Elvis Malaj: l’altro, un nostro simile
Ha esordito nel 2017 con la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia. Elvis Malaj si è trasferito con la famiglia in in Italia a 15 anni. Ora la lingua del suo scrivere è l’italiano. Un incontro
«Di dove sei?» Chiese il signore.
«Come mai me lo chiede?».
«Non sei veneto».
«No».
«Non riesco a riconoscere il tuo accento».
«Sono albanese».
«Ah, non l’avrei detto. Stai da molto qui?».
«Sì».
«Come ti trovi in Italia?».
Gli avevano fatto mille volte quella domanda.
«È una domanda scorretta questa».
«In che senso?».
«Trovarsi bene o meno in un posto non dipende dal posto, dipende da te. Ovunque vai ti porti sempre dietro qualcosa che alla fine rende ogni posto uguale a un altro. Potrei anche rispondere alla sua domanda, ma non significherebbe niente. Tradirei semplicemente la mia capacità di trovarmi bene o male in Italia».
Si può cominciare da questo passaggio del racconto Il lupo della steppa a entrare nella sostanza pulita che anima la scrittura di Elvis Malaj, albanese, classe 1990. Originario di Bajze, nel nord del paese, si è trasferito con la famiglia in Italia all’età di 15 anni. Dopo il primo approdo non privo di difficoltà ad Alessandria, Belluno, Milano e infine Padova. Una volta abbandonata l’università milanese, l’autore, seguito da Oblique Studio, ha cominciato a fare lavori occasionali, dal muratore all’archivista, senza lasciare però il proprio mezzo espressivo più importante, la scrittura.
La raccolta, composta di dodici racconti, Dal tuo terrazzo si vede casa mia (Racconti edizioni, 164 pagine, 14 euro) rappresenta il debutto letterario di Malaj. In tenera età, quando l’Albania assaporava la democrazia e sognava l’altra sponda dell’Adriatico, Malaj ha appreso i rudimenti della lingua italiana ascoltando la televisione. Affronta con ironia la condizione legata all’essere straniero, così vitale per chi scrive, raccontandola in un gioco di specchi tra Italia e Albania. Malaj riesce a eludere i confini dell’identità, che spesso ci limitano, quando invece c’è sempre un mondo nuovo, anche letterario, per chi ha il coraggio di affacciarsi e guardare dentro.
L’appartenenza danza sull’ambivalenza dell’assimilazione, talvolta mossa dal desiderio di percepirsi inclusi, e dal senso di estraneità che inquieta. Qual è la tua reazione davanti allo specchio fisico e a quello ambiguo dello sguardo degli altri?
Ciò che indica la mia appartenenza è solo una frase scritta sul documento di identità. Quando dico di essere albanese, e l’altro non se lo aspettava, ricevo risposte di sguardi ambigui. Vedo che la persona è impegnata in un processo mentale della durata di pochi secondi, in cui confronta l’idea preconcetta che ha di un albanese con quella che si è costruito su di me e nota che ci sono delle incongruenze. Ogni volta che si è creata una distanza tra me e l’altro era in primo luogo perché la percepivo così, mentre quando smettevo di farlo svaniva. Superando la diffidenza iniziale, se percepisci l’altro come un tuo simile, che odia come odi tu, ama come ami tu, soffre come soffri tu, alla fine si renderà conto che non sei tanto diverso da lui.
Nella scrittura hai trovato una sorta di patria utopica, che non ti chiede scelte impossibili e di uscire dalle contraddizioni proprie dell’identità?
In un certo senso sì, molte delle contraddizioni dei miei personaggi rimangono insolute. Spesso se la cavano con delle scappatoie, ma di fatto non affrontano o risolvono niente. E poi c’è l’ironia che mi salva. Con l’ironia posso permettermi di parlare di tutto, anche di ciò che magari non comprendo fino in fondo.
Quando svanisce il velo dell’identità restano le persone. E in questa raccolta di racconti scavi spesso nella sessualità, nell’amore con personaggi che danno l’impressione di uscire dall’apnea in un mondo estraneo.
Il desiderio di essere compresi e la paura di non esserlo scaturiscono dall’insicurezza personale. Già il titolo, Dal tuo terrazzo si vede casa mia, dice dov’è rivolto lo sguardo; scendi sotto casa, attraversi la strada che la separa da quella di fronte, sali e con sufficiente distacco ti osservi e cerchi di capirti. Quando gli altri mostrano di averti compreso sei rincuorato. Sembra che ti sei trovato, almeno fino alla prossima volta in cui gli apparenti equilibri saltano ed esci di nuovo dall’apnea in un mondo estraneo. Ed è tutto da rifare.
Integrazione è una parola ambigua, quando la si associa all’immigrazione. Durante il governo Monti era stato istituito il ministero per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione della Repubblica Italiana, poi denominato solo Integrazione, ora è stato cancellato. Che cosa rappresenta il concetto di integrazione nella tua vita?
Sento di essermi veramente integrato solo quando ho rinunciato all’idea di integrazione, che equivale a un’omologazione al modo di vivere, di pensare e di comportarsi della maggioranza. Vuol dire trovati un lavoro, inserisciti nella vita e nell’apparato sociale, fai sapere agli altri di te e di ciò che fai evitando così che colmino il vuoto con idee strane. Si è integrati quando gli altri membri della comunità sanno che possono non avere paura di te e non ti guardano con sospetto.
E la condizione dell’esule?
È l’altra facciata; integrazione dovrebbe significare politiche e condizioni sociali per cui persone espatriate, di solito lasciandosi alle spalle situazioni personali o collettive difficili, possano crearsi una vita decente, inserirsi nella società, diventare suoi membri utili, senza subire discriminazioni e ingiustizie. L’attuazione di questa parola dovrebbe essere compito della politica, che però si occupa di raccogliere voti, non di risolvere i problemi, anzi ha bisogno dei problemi per coagulare il consenso.
Nel primo racconto scrivi: «Il razzismo non esiste. E siccome non ci credo, col razzismo non ho mai avuto problemi». Che cosa significa?
È semplicemente la mia esperienza. Non ho mai ritenuto che gli italiani fossero razzisti e di fatto non ho mai avuto problemi. Se invece prendessimo un mio parente, che è convinto che gli italiani siano razzisti, e ci raccontasse la sua esperienza, non potremmo che concordare con lui. Che cosa significa questo? In fondo sono un po’ idealista, poiché credo si possa cambiare il mondo anche cambiando le proprie idee su di esso.
Durante una precedente intervista hai utilizzato un’immagine significativa: l’albanese che sporca il tuo italiano scritto, arricchendo l’espressività della lingua. Ci racconti il lavoro sulla e con la lingua?
Più che un processo di ricerca sulla lingua, lo definirei come la conseguenza naturale di un percorso, in un certo senso, anomalo ma genuino. Il fatto di non essermi formato nelle aule accademiche mi permette di avere un approccio più “ingenuo” con la lingua, però anche più autentico. Sono diventato lettore quando ormai ero in Italia, dunque ho letto soprattutto in italiano e a causa di forza maggiore la lingua dello scrittore diventa quella del lettore che ci sta dietro.
E l’albanese?
Non posso annullare del tutto una lingua che ho parlato per quindici anni, la lingua con la quale ho imparato a pensare, a incazzarmi, a insultare, a lusingare. Quindi l’albanese rimane, è sotterraneo, latente, ma c’è e talvolta emerge sporcando il mio italiano. Ne deriva un italiano spurio, un po’ meticcio.
Quando sei nato, l’Albania era uno stato in paralisi: ‘Gli operai stanno per strada, senza far nulla, a sognare di andarsene in Italia, mentre lo stato sprofonda nella bancarotta‘, recitava una cronaca giornalistica del 1991. Quanta distanza hai misurato tra l’Italia immaginata dentro casa e quella incontrata?
Ti dico la verità, la mia fregatura non è stata di aver trovato un’Italia distante da come me l’ero immaginata, ma di aver trovato me stesso distante da come mi ero proiettato in Italia. Pensavo che sarei stato diverso, che le cose sarebbero state diverse, però cambiare paese non mi ha trasformato granché. Sicuramente l’Italia immaginata dentro casa era più semplice di quella incontrata. Inevitabile che fosse così, data la fonte delle informazioni, ossia la televisione.
Ti riporto un altro stralcio di cronaca del 1991 dal quotidiano La Repubblica: ‘[…] Ora che il Viale si chiama dei Martiri e che della memoria di Hoxha – statue, ritratti, lapidi – gli albanesi hanno fatto piazza pulita, il dibattito sulla destinazione del suo mausoleo ha rapidamente raggiunto una conclusione: sarà una grande discoteca, la prima vera, grande discoteca di Tirana‘. La rimozione fisica è spesso il primo atto conseguente al crollo di una dittatura come il regime Hoxha. Tu non hai affrontato direttamente l’epoca dell’isolamento totalitario, sei comunque insieme alla tua generazione dentro al processo storico di transizione. In che modo si rielabora quel che non si è vissuto, ma che ti ha segnato la vita?
Uno che se n’è andato dall’Albania, in una certa misura, elude questo processo. Rivedo le tracce di un sistema che nullificava e impoveriva materialmente e spiritualmente l’individuo, e lo sforzo delle persone di riprendersi e scrollarsi di dosso questo retaggio, nei miei genitori, nei parenti albanesi che l’hanno vissuto, o quando torno in Albania. Sono estraneo a questo processo, cioè esterno, e lo osservo con distacco e senza essere di parte.
Che cosa osservi?
Purtroppo, devo dire che gli albanesi soffrono di amnesia collettiva. Non c’è una presa di coscienza del proprio passato, l’hanno semplicemente lasciato lì, sognando l’Occidente sgargiante visto in televisione. Però così facendo il passato non è un’esperienza da cui imparare, bensì qualcosa che si continua a subire passivamente. Oggi, come durante la dittatura, molte persone aspettano che le cose succedano. Non avevano bisogno di fare o di pensare a niente, c’era il regime che faceva e pensava a tutto: ti dava un lavoro, ti dava da mangiare e ti diceva a cosa pensare. La visione di vita della mia generazione è di andare all’estero, o altrimenti aspettare che accada qualcosa. Un bel discorso il mio, non c’è che dire, peccato che a farlo sia uno che se n’è andato. Un altro che predica bene e razzola male. Ma per fortuna questo discorso è vero solo in parte, in Albania ci sono persone che cercano di cambiare le cose.
Il mondo nuovo non sembra aver mantenuto le promesse. A un quarto di secolo dalla fine delle guerre balcaniche, i tassi di emigrazione giovanile nei paesi dell’area sono tuttora altissimi.
Erano delle promesse fasulle, il mondo bello e felice visto in televisione non esiste. Bisogna dire, però, che negli ultimi tempi c’è un cambiamento di tendenza che fa pensar bene; nonostante il tasso di emigrazione giovanile rimanga alto, c’è un movimento, seppur contenuto, in senso opposto.
Quali sentimenti ti evoca l’Albania?
È un paese che, dopo l’utopia del comunismo e il caos del post comunismo, sta ritrovando la sua identità. Nonostante il disordine che c’era intorno, ho vissuto l’Albania principalmente nel periodo più spensierato della mia vita, ossia l’infanzia. Oggi sono diverso e l’Albania pure, forse siamo come due estranei che si devono conoscere, passando attraverso l’imbarazzo del non saper cosa dirsi, ma poi riusciremo a rompere il ghiaccio parlando dei vecchi tempi.