La retorica del conflitto
Quando purtroppo sulla stampa italiana la retorica bellica che ha caratterizzato la dissoluzione violenta della Jugoslavia trova ancora spazio. Un commento
Leggo sull’inserto settimanale di Repubblica “Il venerdì” del 19 gennaio un commento di Filippo Di Giacomo, nella rubrica Cronache celesti. Il titolo del commento è “La Bosnia Erzegovina e la pessima lezione del tribunale dell’Aja”, titolo perentorio che ha catturato la mia attenzione. Mi metto a leggere immaginando che il prete giornalista abbia argomentazioni forti per attribuire un giudizio del genere al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPI). Nel leggere il pezzo però non le trovo, anzi vi vengono snocciolate con nonchalance falsità e vizi di forma.
Purtroppo più volte nel testo si ricorre ad una retorica che proprio alla Bosnia Erzegovina non ha mai fatto del bene, e che ricorda molto da vicino quella bellica degli anni ‘90.
Così scrive Di Giacomo: “In questi anni la corte penale internazionale dell’Aja ha condannato diversi genocidari cristiani, serbi e croati, ma ha lasciato impuniti e non perseguiti gli islamici. Anzi: tutelati dalla Turchia e dai Paesi arabi e finanziati dagli aiuti dell’Unione europea, criminali di guerra musulmani sono stati protetti, beneficiati e cooptati per alte cariche politiche. Hanno tutto in mano ma ciò che distribuiscono è corruzione, traffici illeciti e persecuzioni anticristiane”.
Non si può non notare che Di Giacomo usa una terminologia alquanto curiosa per definire gli imputati del tribunale dell’Aja, “cristiani” e “islamici”. Forse gli è sfuggito che la nazionalità di quelli che lui definisce sommariamente “islamici” è bosgnacchi e che non tutti sono di fede musulmana; forse ricorda che ai tempi di Tito i bosgnacchi venivano definiti Musulmani (con la M maiuscola appunto) ma mai nessuno li ha chiamati islamici. Sul fatto poi che i criminali di guerra musulmani controllino oggi tutto il paese Di Giacomo dovrebbe sapere, visto che cita gli Accordi di Dayton, che il potere politico in Bosnia Erzegovina viene oggi spartito tra i tre popoli costitutivi (serbi, croati e bosgnacchi) riconosciuti nella costituzione che altro non è se non l’Annesso IV a quegli accordi. Difficile dunque sostenere che la piaga della corruzione, del malaffare e della mancata possibilità di ritornare nelle proprie case per chi ha subito le operazioni di pulizia etnica durante il conflitto, possano essere imputate a una sola parte di quella classe politica.
Cosa vuole dire in realtà Di Giacomo? Qual è il suo intento nello scrivere quello che ha scritto? Di chi sta parlando? Nel commento non è citato un nome che sia uno e le perentorie affermazioni non vengono circostanziate in alcun modo.
Un altro fatto da far notare a Di Giacomo è che sui 161 imputati dal TPI, 94 sono serbi, 29 croati, 9 albanesi, 9 bosgnacchi 2 macedoni e 2 montenegrini. Di questi sono stati condannati 62 serbi, 18 croati, 5 bosgnacchi, 2 montenegrini, 1 macedone e 1 albanese.
Quindi 1) non è vero che non ci sono stati bosgnacchi condannati 2) non si parla mai nelle cronache del Tribunale e in nessun documento ad esso collegato di “islamici”, né tanto meno si tira in ballo la confessione religiosa degli imputati. Slobodan Praljak per esempio era cattolico? Se fosse stato un vero cattolico non si sarebbe suicidato, tanto più con quel gesto plateale in diretta televisiva.
Per Di Giacomo però un croato è un cattolico, non ci si scappa. Lo precisa anche quando, criticando gli Accordi di Dayton scrive: “Il fittizio accordo di pace oltre a non portare né diritto né giustizia, sta permettendo e tollerando una vera e propria pulizia etnica in centinaia di villaggi croati (cattolici) nella parte nord-ovest della Bosnia Erzegovina”.
Anche in questo caso non viene citato alcun caso concreto a dimostrazione di quello che sta sostenendo. Ci occupiamo di questi paesi da ormai quasi un ventennio, ci saremmo accorti se vi fossero stati casi di “vera e propria pulizia etnica in centinaia di villaggi croati (cattolici) nella parte nord-ovest della Bosnia Erzegovina” avvenuti successivamente alla firma degli accordi di pace.
Ora, se Di Giacomo aveva intenzione di criticare l’operato del Tribunale forse ha impostato male il suo pezzo. Anche noi di OBCT abbiamo criticato e analizzato l’operato del TPI, ma lo abbiamo fatto con un dibattito tra esperti, con interviste a docenti, giudici e procuratori, con analisi e fatti. La nostra conclusione è che il TPI ha commesso molti []i ma che non si può gettare via il bambino con l’acqua sporca. Il TPI ha avuto il merito di raccogliere una mole notevole di documenti, di scrivere pagine di storia, processare un numero incredibile di dati e fatti e questa è una grande eredità che spetterà alle generazioni future mettere a frutto. È stato uno dei rari casi di applicazione della giustizia internazionale in casi di crimini di guerra, utilizzando un sistema giuridico misto. Qualcosa che non ha avuto precedenti. La storia di una corte penale internazionale per crimini di guerra è ancora tutta da scrivere.
Dire che il TPI “Per 25 anni ha avuto il solo scopo di fornire alibi giuridicamente ipocriti a tutti gli []i commessi in virtù di quell’accordo di Dayton, con il quale il 21 novembre 1995, si è fatto credere che la guerra civile in Bosnia Erzegovina fosse conclusa”, non solo non è formalmente corretto ma anche tendenzioso. Mentre è più che auspicabile una critica costruttiva, e onesta, all’operato del Tribunale, tacciare la corte di fallimento mette a rischio il valore e il rispetto delle sentenze emesse finora. Erode la credibilità di un’istituzione che, pur essendosi senza dubbio macchiata di []i e parzialità, ha contribuito ad accertare fatti e individuare responsabilità individuali – perché si processano gli individui, e non i popoli – di criminali come Mladić, Karadžić, Kordić. Negare la validità di queste sentenze è quantomeno irrispettoso verso le vittime.
La retorica di Di Giacomo non aiuta quindi a limitare le ostilità e le difficoltà relative alla convivenza post bellica, non aiuta a costruire quella pace che tutti noi dovremmo desiderare e perseguire. Come suggerito anche da Eric Gordy, che da anni studia da vicino le società dello spazio post-jugoslavo e gli sviluppi della giustizia di transizione, se proprio si devono tirare le somme sull’operato del Tribunale avrebbe più senso chiedersi come sarebbero andate le cose se il TPI non fosse mai esistito, invece che demolirne l’operato. Perché questo è lo scenario alternativo: una giustizia perseguita solo dalle corti nazionali, sarebbe stata più parziale e divisiva di quanto fatto all’Aja.