Oltre Adriatico e ritorno
Oltre Adriatico e ritorno. Percorsi antropologici tra Italia e Sudest Europa offre una rassegna della recente produzione italiana in ambito antropologico sui Balcani
Come i due curatori, Zaira Tiziana Lofranco e Antonio Maria Pusceddu, argomentano nell’introduzione, in Italia il binomio antropologia- sud-est Europa per molti anni ha stentato a decollare, nonostante l’interesse reciproco, la prossimità territoriale e gli innumerevoli rapporti tra le due sponde dell’Adriatico.
Nell’Italia post-unitaria nacquero i primi studi demologici ad etnologici anticipatori dell’antropologia, ma fu durante il fascismo che si assistette a un vero revival, sulla scorta delle strumentalizzazioni della disciplina a sostegno degli interessi imperialistici nazionali e delle teorizzazioni razziali.
L’antropologia italiana del secondo dopoguerra, rinnovatasi grazie a nuovi stimoli provenienti dal mondo anglosassone e della svolta culturalista, ha però dimostrato uno scarso interesse per il sud-est Europa, riservando invece uno sguardo attento ad altre aree, come quella sub-sahariana.
Questa progressiva marginalizzazione del sud-est Europa nelle ricerche antropologiche è alla base della discontinuità odierna nei filoni di studio; tuttavia, testimonia anche l’assenza di un ripensamento critico dell’asservimento della disciplina nel Ventennio fascista, sulla scorta di quanto avvenuto nell’etnologia africanista sotto la spinta dei processi di decolonizzazione.
Gli sconvolgimenti geopolitici degli anni ’90 e l’esistenza di flussi migratori provenienti dall’area e diretti verso l’Italia, entrambi argomenti che godettero di un’ampia copertura mediatica, hanno gettato le radici per un nuovo interesse areale, che tuttavia ha esitato nell’immediato a esprimersi nel campo etnoantropologico, anche per la mancanza di dati etnografici raccolti sul campo.
È stato con la metà del decennio successivo, quando l’attenzione mediatica italiana per l’area ha iniziato a scemare, che sono emerse le prime ricerche sul campo da parte di una generazione di giovani studiosi, che ha allargato il proprio interesse dalle tematiche più battute a ridosso del conflitto – quelle dell’"etnicità" e della violenza – a dinamiche sociali più ampie.
La riflessione dei curatori del volume investe anche l’uso degli identificativi geografici, categorie che spesso diventano esse stesse produttrici di significato, come ben dimostrato dall’ormai classica opera di Maria Todorova, Immaginando i Balcani (Argo 2002). La decisione finale verte a favore dell’uso di "sud-est Europa" piuttosto che di "Balcani", denominazione rigettata in quanto foriera di metaforizzazione negativa e aggregatrice di stereotipi.
Tuttavia, Lofranco e Pusceddu mettono in guardia il lettore su come neppure questa scelta sia esente da criticità. Il costrutto di "sud-est Europa", infatti, genericamente percepito come neutro, si basa in realtà sull’ambiguità del posizionamento del punto di vista. Si tratta, infatti, in questo caso del punto di vista della Germania su un’area ricacciata alla periferia del continente, uno sguardo che inevitabilmente crea gerarchie, a volte speculari a quelle esistenti nei rapporti politici.
Il volume spazia tra diversi approcci metodologici e copre casi studio in differenti paesi, dalla Macedonia, a Romania e Moldova, Bosnia Erzegovina, Kosovo e Albania, con un’attenzione specifica per le relazioni che li legano all’Italia.
Questa ricchezza geografica, se da una parte testimonia la vivacità della produzione antropologica legata al sud-est Europa nell’ultimo quindicennio e l’estrema mobilità della nuova generazione di studiosi, formatisi grazie a lunghi soggiorni di ricerca e numerosi contatti con istituzioni estere, dall’altra è segno della stessa frammentazione della disciplina e della mancanza di una tradizione consolidata.
La mobilità è una delle chiavi di lettura che sottostà all’analisi dei flussi migratori e turistici, e alla presenza di attori internazionali nei processi di delocalizzazione che coinvolgono aziende italiane e attori della cooperazione internazionale. Rapporti transnazionali che influenzano la creazione di immagini dell’alterità, sia in Italia che nei paesi dell’area, e la costruzione della memoria storica.
Alla Macedonia post-socialista è dedicato il contributo di Bela Belojevikj e Fabio Mattioli, incentrato sulla nozione strutturale di crisi (crisiscape) nella cornice di un’eterna transizione, una chiave di lettura per analizzare una serie di relazioni (dai contatti personali, al ruolo del partito-stato, al monopolio mediatico) che si instaurano per offrire soluzioni alle falle del sistema ma che finiscono per perpetuarne l’impianto.
Veronica Redini si occupa di delocalizzazione, un processo alla ricerca continua di mercati del lavoro dove il margine di profitto imprenditoriale sia maggiore. L’autrice illustra come di frequente le dinamiche della mobilità degli individui e delle merci agiscano in contrapposizione reciproca, con i maggiori margini di guadagno nei paesi all’interno dei quali le merci sono libere di spostarsi ma non le persone di emigrare; nei territori invece caratterizzati da forti fenomeni migratori e dal conseguente spopolamento, si assiste a un aumento del potere negoziale della manodopera rimasta, soggetta, tuttavia, alla minaccia di un’ulteriore delocalizzazione.
Sergio Contu intraprende l’analisi di una "nicchia migratoria", quella dei cittadini romeni impiegati in Sardegna nel comparto dell’allevamento, utilizzata come porta d’ingresso in un mondo di mobilità transnazionale circolatoria in cui il viaggio – in autobus o furgone – rappresenta una fase di mediazione tra i migranti stessi e le società di origine e di emigrazione. La mobilità è in questo caso resa possibile da figure ibride, a metà tra il migrante e l’autotrasportatore, che incarnano emblematicamente il paradigma transnazionale.
Federica Tarabusi analizza la costruzione delle immagini reciproche come conseguenza dell’incontro tra gli attori della cooperazione internazionale e le comunità locali in Bosnia Erzegovina, dove la politica è un universo svalutato che influisce profondamente sui sistemi valoriali del cittadino nei confronti dello stato; emergono spinte e sguardi contrastanti, stereotipi e costruzioni narrative all’interno delle quali l’etnologo stesso viene spesso ingabbiato.
Francesco Vietti offre un affresco del turismo della memoria in Kosovo praticato da attori locali: da una parte il turismo delle radici della diaspora kosovara albanese, che frequenta i nuovi luoghi della memoria creati per sacralizzare i combattenti dell’Uck; dall’altra i pellegrinaggi organizzati dalla Chiesa ortodossa nei luoghi considerati culla della civiltà serba. Due narrazioni contrapposte che trovano un riferimento fondante, la prima nel presente del Kosovo indipendente, la seconda nel passato del Kosovo pre-ottomano.
Il contributo di Andrea F. Ravenda, con cui si chiude il volume, affronta il tema della memoria del naufragio della nave Katër i Radës, affondata con il suo carico di migranti albanesi, di fronte alle coste pugliesi nel 1997, dopo una collisione con una nave della Marina militare italiane. L’opera d’arte L’approdo, installata ad Otranto, offre un primo tentativo di memorializzazione, oscillante tra una volontà di offrire sepoltura ai morti del naufragio e un messaggio di accoglienza universale, una scelta non esente da polemiche.
Nel tentativo di offrire una panoramica delle ricerche in corso in Italia o da parte di antropologi italiani, il volume offre spunti molteplici anche a un pubblico non specialista, che ripagano della sua mancanza di organicità, conseguenza diretta dello stato dell’arte.
In particolare l’insistenza critica sul posizionamento dell’osservatore rispetto all’oggetto di studio può risultare molto utile in ambiti – come quelli del giornalismo, della cooperazione o dell’accademia – nei quali sono sempre auspicabili riflessioni volte a problematizzare il punto di osservazione.