Siria-Turchia: la guerra di Afrin

Con l’operazione militare "Ramo d’ulivo" la Turchia cerca di sottrarre l’enclave di Afrin, in Siria settentrionale, al controllo delle milizie curde. Una mossa che ha potenziali forti ricadute sia sul piano interno che internazionale

01/02/2018, Dimitri Bettoni - Istanbul

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Guerra in Siria - Wikimedia

La guerra scoppiata nel cantone di Afrin, nel nord della Siria, non rappresenta solamente la battaglia per l’acquisizione di un territorio conteso. È il risultato di mesi di scontro ideologico tra la Turchia e i suoi alleati occidentali, nonché della precaria – e spesso incoerente – strategia turca nella guerra in Siria. Il tutto con un occhio puntato alle cruciali elezioni del 2019, con presidenziali, politiche ed amministrative in un’unica tornata.

Il conflitto era in preparazione da mesi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il piano di creazione di una forza di confine di 30mila uomini nei territori che gli Stati Uniti controllano in alleanza con le forze militari delle Sdf, le milizie create sotto l’egida americana per la campagna siriana e composte per la maggior parte dalle Ypg/Ypj, le Unità di protezione popolare nate dalla resistenza curda all’aggressione dello Stato islamico (Is). La riorganizzazione delle forze sul campo nasce dall’esigenza di destinare al controllo del territorio parte degli uomini sino ad oggi impegnati nella lotta al moribondo Stato Islamico. I principali obiettivi americani: prevenire la fuga di ex miliziani dell’Is dalla Siria – soprattutto attraverso la Turchia – e consolidare le posizioni curde e la traballante influenza USA nella regione.

Un’idea che però ha provocato l’ira di Ankara, che da sempre mal digerisce l’alleanza tra Usa e Pyd/Ypg, rispettivamente partito e milizie armate dei curdi siriani, entrambi accusati di collusione con il Pkk, considerato organizzazione t[]istica da Turchia, Usa e Unione europea. A più riprese Erdoğan ha indicato che Afrin sarà soltanto il primo obiettivo, a cui seguirà l’area di Manbij e tutto il confine turco-siriano fino al territorio iracheno. Ankara ha intimato agli americani di abbandonare Manbij, incassando però un netto rifiuto: è così svanita la speranza turca che alla caduta dell’Is corrispondesse la fine della collaborazione tra USA e Ypg. Da qui la decisione di mettere in moto la macchina militare turca e dichiarare una “guerra al t[]ismo”, un tentativo di riguadagnare attraverso la forza ciò che la diplomazia non ha saputo conquistare.

Guerra al t[]ismo?

Leggere la guerra di Afrin come una gigantesca operazione antit[]ismo è però limitante, se non errato. Negli ultimi mesi del 2017, l’opposizione turca ai progetti d’indipendenza del Kurdistan iracheno ha reso evidente come la questione non risieda soltanto nell’abissale differenza ideologica tra governo turco, islamista e conservatore, e curdi siriani, fautori del “confederalismo democratico” elaborato dal leader del Pkk Abdullah Öcalan. I Barzani, leader del Kurdistan iracheno e alleati della Turchia, rappresentano ad esempio lo schieramento ideologicamente opposto al Pkk: eppure ciò non ha risparmiato l’attacco frontale di Ankara al progetto d’indipendenza della regione.

La posizione turca rispetto a qualsiasi realizzazione politica curda, in patria o nei paesi vicini, affonda le sue radici nelle paure, ai limiti dell’ossessione, ereditate dalla Prima guerra mondiale e dalla caduta dell’Impero ottomano. Queste vedono la repubblica di Turchia in perenne pericolo di smembramento da parte di malevole entità straniere, come accaduto all’impero dei sultani. Paure che invece sono state costantemente alimentate dalla retorica etnico-nazionalistica che ha dominato la scena politica turca fin dalla sua fondazione.

È in questo contesto che si devono leggere gli eventi di un conflitto su cui il portavoce del parlamento turco, Ismail Kahraman, non ha esitato ad invocare una jihad, il dovere islamico di lotta.

Schieramenti sul terreno e vittime

Ankara guida un esercito di miliziani stimato in circa 5-7 mila unità che si è attribuito, in parte indebitamente, il nome di Esercito libero siriano, rivendicato anche da altri schieramenti in Siria.

Queste milizie, generalmente indicate come Esercito libero siriano guidato dalla Turchia (Tfsa), sono composte da numerose fazioni: alcune di stampo jihadista salafita come il Fronte del Levante, altre legate al nazionalismo panturco come la brigata Sultano Murat siro-turkmena. Il Tfsa è sostenuto da due brigate delle forze speciali turche guidate dal generale Metin Temel, nonché dall’aviazione, dalla marina e da reparti corazzati turchi.

Sull’altro fronte troviamo le Sdf, formazione sostenuta dagli americani. Stimata in circa 10-15mila unità, è composta principalmente dalle Ypg/Ypj, le unità di protezione popolare curde, ma anche da schieramenti siriaci, arabi, turkmeni, insieme a volontari internazionali.

L’obiettivo dell’operazione Ramo d’ulivo, nome ironico e macabro, è ufficialmente quello di sottrarre il controllo della regione di Afrin alle Sdf ed istituire una fascia di sicurezza lungo il confine turco-siriano.

Sul numero delle vittime dei combattimenti si è scatenata una feroce lotta mediatica. Ad oggi la Turchia rivendica oltre 600 “t[]isti” eliminati, piange circa 20 “martiri” (sette turchi) e nega con forza ogni vittima civile. Le autorità di Afrin contano circa 350 nemici uccisi e non rilasciano dati sui propri caduti. Una terza fonte, l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), ha stilato un rapporto che conta circa 150 caduti di entrambe le forze combattenti e 50-60 civili rimasti uccisi.

Nonostante Erdoğan abbia annunciato che le operazioni avviate saranno rapide e vittoriose, il conflitto potrebbe trascinarsi ben oltre l’agosto prossimo, pianificato dagli strateghi turchi come termine del conflitto.

Sulla via di Sochi

Non è un caso che Afrin sia stata attaccata a pochi giorni dall’avvio dei colloqui di Sochi, nella Russia meridionale. Lanciati da Mosca, sono presentati dal Cremlino come un forum più realistico rispetto agli incontri di Ginevra (a guida ONU), dove ad esempio ancora si chiede l’allontanamento del presidente Assad dal potere. La Turchia si è strenuamente opposta alla partecipazione del Pyd ai colloqui, ma parte della rappresentanza curda, quella più aperta alle proposte russe e alla riconciliazione con Assad, ha avuto accesso dalla porta di servizio, come confermato dalla portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova. Gli sforzi bellici in Siria si riflettono quindi sul tavolo negoziale di Sochi.

Mosca ha il sostanziale controllo dei cieli siriani ed è evidente che l’operazione su Afrin è cominciata con il benestare di Putin. Già in precedenza, con l’operazione Scudo dell’Eufrate, Tfsa e esercito turco (Tsk) avevano scacciato l’Is dall’area di Jarablus-Al-Bab e contemporaneamente frantumato il sogno curdo di ricongiungimento dei cantoni di Kobane e Afrin.

La Russia vede l’operazione di Afrin come il cuneo che aprirà ancor di più la spaccatura tra Turchia e Usa, alleati Nato. Al tempo stesso, le consente di esercitare pressione sui curdi – con cui continua a tenere aperti i canali di comunicazione – affinché accettino le condizioni del governo centrale, e sulla Turchia, affinché limiti la sua azione di sostegno alla ribellione anti-Assad dando priorità allo spauracchio del separatismo curdo.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan potrebbe dover decidere in fretta se mettere da parte la sua antipatia per Assad, ancora di recente definito un “t[]ista”, e trovare un compromesso con Damasco in chiave anti-curda, in modo non dissimile da quanto avvenuto tempo fa tra Ankara e Baghdad.

Damasco diffida però di Erdoğan e ne teme le ambizioni territoriali, visto che oggi la Turchia controlla direttamente alcuni governatorati nel nord della Siria. Se espandesse il proprio raggio d’azione ad Afrin e Idlib, Ankara avrebbe sotto il suo controllo una porzione consistente di territori nel nord della Siria. La presidenza turca si è però affrettata a negare ogni interesse di annessione e a puntare il dito unicamente contro il t[]ismo. L’idea di un’annessione turca, considerata l’ostilità che susciterebbe nella comunità internazionale, appare oggi improbabile, ma rappresenterebbe una potente leva al tavolo dei negoziati.

Il Pyd persegue intanto una politica estremamente pragmatica, cosciente che ciascuna delle potenze in gioco è pronta a sfruttare la sua presenza militare e territoriale per i propri scopi. L’obiettivo primario per i curdi resta la creazione di un’entità federale nel nord della Siria: obiettivo che rappresenta però il peggiore degli incubi per la Turchia, che quando sente parlare di federalismo o partizione – in Siria o in Iraq – pensa subito alla partizione del proprio stato.

Le conseguenze della guerra

L’avventurismo militare turco ha conseguenze immediate sul piano umanitario e dei diritti civili. Il cantone di Afrin era una delle poche regioni siriane risparmiate dalla guerra, tanto che vi avevano trovato rifugio circa 200mila sfollati. Oggi 400mila persone si trovano coinvolte in una guerra che per sette anni li aveva soltanto sfiorati.

In Turchia intanto 331 persone sono state fermate per "propaganda t[]istica”, colpevoli di aver pubblicato su internet o aver manifestato in strada il proprio sostegno ad Afrin o la propria contrarietà alla guerra. Tra questi figurano politici, attivisti, giornalisti, studenti e persino pensionati. Ultima vittima l’Associazione dei medici turchi (Tbb), colpevole di aver rilasciato un comunicato in favore della pace e accusati da Erdoğan di essere “amanti del t[]ismo”. Per 11 membri, inclusa la dirigenza, è scattato l’arresto.

Il 21 gennaio scorso il primo ministro Benali Yıldırım ha radunato gli editori dei principali media del paese per istruirli su come trattare “in modo patriottico” le notizie di guerra. Reporter senza Frontiere ha denunciato immediatamente come “le direttive mirino a fare dei media turchi il megafono del governo e dei suoi obiettivi bellici”.

L’adorazione dell’esercito, che in Turchia rappresenta ancora oggi un’istituzione sacra agli occhi del cittadino medio, ha generato un clima di consenso generale all’operazione di Afrin. Nel parlamento due partiti d’opposizione, quello repubblicano (Chp) e quello nazionalista (Mhp), hanno dato pieno sostegno alla causa militare. Il governo ha incassato persino il sostegno dai patriarcati ortodosso e armeno, segno di quanto i confini politici e sociali siano in Turchia effimeri, ma anche di quanto forte sia la pressione dall’alto.

Nell’occhio del ciclone è finito ancora una volta il partito d’opposizione Hdp, che non poteva esimersi dal condannare la belligeranza del governo. Numerosi parlamentari sono stati denunciati o fermati dalla polizia, mentre le sedi locali vengono vandalizzate come accaduto alla sede di Pendik, a Istanbul, data alle fiamme.

A gettare benzina sul fuoco le parole di Erdoğan, che ha sostenuto il carattere prettamente arabo di Afrin: “Afrin è per il 55% araba, per il 35% di curdi qui trasferitisi, per il 7% turkmena. Vogliamo restituire Afrin ai legittimi proprietari”, ha dichiarato il presidente turco. Osman Baydemir, parlamentare Hdp, ha sostenuto che il governo di Ankara vuole “de-curdificare la regione”, in modo non dissimile da quanto il partito siriano Baath aveva tentato di fare negli anni ’70.

Per Ankara Afrin rappresenta l’ideale e naturale destinazione di una parte dei 3,5 milioni di rifugiati siriani oggi ospitati sul suolo turco. Per alcuni commentatori d’opposizione quest’operazione non ha nulla di umanitario, ma mira ad eliminare l’irrequietezza etnica, politica e sociale contro il governo con tecniche già in voga durante l’Impero ottomano. Le vittime di sette anni di campagne belliche vengono così coinvolte, loro malgrado, in una nuova tragedia nella tragedia.

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