Romania: ammalarsi d’ospedale
I rumeni hanno paura a recarsi in ospedale e non senza ragione: si può entrare con una banale febbre ed uscire con un’infezione mortale. Un’inchiesta
(Originariamente pubblicato da Le Courrier des Balkans il 6 marzo 2018)
Gennaio 2018, ospedale di Sibiu: Adolf e Alexandra Lichtenstein hanno appena perso il figlio di tredici giorni. “Aveva la febbre, rifiutava il cibo, aveva la dissenteria e allora siamo andati all’ospedale”, spiega il padre al microfono della tv Digi24. “Gli infermieri hanno iniziato ad insultarci e ad affermare di disturbarli per una banale febbre. L’ospedale è in uno stato disastroso: sporcizia, vecchie coperte, il bimbo è stato messo in un letto di metallo arrugginito”. L’autopsia rivelerà più tardi la causa del decesso: una meningite di origine batterica non rilevata dagli esami effettuati e il batterio E-coli ESBL, una specie multiresistente contratta alla nascita.
Nello stesso momento, all’ospedale Sfântul Pantelimon di Bucarest, anche Nicoleta Radu perdeva il figlio, nato con parto cesareo, ucciso da un altro batterio multi-resistente di tipo Klebsiella. Secondo i medici le sarebbe stato trasmesso dalla madre ma Nicoleta non ci crede. “Sono stata seguita per tutta la gravidanza e tutto andava bene”, spiega, convinta che il figlio abbia contratto il batterio nell’ospedale Sfântul Pantelimon. Un ospedale che sarebbe “conosciuto per ospitare il batterio Klebsiela” afferma Vasile Barbu, presidente dell’Associazione nazionale dei pazienti. “Dopo la morte di mio figlio sono arrivati dei dottori ed hanno disinfettato tutto e preso dei campioni. Eravamo tutti scioccati. Sembrava cercassero di nascondere qualche cosa”, racconta Nicoleta.
Quello che “cercavano di nascondere” è senza dubbio l’ampiezza delle infezioni contratte negli ospedali della Romania. I batteri sono organismi viventi che negli ospedali subiscono forti pressioni selettive come conseguenza dell’utilizzo massiccio di disinfettanti e antibiotici. Le specie più deboli muoiono ma le più resistenti sopravvivono, mutano e si propagano. E divengono più pericolose. Un batterio viene chiamato multi-resistente quando resiste a più famiglie di antibiotici. È per non accelerare questo processo di selezione naturale dei batteri che in Francia si pubblicizza lo slogan “L’antibiotico, non è automatico”. In effetti la multi-resistenza può portare all’impasse terapeutica. I ricercatori temono infatti la nascita di “supergermi”, microorganismi resistenti ai medicinali conosciuti e potenzialmente devastanti, che potrebbero quindi causare terribili epidemie.
La tragedia del Colectiv
Ogni anno quasi quattro milioni di rumeni entrano in ospedale ed è proprio a seguito dei ricoveri ospedalieri che si propaga questo tipo di infezioni. Elena Copaciu è professoressa presso l’Università di medicina Carol Davila. Ci riceve tra due visite ambulatoriali che effettua presso una clinica privata dove lavora. È stata in passato capo-anestesista dell’unità di cure intensive dell’Ospedale universitario di Bucarest. “Gli epidemiologi controllano la situazione da più di vent’anni ed hanno visto i germi divenire sempre più resistenti. L’Oms ha redatto una lista dei batteri multi-resistenti più pericolosi e purtroppo noi, nel nostro quotidiano, ne incontriamo parecchi”, afferma. Una minaccia molto seria per la Romania che quindi “deve assolutamente partecipare allo sforzo mondiale per limitare la propagazione di queste specie”.
È con la tragedia del Colectiv, nel 2015 e con lo “scandalo Hexipharma” che ne è seguito che la questione è arrivata alla luce del giorno. I neonati e le persone anziane sono i più vulnerabili, ma chi ha subito ustioni lo è ancora di più: le ustioni permettono ai batteri di entrare nel corpo umano. Tra i 65 morti dell’incendio nella discoteca di Bucarest, il 31 ottobre del 2015, più della metà sono decedute all’ospedale non a seguito delle ferite ma per infezioni contratte proprio durante il ricovero.
È evidente che molte altre persone morivano negli ospedali rumeni anche prima di questa tragedia ma nessuno sembrava accorgersene. Da qualche anno l’Unità di cure intensive (ICU) per le bruciature e la chirurgia plastica dell’ospedale Arşi a Bucarest sembra a volte, secondo le parole di Comelia Roiu, dottoressa anestesista “una valle della morte”. “Sapete qual è il tasso di mortalità all’ICU?” Ha chiesto una volta al direttore generale dell’ospedale, attualmente ancora in carica. “Sì, del 90%”. “E vi lascia indifferente?”. Quest’ultimo avrebbe alzato le spalle e se ne sarebbe andato senza rispondere. Un segno di disinteresse, abbandono o sconfitta?
Mentre i feriti del Colectiv, sopravvissuti all’incendio, morivano in ospedale, il ministro della Salute dell’epoca, Nicolae Bănicioiu (Partito socialdemocratico) assicurava che gli ospedali rumeni possedevano “tutto quanto era necessario” ed offrivano condizioni sanitarie “simili a quelle della Germania”. Alcuni giornalisti rumeni allora hanno cercato di comprendere meglio la situazione. Ed è scoppiato uno scandalo sanitario: l’affare “Hexipharma” prende il nome dal produttore di prodotti per l’igiene che vendeva agli ospedali disinfettanti diluiti con l’acqua. Tra il 2010 e il 2016 la Hexipharma avrebbe “indotto all’[]e” 340 ospedali sui 554 del paese. In Romania sono i direttori d’ospedale che firmano i contratti d’acquisto e non vi è alcuna autorità indipendente che controlla i prodotti utilizzati.
Hexipharma non è la sola azienda coinvolta e molte altre si sarebbero infilate nel vuoto di controllo da parte delle autorità statali. Una settimana dopo la pubblicazione del primo articolo sulla frode di Hexipharma, è stata aperta un’inchiesta giudiziaria su Dan Condrea, proprietario dell’azienda. Tre settimane più tardi, il 26 maggio del 2016, quest’ultimo è morto in un incidente stradale. Il processo Hexipharma è tutt’ora in corso.
Dati falsati
Ma in questo scandalo legato alla corruzione, è tutto il sistema che viene tirato in causa. Dopo il Colectiv, le autorità hanno finalmente avviato controlli negli ospedali di Bucarest: secondo queste indagini meno dell’1% dei pazienti ospedalizzati erano portatori di uno o più batteri all’uscita dall’ospedale. Un risultato sorprendente dato che la media europea è del 5,7%. E allora in Romania qual è la cifra vera: 10, 15, 20%? Di più? “Impossibile saperlo perché i dati ufficiali sono falsi, il fenomeno è largamente sotto-stimato”, continua Elena Copaciu. “si riporta ciò che abbiamo trovato e non ciò che non abbiamo trovato”, si difende Adina Enescu, direttrice medica dell’ospedale di Pitești. Dicendolo in altro modo: perlomeno si chiudono gli occhi, se non si camuffa consapevolmente il problema.
Camelia Roiu rifiuta questa politica dello struzzo. Dopo aver allertato il suo direttore medico ha informato della questione anche la direttrice dell’ospedale che le ha risposto che non era un suo problema. Dopo aver seguito tutte le strade interne si è quindi rivolta alla stampa ed è divenuta una whistleblower. Nel dicembre 2015 ha contattato il giornalista Cătălin Tolontan, autore dell’inchiesta su Hexipharma. Ora è stanca da anni di lotta ed è recalcitrante nell’incontrare giornalisti. Camelia Roiu ha anche provato, qualche anno fa, di partire per lavorare in Francia ma vi ha trovato un’accoglienza “fredda” e non se l’è sentita di proseguire con quello sradicamento. È resistita un mese ed è poi rientrata in Romania dove ha continuato nel suo posto di anestesista presso l’Unità di cure intensive dell’Ospedale Arşi.
Da anni Camelia Roiu denuncia l’indolenza, la disumanizzazione e la mancanza di professionalità dei medici che non rispettano sistematicamente i protocolli di igiene di base come quello di lavarsi le mani prima di toccare i pazienti o di portare la mascherina. “Siamo noi, i medici, i primi colpevoli. Molti la pensano come me ma sono dei vigliacchi, seguono i loro interessi, dicono che tengono famiglia, figli da crescere e che hanno bisogno del loro lavoro. Sono abituati al compromesso, alle piccole bustarelle… Preferiscono mantenere lo status quo, non vogliono cambiamenti, non vogliono scandali. Che i malati muoiano o sopravvivano, se ne fregano”.
Si trattava di un caso molto particolare, ma come è potuto accadere? “Le mosche – spiega Camelia Roiu – entrano dalle finestre, si posano sui pazienti e depongono loro uova dopo aver messo le zampe dappertutto”. Possono entrare dalla finestra o dai sistemi di ventilazione. L’ospedale Arşi è stato costruito cent’anni fa. Numerosi altri ospedali del paese hanno almeno 60 o 70 anni. Nessun ospedale nuovo è stato costruito dalla caduta del comunismo nel 1989, ci si è limitati a ristrutturare. Nel 2017 il budget dedicato al settore sanitario rappresentava il 4,6% del Pil rumeno, corrispondente a 7,7 miliardi di euro.
Rispetto alle infezioni ospedaliere i prodotti disinfettanti sono poco efficaci perché i batteri sono ovunque: nei muri, nei sistemi di areazione. Servirebbe ricostruire questi edifici dal nuovo. “È una lotta eterna, una lotta per la sopravvivenza, non si deve lasciar perdere, altrimenti potrebbe accaderci qualcosa di veramente grave”, sottolinea Elena Copaciu. Si riferisce al giorno in cui questi super-germi usciranno dagli ospedali, divenendo fuori controllo e diffondendosi tra la popolazione.
Un sistema che non s’interessa dei singoli
Secondo la legislazione rumena segnalare infezioni ospedaliere è compito del medico responsabile del reparto in cui si sono verificate, poi del direttore sanitario ed infine del direttore dell’ospedale. Ecco perché i medici e i direttori degli ospedali sono “reticenti a riportare la corretta situazione” e perché nessuno conosce dati effettivi relativamente alle infezioni ospedaliere in Romania: temono di essere coinvolti in un procedimento giudiziario. “Fin tanto che la legge continuerà ad essere così il fenomeno sarà sottostimato”, afferma Elena Copaciu.
Di fatto un sistema che non s’interessa del destino dei singoli. Il ministero della Sanità Sorina Pintea (Socialdemocratici) ha recentemente denunciato “l’indolenza e la pigrizia” dei medici ed ha promesso che dopo l’aumento dei loro salari saranno sottomessi a valutazioni più severe. Cosa promessa, cosa dovuta: a fine febbraio il governo ha aumentato il salario dei medici di circa 1000 euro. “Con questo aumento ci si aspetta servizi medici di migliore qualità ma se le strutture nelle quali lavoriamo non offrono buone condizioni, non sarà possibile”, chiarisce Victor Eşanu, presidente della Federazione dei sindacati dei medici della Romania. Rimane pertanto ancora più vantaggioso emigrare per esercitare all’estero, guadagnando di più e non dovendo condividere le responsabilità di un sistema che sta affondando. Ogni anno 3000 nuovi medici arrivano sul mercato del lavoro e 3500 lasciano il paese.
“Il ministero della Salute non coordina gli sforzi, i vari progetti non hanno sostenibilità, nessuno si appoggia su professionisti per determinare le direttive. A volte i ministri non capiscono appieno le richieste degli esperti. Si sono alternati 27 o 28 ministri della Salute dal 1989 e, ogni volta, i progetti del predecessore vengono abbandonati. I funzionari si adeguano ad ogni ministro entrante”, continua Elena Copaciu, che denuncia in modo diplomatico il pressapochismo e la polarizzazione presente all’interno delle istituzioni sanitarie.
Camelia Roiu lo dice in termini meno diplomatici: “I direttori degli ospedali sono di nomina politica e spesso non hanno le competenze adeguate per l’incarico che ricoprono. La formazione per il management ospedaliero consiste in un corso di tre mesi, io l’ho frequentato, è una presa in giro. Queste persone sono nominate solo per favorire contratti con determinate aziende legate al partito. Se il sistema continuerà ad essere controllato politicamente, non vi sarà alcun miglioramento. Nemmeno il governo tecnocratico di Dacian Cioloș, arrivato al potere dopo le dimissioni del gabinetto Ponta, a seguito della tragedia del Colectiv, non ha cambiato nulla. Io ci speravo, ma non è accaduto nulla”, continua Camelia Roiu. Ciononostante è proprio sotto l’impulso del ministro della Salute “tecnocratico” Achimaș-Cadariu, nel 2016, che è stato implementato un “Piano nazionale di sorveglianza per le infezioni ospedaliere”. Nessuno sa, due ministri della Salute più tardi, se è ancora in vigore o meno.