima della mattanza o, per altri versi, ad indicarlo come il primo combattente contro lo stato islamico in Europa. Commenti che hanno sottolineato che prima o poi i responsabili sono chiamati a pagare per i loro crimini , in virtù del fatto che la storia la scrivono i vincitori.

Ma se non fosse così?

Il dubbio si insinua dopo la vicenda che all’Aja ha visto per protagonista Slobodan Praljak. Quest’ultimo era meno noto del suo collega di mattanze con il quale – pur su un altro fronte – aveva in comune il delirio nazionalistico (in questo caso la “grande Croazia”), l’odio verso i bosgnacchi musulmani (partì da lui l’ordine della distruzione del “vecchio”, il ponte di Mostar) e le pratiche esoteriche e i riti cavallereschi come fu la fedeltà nibelungica per il Terzo Reich (in fondo il richiamo ai popoli celesti o le apparizioni di Medjugorje non sono poi tanto diversi). Il suo gesto di fronte alla condanna è l’epilogo di un rituale che lo vorrebbe consacrare come martire ed eroe.

Resta però difficile pensare a Mladić o Praljak nella parte dei vincitori. Proviamo allora a seguire un racconto diverso, fuori dal coro. Partendo da una semplice domanda: chi ha vinto nella “guerra dei dieci anni”? Se guardassimo con un po’ di attenzione quel che è accaduto in quegli anni e nel dopoguerra, tanto in Bosnia come altrove (nei Balcani e non solo), la risposta appare piuttosto chiara. Hanno vinto loro, i criminali.

Nel disegno di spartizione della Bosnia Erzegovina, come in quello di profittare della guerra come terreno propizio per gli affari, hanno vinto i signori della guerra. Si sono convertiti in tempo reale in uomini d’affari, in un’intera regione diventata il terreno di una tremenda sperimentazione sociale fatta di deregolazione e di mafie, di neoliberismo estremo e demolizione di ogni traccia di welfare. Una regione offshore, nel cuore dell’Europa.

La guerra in Bosnia Erzegovina (1992 – 1995) si concluse con gli accordi siglati a Dayton da Izetbegović, Milosević e Tudjman, quest’ultimi allora presidenti di Serbia e Croazia, come a riconoscere il ruolo chiave che questi paesi avevano avuto in quel massacro durato quasi quattro anni. Quell’accordo, salutato come un gesto di pace (e poco ci mancò che non ricevessero il Nobel), fermò sì la guerra in Bosnia Erzegovina ma la legittimò sia come divisione territoriale (fotografandone il fronte come confine interno), sia come separazione nazionale/religiosa, sia infine come strumento per la risoluzione delle controversie nella lacerazione jugoslava.

L’operazione di spartizione “etnica” della Bosnia Erzegovina si era così conclusa, i signori della guerra erano al potere (l’immagine di Radovan Karadžić campeggiava in tutti gli uffici pubblici della Republika Srpska), poteva proseguire l’operazione di privatizzazione dell’intera struttura economica della vecchia Jugoslavia mentre iniziava uno dei processi più dolorosi di depauperamento conosciuti nella storia europea. Per non parlare dei simboli, nazionali e religiosi, che sorgevano e sventolavano ovunque.

Chi aveva vinto? Chi provava a ritornare nelle proprie case nei primi mesi del 1996 (ma anche negli anni immediatamente successivi) ne veniva dissuaso con la forza, malgrado la presenza internazionale che avrebbe dovuto garantire il diritto al ritorno. Ci vollero anni. Fui testimone dei primi ritorni della popolazione bosgnacca a Prijedor, ma in seguito molti dei rientranti decisero che quella terra non era più la loro e se ne tornarono dove avevano vissuto come profughi. E’ sufficiente scorrere i dati dell’ultimo censimento della Bosnia Erzegovina per comprendere che l’operazione di separazione “etnica” è arrivata a compimento.

I criminali non vinsero solo in Bosnia Erzegovina. L’esito di Dayton fu anche la delegittimazione di Ibrahim Rugova, il leader nonviolento del popolo kosovaro grazie al quale quella regione – da dove con il raduno di Milosević a Kosovo Polje il 28 giugno 1989 era partita la dissoluzione della Jugoslavia – si era tenuta fino a quel punto fuori dalla guerra. Spianando così la strada all’opzione armata dell’Uçk, alla pulizia etnica da parte del regime di Milosević, alla guerra totale nella primavera del 1999 e alla contro-pulizia etnica nei mesi successivi quando l’esercito serbo si ritirò oltre il fiume Ibar. Grazie alla coalizione occidentale e alla Nato vinsero i nazionalisti albanesi dell’Uçk ma il Kosovo era un campo di macerie avvelenato dall’uranio impoverito (usato in maniera “umanitaria” dai liberatori), dove erano state cancellate anche le tracce della resistenza nonviolenta, delle sue classi dirigenti e delle sue istituzioni. Ma a guardar bene vinse anche Milosević, che usò a suo favore l’indignazione della popolazione verso i bombardamenti della Nato per rinsaldare oltre alla propria leadership anche il vittimismo del popolo serbo.

Vinsero, forse senza neanche rendersene ben conto, quelli che bombardando la Biblioteca di Sarajevo o abbattendo il vecchio ponte di Mostar volevano fermare la costruzione di un’Europa dalle tante identità e delle innumerevoli minoranze. In quegli stessi anni il confronto sulla Costituzione europea si arenò proprio attorno al nodo delle radici culturali “cristiano – giudaiche” dell’Europa. Saltò la Costituzione europea, così come l’ingresso della Turchia nell’Unione, cavallo di battaglia della destra xenofoba europea. E cambiò la storia.

Perché a Sarajevo (o a Srebrenica) non morivano solo le Nazioni Unite, iniziava anche il declino dell’Europa. E’ paradossale come l’allargamento a 28 dell’UE, in un quadro di crescenti egoismi nazionali, ne abbia minato il disegno politico includente. Tanto che oggi il nazionalismo contagia in vario modo tutti i paesi europei e il “prima noi” sta disseminando l’Europa di paura, razzismo e filo spinato. Per non dire dei rinascenti fascismi che entrano nei parlamenti nazionali fino ad esprimere maggioranze di governo.

Nel frattempo venivano alla luce le atrocità, i genocidi, le fosse comuni. E alcuni dei personaggi un tempo considerati eroi nazionali divenuti ingombranti bisognava toglierli di mezzo, consegnarli come capri espiatori per rifarsi un’immagine presso la comunità internazionale e l’Europa stessa. Tutto questo, peraltro, con pesi e misure diverse, a seconda della loro collocazione e appartenenza nello scacchiere delle alleanze internazionali più che dei crimini commessi. Processati all’Aja e anche per questo – in assenza di elaborazione del conflitto – diventati simboli e martiri nel loro paese. Andate a Guča nel mese di agosto quando si celebra la festa degli ottoni per vedere i volti che campeggiano sulle magliette di centinaia di giovani: ci sono loro, Mladić e Karadzić, Milosević, nel frattempo morto all’Aja. Il loro compare Šešelj (presidente del Partito Radicale Serbo e negli anni ’90 a capo del gruppo paramilitare Beli Orlovi – Aquile bianche) siede oggi in Parlamento.

Lo stesso potremmo dire per Praljak, Prlić e gli altri criminali condannati nei giorni scorsi, recentemente celebrati nella cattedrale di Mostar. Per non parlare di altre figure come il generale Ante Gotovina, in gioventù membro della Legione straniera in diversi paesi africani, in stretti rapporti con Jean-Marie Le Pen, addestratore di compagnie paramilitari di estrema destra in Argentina e in Guatemala, gradi acquisiti negli anni ’90 nell’esercito croato e accusato di crimini contro l’umanità, omicidio, persecuzioni, distruzione di città e villaggi… condannato a 24 anni dal TPI, poi assolto in appello e accolto come un eroe di guerra da migliaia di persone al suo ritorno in Croazia. O Fikret Abdić detto “Babo”, capo di Agrokomerc (il combinat agroalimentare al centro della tangentopoli che nel 1985 scosse la vecchia Jugoslavia), signore della guerra nella zona di Bihac, condannato a vent’anni di reclusione per crimini di guerra ed oggi sindaco di Velika Kladuša, nella Bosnia nord occidentale, quando non è nella sua villa a Voloska, a due passi da Opatija (Abbazia), esclusiva località turistica istriana. Basterebbe scorrere le carriere di Milo Đukanović, ex (o attuale?) padre padrone del Montenegro o di Ramush Haradinaj, primo ministro del Kosovo, per comprendere qual è la natura di questi paesi. L’elenco potrebbe essere lungo e oggetto di un’inchiesta sul destino dei signori della guerra che potrebbe rivelarsi davvero interessante.

E i dopoguerra? Vogliamo andare a vedere quali sono gli assetti di potere e istituzionali negli stati nati dalla dissoluzione della Jugoslavia? Paesi offshore, dove la deregolazione produce enormi profitti, il crimine organizzato controlla i traffici e il riciclaggio ma anche intere filiere come edilizia e turismo, banche e gioco d’azzardo. Nei quali la privatizzazione ha favorito multinazionali come Arcelor Mittal (la stessa dell’Ilva di Taranto) che hanno rilevato l’industria siderurgica bosniaca a costo zero, a Zenica come a Prijedor. Dove le condizioni di vita per le fasce più deboli sono al di sotto dei livelli minimi di sopravvivenza, senza più sanità pubblica e uno straccio di welfare. Con un sistema scolastico rigidamente diviso per appartenenza nazionale e dove le materie formative riflettono storie contrapposte. Dove la libertà di informazione è fortemente limitata e condizionata dai poteri forti. Regressione al sottosviluppo? Niente affatto, piuttosto post-modernità.

Chi ha vinto, dunque, nella guerra dei dieci anni e nel tempo senza elaborazione che ne è seguito?

Nazionalisti e criminali, Ratko Mladić e Slobodan Praljak sono stati interpreti di questo tempo ben oltre i loro confini. Sarebbe sbagliato considerarli fra i perdenti, perché malgrado le condanne sin qui la storia l’hanno scritta loro. Quanto al veleno, non credo sia necessariamente “la via di fuga degli sconfitti” (1). Tanto è vero che la “balkanska krčma” (2), i luoghi dove gli umori diventano rancore e il rancore progetto politico, ce la ritroviamo nelle nostre periferie.

 

Note:

1. Titola così l’articolo di Emanuele Trevi sul Corriere della Sera del 30 novembre “Quando il veleno è la via di fuga degli sconfitti”.

2. La “locanda balcanica” di cui parla Rada Iveković nel suo “Autopsia dei Balcani”, Raffaello Cortina editore, 1999

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