Il futuro dell’Europa passa dal sistema di Dublino
“La crisi dell’Europa di oggi non è la crisi di Schengen ma è la crisi di Dublino". Intervista con Gianfranco Schiavone presidente dell’ICS
Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà e vicepresidente dell’Associazione per gli studi Giuridici sull’immigrazione, è di recente rientrato da Skopje, dove ha partecipato ad un evento del programma Migralona , promosso dalla Central European Initiative in collaborazione con l’Associazione delle Municipalità del sud-est Europa (NALAS). Migralona consiste in una serie di seminari tenuti nei sei paesi dei Balcani occidentali candidati all’ingresso nell’Unione europea, per proporre agli amministratori locali di acquisire i metodi e le finalità del progetto Sprar – Sistema per i richiedenti asilo e rifugiati. Lo abbiamo intervistato a Bologna, al termine di una riunione del coordinamento EuropAsilo, la rete nazionale per il diritto d’asilo.
Com’è andato l’evento Migralona?
Confesso che all’inizio ero po’ scettico poiché durante i primi incontri c’era una percezione palpabile negli interlocutori di estraneità alla questione. Poi le cose sono cambiate e si è visto un interesse crescente. Certo, c’è ancora molto lavoro da fare: molti dei paesi dei Balcani occidentali ritengono di non c’entrare molto con la migrazione ovvero continuano a percepirsi come paesi di solo transito nei quali nessuno vuole rimanere. Si fatica a vedere come la realtà si stia modificando e, con velocità e modalità diverse tra i vari paesi, un certo numero di rifugiati, all’inizio molto piccolo, inizierà a scegliere i paesi del Balcani occidentali non più come paese di transito ma come paese di insediamento.
Parimenti ho avuto modo di toccare con mano quanto sia difficile comprendere che è necessario creare un sistema di accoglienza per i rifugiati che sia quanto più possibile diverso da quello dei campi profughi che producono – come d’altronde è avvenuto in Italia per molti anni e accade ancora – fenomeni gravi quali disagio sociale, ghettizzazione, sperpero di risorse pubbliche, concentrazione di potere (e di denaro) nelle mani di pochi enti gestori, infiltrazioni della criminalità organizzata
Però, nonostante le difficoltà, mi pare stia maturando una consapevolezza evidenziata anche dalle conclusioni finali del progetto alle quali siamo giunti a Skopje. I rappresentanti istituzionali dei diversi paesi dei Balcani occidentali hanno riconosciuto la necessità di avviare dei nuovi progetti sperimentali – anche se in fase iniziale, di dimensioni contenute – di accoglienza e protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati attraverso il coinvolgimento delle comunità locali, seguendo – con i necessari adattamenti – un approccio che in Italia chiameremmo di “accoglienza diffusa” finalizzato a permettere ai richiedenti asilo di vivere in contesti abitativi e sociali normali e in condizioni di libertà di circolazione fin dal loro arrivo.
Qual è invece la situazione attuale del Sistema europeo comune di asilo?
Il Sistema europeo comune di asilo è un processo politico-normativo in atto da molto tempo nell’Unione Europea il cui obiettivo è quello di arrivare dalla progressiva armonizzazione delle discipline nazionali in materia di qualifiche, procedure ed accoglienza, ad un unico sistema di asilo in tutti i paesi.
Ovviamente non è possibile – e forse neppure opportuno – arrivare a un’uniformità assoluta, perché ogni paese europeo ha storie, tradizioni, sistemi giuridici e sensibilità verso le migrazioni forzate molto diverse; la storia non si cancella e non si uniforma in pochi anni. Tuttavia se l’Europa, come prevede il Trattato di Lisbona, si pone l’obiettivo della creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, le differenze, in termini di politiche normative sul diritto d’asilo debbono ridursi drasticamente. L’esperienza dell’ultimo decennio evidenzia come questa strada sia ancora lunga.
Ancora oggi ci sono diversità così marcate che, per fare un esempio, una stessa richiesta di protezione internazionale può essere quasi sicuramente accolta in un paese dell’UE e quasi sicuramente respinta in un altro, evidenziando in modo lampante come l’armonizzazione sostanziale è ben lontana dall’essere stata raggiunta. Dimostrazione che questa armonizzazione di fondo non è avvenuta.
Le profonde differenze nei criteri e nelle procedure per riconoscere o meno il diritto ad una delle due forme della protezione internazionale unito alle ancora maggiori differenze nell’organizzazione dei sistemi di accoglienza ed integrazione sociale dei rifugiati rappresenta chiaramente il motore principale dei cosiddetti “movimenti secondari” all’interno dell’Europa: le persone vanno dove hanno più probabilità di vedere accolta la propria domanda e dove hanno maggiore assistenza e maggiori opportunità di integrazione sociale.
Per esempio? Germania, Svezia…?
Dipende dalla tipologia di richiedente asilo, dalla nazionalità. Anche l’Italia adesso è interessata da flussi di richiedenti asilo che vi si recano perché la loro domanda viene esaminata più favorevolmente. È il caso di afghani, pakistani, iracheni… Nonostante l’Italia non offra altri tipi di servizi e abbia bassi standard sull’asilo, le domande di questi cittadini vengono accolte con maggior favore. Queste persone potrebbero fare domanda in altri paesi dove arrivano, invece vengono a farla in Italia.
Non sto dicendo che qui vada meglio o peggio che altrove, perché magari c’è un trattamento più critico di altre nazionalità.
Il peso degli orientamenti nazionali, che sono evidentemente anche orientamenti politici, delle tradizioni, delle normative interne, ovvero un insieme di dati giuridici e non, incidono moltissimo su una differenziazione che, a rigore, le direttive europee impedirebbero o non giustificherebbero in questa misura. E parliamo di differenze di accoglimento di richieste con scarti tra un 10% e un 90% di richieste accolte, una differenza che fa sembrare che le direttive in materia non esistano nemmeno. La direttiva dà dunque dei criteri, ma questi sono declinati nella normativa interna con grandi differenze.
Quindi poi i tribunali locali fanno la differenza?
Prima dei tribunali sono proprio le autorità amministrative che ricevono la richiesta d’asilo a fare la differenza. Il tribunale viene adito solo se vi è un rigetto.
Continuano a permanere forti differenze anche sulle “procedure”, ovvero su come vengono esaminate le domande: se ad esempio utilizzare o meno il criterio della domanda “manifestamente infondata”, la procedura “accelerata”, la procedura “prioritaria” oppure sull’applicazione del concetto di “paese terzo” di origine, del concetto della “zona sicura” all’interno del paese di origine.
Emerge che abbiamo una babele di istituti giuridici che fanno sì che le modalità con le quali le domande vengono esaminate siano molto diverse tra di loro, e di conseguenza i tassi di accoglimento sono molto diversi.
Vi sono paesi in cui si è molto rigidi nell’accoglimento delle domande d’asilo…
In Lettonia le domande di asilo sono praticamente inesistenti, ed è conseguenza di un meccanismo perverso di gioco al ribasso: ci sono molti stati con numero molto basso di richieste di asilo che mettono in atto misure per non essere attrattivi, ad esempio mantenendo criteri particolarmente rigidi nell’esame delle domande. In questo si può individuare un’intenzionalità politica malevola.
È il caso ad esempio della Slovenia dove la maggior parte delle domande, che in Italia sarebbero facilmente accolte, viene respinta. Ci sono respingimenti di siriani, iracheni, afghani, nazionalità che in Italia hanno il riconoscimento al 100%. È uno stratagemma per non essere attrattivi e viene attuato su vari fronti: le domande vengono respinte, l’accoglienza avviene in centri chiusi ed isolati con pochi programmi di integrazione e poi si applica il criterio di “zona sicura” – località del paese d’origine in cui si afferma che il richiedente asilo avrebbe potuto trovare riparo – creando l’alibi per il respingimento delle domande. Un criterio, quest’ultimo, che in Italia meritoriamente non viene applicato.
Questo concetto giuridico, che era facoltativo nella disciplina prevista dalla direttiva europea, in Italia non l’abbiamo recepito, quindi consideriamo il paese come un insieme, non rifiutiamo l’asilo con la scusa della zona sicura.
E si parla ancora di sistema di asilo comune…
Oggi siamo lontanissimi da un sistema di asilo comune perché di fatto non l’abbiamo mai voluto. Sono prevalsi gli egoismi nazionali, che hanno anche preso strade opposte.
La Commissione europea se ne sta occupando, ma le politiche nazionali non più di tanto. Se così non fosse avremmo un sistema di asilo armonico e saremmo stati in grado di fare dei passi avanti che non abbiamo fatto, a cominciare dalla più clamorosa delle mancanze che è quella sul regolamento di Dublino, l’ultimo elemento che chiude il cerchio del mancato sistema europeo di asilo.
Noi viviamo un sistema nel quale il richiedente asilo non entra nell’Ue ma entra in un paese specifico ed entra – ovviamente – dove può, in una condizione di fuga. È in quel paese che secondo Dublino deve essere esaminata la sua domanda.
Il regolamento di Dublino a differenza delle direttive è ineludibile…
Cominciamo dalla conclusione: il Regolamento di Dublino oggi è l’ostacolo principale a un sistema di asilo unico. Come si può avere un sistema di asilo unico con un meccanismo per cui la competenza a esaminare la richiesta viene assegnata con un criterio casuale, geografico, legato all’arrivo delle persone?
Dublino non ha costruito un sistema di asilo, ma tanti sistemi nazionali. Se si fosse pensato fin dall’inizio che le persone entravano nell’Ue e che c’era un meccanismo di ridistribuzione, questo avrebbe fatto sì che la Lettonia avrebbe ricevuto una quota parte di rifugiati, anche se fossero tutti sbarcati in Sicilia, quindi avrebbe avuto meno interesse a sabotare l’integrazione del sistema e a rifiutare le domande, perché alla fine la sua quota l’avrebbe presa lo stesso. Avrebbe dovuto invece organizzarsi per governare la situazione.
Invece adesso il discorso è che le persone entrano in un determinato paese, e sono fatti suoi. Gli altri se ne lavano le mani.
Perché quindi i paesi rifiutano le quote? Perché le quote, partendo dal principio che il luogo di ingresso sia irrilevante, comportano un’assunzione di responsabilità per tutti: la distribuzione verrebbe effettuata in base a criteri sui quali si potrebbe non essere d’accordo, su cui si può contrattare, ma che sarebbero oggettivi: popolazione, PIL, numero di rifugiati già presenti, numero di reinsediamenti…
Il cambiamento del Regolamento di Dublino è la chiave di volta per cambiare questo sistema. Deve prima passare il concetto che i rifugiati arrivano a tutti, e in questo modo cominciamo a parlare di armonizzare, standardizzare il sistema.
Un paese come l’Ungheria avrebbe interesse a introdurre le quote, perché molti arrivano lì, ma non è così…
Se adottiamo un approccio razionale un paese che ha frontiere esterne dell’Unione e che si trova su una “via di fuga” dovrebbe spingere senza dubbio verso una riforma che preveda il meccanismo delle quote obbligatorie. Ma non è sempre così perché il calcolo politico può essere più spregiudicato. Il neopopulismo autoritario magiaro ha costruito tutta la sua fortuna politica sull’immagine di una nazione eroica che lotta senza posa per impedire l’accesso dei rifugiati invasori all’Europa e salvarne così la storia e l’identità. Ricordiamoci infatti cosa dice incessantemente la propaganda di Orban: “Noi stiamo salvando l’Europa dall’invasione musulmana”. Quindi anche se un approccio politico razionale e democratico dovrebbe portare l’Ungheria ad essere tra i fautori della distribuzione dei rifugiati in Europa, proprio un simile eventuale esito rappresenta per la politica ungherese la peggiore delle soluzioni possibili perché minerebbe alla radice l’identità politica neo populista. Non a caso l’Ungheria si è opposta sdegnosamente al timido programma di relocation dall’Italia e dalla Grecia che era stato offerto anche all’Ungheria.
Stessa cosa dovrebbe valere per l’Italia, che è un paese di arrivo?
La situazione italiana, per quanto logorata, non è paragonabile a quella dell’Ungheria sotto il profilo della gravità della crisi dello stato di diritto; ciò premesso sul nostro paese pesano comunque gravi responsabilità: pur essendo uno dei più importanti paesi dell’Unione ha mantenuto finora una politica alquanto incerta – e temo anche ambigua – sul processo di modifica del Regolamento Dublino III.
L’obiettivo della riforma Dublino non ha mai costituito un cavallo di battaglia della politica italiana, neppure quando – come nel 2016 e parte del 2017 – gli arrivi dei richiedenti asilo in Italia hanno avuto un incremento così forte da fare parlare tutte le forze politiche, in modo trasversale, di insostenibilità di tale situazione sul medio-lungo periodo.
La battaglia democratica capace di tenere insieme la tutela del diritto d’asilo e il superamento degli egoismi nazionali dei singoli stati europei è stata abbandonata del tutto per essere sostituita da una politica disperata che ha tentato e sta tentando ogni strada per bloccare gli arrivi dei rifugiati verso l’Europa. È facile condannare il muro di Orban perché è di una semplice brutalità mentre gli oscuri rapporti dell’Italia con la Libia e con altri stati africani di transito – in particolare il Niger – sono di una brutalità e di una violenza meno evidente ma entrambe le politiche rispondono alla medesima spregiudicata logica.
Nel fare le proprie scelte in modo pressoché corale l’esangue centro-sinistra italiano ha alimentato e fatto proprio un approccio politico culturale che non appartiene neppure alle categorie politiche della destra, bensì a tutti gli effetti a quelle dell’estrema-destra. La sinistra italiana, da anni incapace di produrre un pensiero politico sulla gestione delle migrazioni internazionali, ha così alla fine cannibalizzato se stessa dando uno spettacolo orrendo. Non si tratta di un errore tattico e neppure di un serio errore strategico: è qualcosa di molto più grave e profondo con conseguenze infauste nel lungo periodo.
L’ASGI, di cui è vice presidente ha, assieme ad altri, redatto una proposta di riforma del Regolamento di Dublino. Ce la può descrivere nei suoi elementi essenziali?
La nostra proposta – che è stata costruita con la condivisione di pressoché tutte le principali organizzazioni italiane che si occupano di diritto d’asilo – si fonda su due pilastri.
Il primo è rappresentato dall’abrogazione dell’anacronistico principio che lega la competenza all’esame della domanda di asilo al primo paese nel quale il richiedente fa ingresso sostituendolo con il principio delle quote-paese come misura ordinaria e non emergenziale.
La Commissione Europea nella sua proposta di riforma del Regolamento Dublino III avanzata già nel maggio 2016 aveva riconosciuto la necessità di modificare l’attuale situazione ma lo ha fatto proponendo l’applicazione del principio delle quote-paese solo come meccanismo correttivo da far scattare in caso di crisi, ovvero quando lo stato competente di primo ingresso abbia raggiunto un numero di domande di asilo che supera del 150% il numero teoricamente assegnato a tale base dalla “chiave di riferimento”, conteggio effettuato sulla base del PIL e della popolazione.
A prima vista la proposta della Commissione può apparire come un primo passo verso una riforma condivisibile ma a ben guardare mantenere ancora il legame tra competenza e paese di primo ingresso mantiene quell’approccio errato che ha causato le gravi distorsioni nel sistema europeo d’asilo.
A seguito di un profondo dibattito e confronto che ha stupito anche il sottoscritto (e che evidenzia come sono ancora possibili processi di rinnovamento del pensiero politico in Europa) la Commissione LIBE del Parlamento Europeo (e poi l’Aula in prima lettura) ha approvato un coraggioso testo di riforma che imporrebbe invece agli stati il principio della distribuzione secondo quote.
Il secondo pilastro della proposta è ancora più innovativo in quanto rappresenta un approccio che la Commissione aveva sempre rifiutato con tenacia: quello di prevedere che i “legami significativi” del richiedente asilo con un dato paese dell’Unione costituissero a tutti gli effetti dei criteri in base al quale stabilire la competenza all’esame della domanda.
Nella nuova impostazione assumono quindi rilievo sia legami di tipo familiare che parentale, ovvero precedenti soggiorni del richiedente protezione in uno dei Paesi dell’area Dublino per ragioni di studio, formazione o di lavoro.
I due principi sopraesposti non sono scindibili tra loro ma sono parte della medesima impostazione giuridica finalizzata a trovare un bilanciamento tra l’assegnazione della competenza all’esame della domanda di protezione sulla base del principio di obbligatoria allocazione/ripartizione tra i paesi membri e il progetto migratorio del richiedente riconoscendo rilevanza all’esistenza di legami significativi. Il solo principio della distribuzione per quote paese, se “cieco” non può infatti produrre da sé alcuna vera riforma perché è destinato ad essere travolto da un numero incontrollabile di movimenti secondari dei richiedenti asilo che, comprensibilmente, continueranno a tentare di andare e rimanere nel paese nel quale hanno un legame forte. In genere riuscendoci salvo che non si decida di pagare il prezzo, altissimo in termini economici e democratici, di trasformare l’Europa in una sorta di grande campo di prigionia utilizzando forme di detenzione amministrativa da applicare a centinaia di migliaia di persone.
Così, la proposta che vi ha visto coinvolti è stata positivamente recepita e votata dal Parlamento europeo?
Come dicevo, la Commissione LIBE a metà ottobre 2017, con una netta maggioranza trasversale ha votato il testo proposto dalla relatrice, la eurodeputata svedese C. Wikstrom, ma profondamente modificato rispetto alle sue prime versioni grazie in modo particolare all’incessante lavoro della eurodeputata italiana Elly Schlein. Subito dopo il voto da parte della Commissione LIBE un folto gruppo di eurodeputati – afferenti soprattutto ai paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrad – probabilmente spinti dai rispettivi governi – ha cercato di affossare la riforma portando il testo nella sessione dell’aula plenaria a Strasburgo, procedura non necessaria nella fase che precede il confronto con il Consiglio dell’UE. La riforma ha però resistito e con l’approvazione dell’aula anziché affossarla è stata rafforzata a dispetto delle intenzioni di chi aveva tentato il colpo.
Il confronto tra Consiglio, Commissione e Parlamento per trovare un compromesso è stato di fatto sospeso subito dopo il suo avvio proprio in ragione delle profonde divergenze precedenti, accresciute dal fatto che il testo di riforma uscito dal Parlamento dell’UE, ha spiazzato sia la Commissione che il Consiglio per il suo approccio innovativo. Non si prevedono sviluppi prima della fine dell’attuale semestre di presidenza bulgara (giugno 2018) e dell’avvio del prossimo semestre di presidenza austriaca. La seconda metà del 2018 sarà probabilmente il momento decisivo. In questo quadro colpisce il silenzio della politica italiana, distratta ed impreparata a ragionare sui grandi temi di prospettiva per la vita dell’Europa e del nostro stesso paese, fino all’autolesionismo.
Cosa succederà allora alla riforma?
Per concludere il processo di riforma bisogna giungere a una co-decisione tra il Consiglio e il Parlamento. Al momento non mi è possibile fare delle previsioni ragionevoli; posso solo dire che il quadro politico europeo, in progressivo logoramento dopo l’esito delle elezioni italiane e la rinnovata vittoria di Orban in Ungheria induce a un ragionato pessimismo sulla possibilità che il testo votato dal Parlamento possa imporsi. Vedo più probabile un compromesso al ribasso che stralci le parti più significative della riforma, come quella dei legami significativi.
Paesi di arrivo come Italia, Grecia, Spagna, Ungheria, dovrebbero avere l’interesse di spingere…
Sì in teoria, ma come ho spiegato prima in relazione all’Ungheria, le ragioni politiche interne nei diversi Paesi possono produrre effetti opposti.
Si tratta quindi di una questione che va al cuore della visione di Europa, tra chi la vede più integrata e i sovranisti…
È proprio così. La riforma del Regolamento Dublino viene costantemente vista dalla società civile come un tema tecnico e noioso da lasciare ai burocrati e non si comprende invece la sua portata politica.
La crisi dell’Europa di oggi, intesa come spazio di libera circolazione, non è “la crisi di Schengen” come si legge nella stampa, ma è la “crisi di Dublino”. L’opinione pubblica, gli organi di informazione – non solo italiani – e persino gli ambienti accademici non riescono a comprendere che la scelta su quale debba essere la riforma del Regolamento Dublino III non riguarda solo il diritto d’asilo ma l’assetto stesso dell’Unione Europea.
Come si fa a far breccia nell’opinione pubblica? Qual è il futuro della riforma?
Dovremmo superare il tecnicismo tipico della comunicazione di questa tematica facendone emergere la sua dimensione politico-culturale con l’obiettivo di creare un vasto movimento di opinione in tutti i paesi dell’Europa che difenda il risultato raggiunto dal Parlamento Europeo e semmai spinga per migliorare il testo. Nella consapevolezza che non è in gioco solo il diritto d’asilo ma l’involuzione dell’Europa nel suo complesso.