Georgia, il paese che Dio voleva per sé
Un libro che è un viaggio nel tempo e nello spazio per portare alla luce i tesori e le bellezze della Georgia. Un’intervista all’autore Francesco Trecci
Una delle prime cose che traspaiono da questo libro è la grande ospitalità georgiana. Come lei ci racconta, la Georgia è da sempre un paese aperto, ospitale e un rifugio per minoranze perseguitate. Potrebbe parlaci meglio di questa caratteristica ospitalità?
La cosa che mi ha fatto innamorare follemente di questa terra è proprio l’ospitalità. Quasi vent’anni fa lessi un articolo sulla Georgia dove si diceva che in questo paese avreste trovato sempre un georgiano pronto ad aiutarvi. Ed è proprio vero, i georgiani non ti fanno mai sentire solo. Ti accolgono come un figlio, ti coccolano con un sentimento talmente profondo che fa commuovere.
Ho viaggiato in tanti paesi in Europa, ma mai ho trovato una nazione dove il concetto dell’amicizia è così forte e sincero. Questa “voglia” di accogliere i forestieri la si riscontra anche nella grande tolleranza per fedi e vissuti diversi. A Tbilisi come nelle altre città convivono pacificamente in pochi ettari ebrei, cristiani ortodossi, cattolici e islamici. La Georgia ha una storia millenaria con una forte identità culturale e linguistica ma non ha paura di confrontarsi e di convivere con culture differenti.
Come si evince dal suo libro, alcuni dei punti di contatto tra Georgia e Italia sono la buona tavola e il buon vino. Quali altri ne citerebbe?
Si, tra i nostri popoli c’è grande affinità. Io ho ritrovato la stessa cordialità, convivialità e voglia di vivere. E poi l’amore per la musica e per il calcio. Anche il clima e il paesaggio con i cipressi mi ricorda la mia Toscana.
Anche in Georgia è sempre più presente il fenomeno della migrazione verso le grandi città, soprattutto per quanto riguarda i giovani che non vogliono più lavorare nell’agricoltura e nella pastorizia. Il Villaggio di Muskhi, di cui lei parla nel suo libro, ne è un esempio. Ci sono, però, dei tentativi di recuperare la tradizione. Come ha sentito questa problematica?
L’evoluzione mondiale dell’economia ha portato in tutti i paesi, da decenni, ad una fuga verso le città. L’agricoltura spesso, purtroppo, non riesce a dare reddito sufficiente per poter vivere. Le località remote sono anche lontane dalle università pertanto è normale che soprattutto le giovani generazioni cerchino altri sbocchi. Però in Georgia io ho sempre notato un grandissimo legame con le proprie origini. Anche se si vive a Tbilisi si porta nel cuore il villaggio natio. Fortissimo è anche l’attaccamento ai canti, ai balli e a tutta la tradizione locale che non è vissuta come una “cosa” per il turista bensì come un elemento identitario vivo.
Qual è il luogo della Georgia che, durante i suoi viaggi, più l’ha segnata, o quello che le sta più a cuore?
Amo talmente tanto questo paese che mi è difficile scegliere un luogo di predilezione, comunque senza dubbio porto nel cuore il Viale Rustaveli di Tbilisi, la cattedrale di Alaverdi, Gremi, Bodbe (dove è sepolta Santa Nino), Jvari, Uplistsikhe, Bagrati, la campagna di Guria e il lungomare di Batumi.
A Tbilisi vive una piccola comunità italiana. Potrebbe raccontarci di più a questo proposito?
Quando andai per la prima volta a Tbilisi nel luglio 2003 l’allora Ambasciatore Fabrizio Romano mi disse che in tutta la Georgia vivevano soltanto 56 italiani. Da allora molto è cambiato ed adesso nel paese vivono molti italiani. Nel libro ho intervistato alcuni di loro. Mi hanno colpito le loro storie. Sono diverse l’una dall’altra ma hanno un punto in comune: a Tbilisi questi ragazzi sono stati in grado di esaudire quei sogni e progetti che l’Italia aveva negato loro.