Sardegna: pastori di Romania

Provengono perlopiù dalla regione romena della Moldova e dall’inizio degli anni duemila hanno cominciato a migrare verso la Sardegna dove sono impiegati nel settore agro-pastorale. Un fenomeno analizzato dall’antropologo Sergio Contu

07/05/2018, Francesca Rolandi -

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Alcuni contesti rurali devono la loro sopravvivenza alla manodopera migrante. E’ il caso dell’immigrazione romena in Sardegna e del suo impiego nel settore dell’allevamento ovi-caprino di cui abbiamo parlato con l’antropologo Sergio Contu, attualmente cultore della materia presso l’Università di Cagliari, dove si occupa di documentazione biografica e di fenomeni di mutamento sociale e culturale pertinenti la sfera lavorativa e la mobilità migratoria.

Nella sua ricerca il caso studio della presenza romena in Sardegna nel settore dell’allevamento è stato definito una nicchia migratoria. Cosa intende con questo concetto?

Il concetto di nicchia migratoria è stato introdotto nei primi anni novanta dal sociologo Roger Waldinger per designare un settore d’impiego che, pur risultando potenzialmente accessibile ad ogni lavoratore migrante, è dal punto di vista occupazionale progressivamente monopolizzato da uno specifico gruppo. Con il tempo alcuni settori produttivi, nazionali o regionali, per caratteristiche strutturali interne o condizioni contingenti diventano – come nel caso dei migranti romeni coinvolti nell’allevamento ovi-caprino sardo – delle nicchie occupazionali nelle quali un potenziale migrante troverà impiego grazie all’intermediazione di chi in quella specifica nicchia è già inserito.

Nel contesto dell’allevamento ovi-caprino sardo – in cui il pascolo estensivo praticato su un assetto fondiario fortemente frammentato e disperso implica la quasi costante presenza dell’uomo – il lavoro richiesto è pesante sia materialmente che dal punto di vista psicologico e si traduce in una condizione ambientale e lavorativa di pressoché totale isolamento. I soli canali di socialità di chi ha scelto o si è ritrovato suo malgrado a vivere questa  particolare condizione occupazionale sono limitati a chi in questo contesto socio-economico vive e lavora. È nel quadro di questi rapporti minimi che il pastore migrante riesce in qualche modo a costruire una rete sociale che può produrre contatti con nuova manodopera. Un meccanismo di richiamo che ha progressivamente prodotto la silenziosa sostituzione della manodopera autoctona, non più disponibile ad assolvere a tale carico di lavoro, con la più ben disposta manodopera migrante.

Questo generale processo di sostituzione non ha visto mutare l’ethos dei rapporti di dipendenza che, come consuetudine, regola informalmente il mondo agropastorale sardo ma, in una prospettiva ampia, si configura conforme all’attuale sviluppo di forme migratorie più disperse, dove l’inserimento lavorativo è operato quasi singolarmente all’interno di specifiche nicchie produttive.

Da quale contesto di origine provengono i migranti attivi nel settore in Sardegna?

Buona parte proviene da alcuni villaggi e piccole comunità rurali situati in un raggio di poco più di cinquanta chilometri da Galaţi, città capoluogo dell’omonima provincia, nella regione storica della Moldova, la più orientale delle sette macroregioni storiche in cui il paese è suddiviso. Sul piano socio-economico la regione è nel suo complesso caratterizzata da alti tassi di disoccupazione e povertà – che colpisce soprattutto la prevalente popolazione rurale – da una forte carenza di infrastrutture e da una presenza estremamente limitata di grandi centri produttivi e commerciali. La Moldova è la regione storica che ha registrato i più alti tassi di migrazione internazionale, nonché quella nella quale è stata maggiormente presente come destinazione finale l’Italia.

Qual è la genesi di questa relazione migratoria che collega la Sardegna con la Romania?

Alla fine degli anni novanta, dopo quasi dieci anni di transizione e la fine di ogni speranza di ripresa economica per il proprio paese, per una parte sempre più crescente della popolazione romena lavorare temporaneamente all’estero era diventata una pratica pressoché ordinaria, una vera e propria strategia di vita. Una strategia articolata su un pendolarismo circolatorio che al primo soggiorno ha per diversi anni fatto seguire cicli di andata e ritorno, temporalmente vincolati dalle scadenze dei permessi di soggiorno, o pragmaticamente determinati dalle opportunità occupazionali incontrate.

Agli inizi del nuovo millennio, nel momento in cui la migrazione romena iniziò ad assumere numericamente un certo rilievo, e i consuetudinari contesti di inserimento a mostrare i primi segni di una progressiva diminuzione delle opportunità lavorative offerte, la Sardegna ha iniziato con un certo grado di diffidenza ad emergere fra i diversi spazi regionali verso cui poter riorientare il proprio percorso migratorio. Un nuovo spazio di potenziali opportunità, lontano dagli scenari fino ad allora toccati, lontano dalla concorrenza del mercato del lavoro delle grandi città del nord e del centro Italia o dei grandi spazi agricoli del meridione. Uno spazio fisicamente distante, ma culturalmente vicino a tante aziende agricole toscane e laziali in cui numerosi migranti romeni avevano per diversi anni lavorato, e i cui titolari in molti casi erano dei sardi che, tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, erano stati protagonisti di un importante flusso migratorio interno a carattere rurale.

Sono state queste aziende a fungere da testa di ponte per i primi percorsi migratori che si sono avventurati oltre Tirreno, catapultando sull’isola quei primissimi migranti che hanno creato le basi su cui è maturata la presenza romena in alcune aree rurali dell’isola. Una presenza che oggi non è più limitata agli ovili e alle aziende agricole, ma che ha saputo trovare nuove opportunità e contesti d’inserimento.

Perché i migranti romeni sono stati ritenuti particolarmente adatti al lavoro nelle aziende agro-pastorali?

Le competenze e la buona attitudine dimostrate non possono che spiegare parzialmente quella che, in un arco di tempo relativamente breve, si è configurata come una sostanziale preferenza degli allevatori sardi per i lavoratori romeni. Ciò che emerge dall’analisi delle retoriche dei titolari di molte aziende, parallelamente all’elogio dell’affidabilità, dell’abnegazione e delle altre virtù che sembrano caratterizzare i migranti assunti, è un velato sistema di categorizzazione razziale e culturale che si smarca dal cono d’ombra della xenofobia rifugiandosi nella più solare preferenza e affinità culturale con degli europei, bianchi e “in fondo cristiani come noi”.

Dieci anni fa la figura del migrante romeno era oggetto di una campagna mediatica xenofoba, mentre oggi la cifra dominante è l’islamofobia…

Il primo serio spartiacque tra quelle che sono sostanzialmente le due rappresentazioni della presenza romena in Italia è costituito dalla tragica fine di una quarantasettenne romana, aggredita e uccisa da un manovale transilvano di origine rom, nell’ottobre del 2007 vicino alla stazione ferroviaria di Tor di Quinto, nel nord-est della capitale. Un evento tragico che dagli angusti confini della cronaca locale è esploso a livello mediatico nazionale e internazionale, ponendo il paese davanti a quella che iniziò ad essere definita “emergenza sicurezza”. Un fatto che in quei mesi gettò una pesante ombra sulla rappresentazione pubblica di quella che era ormai la prima collettività migrante del paese.

I fatti di Tor di Quinto portarono alla luce una retorica ed un processo di rappresentazione, condivisa da politici, mass-media e cittadini comuni, costruiti su due registri speculari. Il primo era quello della buona integrazione e di quella che era sostanzialmente vissuta come una vera e propria compatibilità sociale e culturale tra italiani e romeni, rappresentati come lavoratori zelanti, puntuali ed infaticabili. Il secondo era quello del sospetto e della progressiva criminalizzazione che vedeva i cittadini romeni presenti in Italia avvolti da una coltre di ostilità e disprezzo, rappresentati come dei criminali, violenti e sanguinari in cui s’intravedeva lo stesso profilo minaccioso attribuito in quegli stessi anni ad altre comunità migranti di origine balcanica.

In questo contesto cosa ha rappresentato l’ingresso della Romania nell’Unione europea?

Una caratteristica peculiare dell’immigrazione romena in Italia è stata la presenza costante di irregolari. Escluse le sanatorie, i decreti flussi e i conseguenti percorsi di regolarizzazione, fino all’ingresso ufficiale della Romania nell’UE un cittadino romeno non aveva alcuna possibilità di poter entrare legalmente in Italia per motivi di lavoro. Solo a partire dal gennaio 2002, nell’ambito dei negoziati di adesione della Romania all’UE, con l’abolizione della necessità di visto di entrata in area Schengen, i cittadini romeni hanno avuto la possibilità di soggiornare in un paese dell’Unione per un periodo di tempo non superiore a tre mesi.

A seguito di questa nuova possibilità una parte consistente dell’immigrazione romena irregolare presente in Italia iniziò ad essere costituita da persone entrate regolarmente ma rimaste oltre i tempi previsti dalla legge. Questi, a differenza dei loro stessi connazionali che avevano ottenuto la regolarizzazione, erano considerati migranti irregolari.

La differenza tra essere regolari e irregolari definisce in concreto ogni aspetto della vita quotidiana del migrante, dalla libertà di movimento, vincolata al rischio costante di essere rintracciati ed espulsi in caso di controllo da parte delle forze dell’ordine, alle possibilità occupazionali e abitative a cui si può accedere. L’immigrato romeno irregolare ha vissuto, almeno dalla seconda metà degli anni novanta fino ai primi mesi del 2007, in una costante condizione di “deportabilità”. A rimarcare questo costante senso di vulnerabilità contribuirono poi gli abusi e le intimidazioni di tutti quei soggetti che a fini speculativi avevano interesse a mantenere all’interno della collettività romena migrante una quota costante di lavoratori migranti irregolari.

Soggetti senza scrupoli che, in occasione della sanatoria collegata alla legge n.189/2002 (Bossi-Fini), hanno trovato modo di speculare anche sulle stesse modalità di regolarizzazione. Secondo la legge ogni datore di lavoro aveva la possibilità di mettere in regola un lavoratore immigrato precedentemente assunto in nero, con la condizione che quest’ultimo fosse presente nel paese dal giugno del 2002 e fosse impiegato da almeno tre mesi. In realtà moltissimi datori di lavoro negarono la possibilità della regolarizzazione o obbligarono i migranti stessi a farsi carico delle spese, mentre altri dietro pagamento offrivano regolarizzazioni che non si sarebbero mai realizzate.

L’ingresso della Romania nell’UE ha cambiato in maniera certamente positiva la posizione e le conseguenti possibili condizioni di vita che il migrante romeno può incontrare oggi soggiornando nel paese, ma non può di certo cancellare le tracce indelebili che oltre vent’anni di esperienza di migrazione hanno lasciato nel vissuto di migliaia di uomini e donne.

Quale è la narrazione prevalente dei migranti stessi sul proprio percorso migratorio e come è cambiata nell’ultimo decennio?

Sebbene la migrazione della collettività romena sia un fenomeno relativamente recente se paragonato a quello di altri gruppi nazionali, si riscontra nel suo sviluppo una differenziazione notevole tra i progetti migratori e l’organizzazione della mobilità dei primi migranti e di coloro i quali hanno intrapreso un percorso migratorio nel corso dell’ultimo decennio, per i quali la circolarità e l’“installazione nella mobilità”, come aveva a suo tempo ben evidenziata Dana Diminescu, si sono consolidate come vere e proprie strategie di organizzazione del quotidiano. Questo perché rispetto ai primi migranti il cui soggiorno all’estero conduceva inesorabilmente verso la clandestinità o il rimpatrio, oggi ci troviamo di fronte ad un continuum di possibilità nel quale si passa da un’emigrazione definitiva senza ritorno o con sporadici ritorni per le ferie, ad una migrazione a tappe lunghe, in cui si alternano periodi di permanenza a brevi ritorni in Romania, ad una migrazione stagionale che alterna nell’arco di un anno periodi più o meno lunghi di permanenza all’estero a più o meno brevi periodi di permanenza in Romania.

Per coloro che hanno vissuto le prime fasi di sviluppo di questo sistema di pratiche la scelta migratoria era narrativamente presentata come un vero è proprio progetto familiare innescato da un difficile processo di transizione politico ed economico dopo la fine del regime. In moltissimi casi l’unico obbiettivo per questi primi migranti era l’accumulazione di un piccolo capitale che consentisse di far fronte a quelle che erano le necessità e le esigenze di chi restava. È chiaro che esistevano sostanziali differenze tra uomini sposati e giovani privi di vincoli matrimoniali, ma le retoriche che sono proprie di questi primi migranti rivelano come lo sviluppo del proprio percorso migratorio rimanesse profondamente ancorato a livello di comunità locale.

Con lo sviluppo di un secondo e più consistente macro flusso migratorio nel corso del primo decennio del nuovo secolo, si registra un progressivo mutamento delle retoriche che ne raccontano lo sviluppo. Il racconto dei percorsi migratori dei giovani migranti che ne sono ormai i principali protagonisti, non ha più quell’urgenza di fondo che sembrava animare le dinamiche di mobilità di chi li aveva temporalmente preceduti. Oggi i giovani migranti sono sostanzialmente più attenti alla qualità dell’offerta occupazionale, abitativa e di potenziale inserimento sociale, che iniziano a diventare criteri di scelta dell’ipotetica destinazione. Questo nuovo atteggiamento, maturato sostanzialmente in seguito alla libera circolazione, segna un profondo mutamento di prospettive nei confronti di quelli che sono i vincoli propri della nicchia occupazionale dell’agro-pastorizia, che per carico di lavoro e poco invitanti condizioni di inserimento sociale, oggi non può che configurarsi come una condizione occupazionale transitoria, o un’alternativa, comunque temporanea, per mantenere in vita il proprio percorso migratorio in una fase di disoccupazione forzata.

Come questo progetto migratorio si inserisce nelle strategie per far fronte agli squilibri della transizione in Romania?

Mentre in un primo tempo le strategie dei gruppi domestici coincidono con quelle dei migranti, nel lungo periodo si assiste a quella che può essere letta come una vera e propria dissociazione e individualizzazione dei progetti migratori dei giovani neo migranti, alla costante ricerca di un’occasione di miglioramento del proprio tenore di vita e del proprio prestigio personale. In conseguenza di ciò mutano anche gli atteggiamenti economici espressi dalle relazioni sociali. Inizialmente, quando un migrante lasciava il proprio gruppo domestico non aveva dubbi riguardo ai vincoli di solidarietà economica che lo legavano al resto dei componenti del gruppo domestico d’origine. Ma in un secondo momento, con l’insorgere di nuove esigenze riguardanti la propria sistemazione personale e il graduale inserimento e partecipazione alla vita sociale del contesto d’insediamento, i giovani migranti iniziano a sentire sempre più impegnativo il vincolo di solidarietà economica a cui sono socialmente richiamati.

Ad un altro livello di lettura ciò che è mutato è in realtà il carattere dello scambio tra genitori e figli che, non volendosi interrompere, è ristabilito attraverso nuove forme di aggiustamento. Se da una parte si va verso la fine della dipendenza economica dalle diverse componenti del gruppo e la scomparsa dell’obbligo del sostegno, dall’altra rimangono e si rinnovano forme di generosità e di scambio, per così dire, del tutto disinteressate.

Quale impatto ha il progetto migratorio sui ruoli di genere e sulle relazioni familiari? Quale ruolo ha il ricongiungimento familiare? Esiste una complementarità tra il lavoro femminile di cura e quello maschile nel settore agro-pastorale?

La scelta migratoria e il modificarsi delle finalità e dei contenuti dell’agire economico si sono comprensibilmente riflettuti anche sulla divisione di genere del lavoro e su quello che era il tradizionale ruolo della donna. Anche in questo caso è possibile individuare sia una periodizzazione nei processi di trasformazione, sia l’emergere di soluzioni differenti a seconda dei contesti familiari.

I primi flussi migratori non modificano, anzi rafforzano, le forme tradizionali di divisione del lavoro che in ambito rurale erano ancora caratterizzate, nonostante le politiche di pari opportunità professate dal regime in materia, da autonomia di sfere funzionalmente distinte. Una distinzione persistente che vede gli uomini emigrare e le donne restare ad amministrare e custodire lo spazio domestico. In queste fasi, in cui la migrazione degli uomini porta ad una progressiva femminilizzazione della povertà, è sempre la donna che con la sua presenza fa formalmente e informalmente fronte all’inadeguatezza delle istituzioni, per rendere possibile l’accesso ai servizi sanitari, scolastici e di assistenza. La capacità di gestione della donna va così a collocarsi al centro del delicato meccanismo di mediazione tra risorse disponibili, risparmio e soddisfazione dei bisogni di tutti i membri della famiglia, in particolare dei figli piccoli.

Le cose iniziarono a cambiare nel periodo compreso tra il 2002 ed il 2003 quando prese corpo un’accentuata femminilizzazione dei flussi. Per quanto riguarda le iniziali strategie migratorie femminili, quando non siamo di fronte a pratiche di ricongiungimento familiare, la pratica più diffusa, soprattutto temporalmente a ridosso dell’abolizione del visto d’ingresso, è la migrazione temporanea di breve periodo. In moltissimi casi si trattava di donne che svolgevano lavori domestici o di assistenza alla persona in contesti che necessitavano di manodopera, anche inaspettatamente nella Sardegna rurale, caratterizzata da forti vincoli familiari. Questa necessità che, nella sua dimensione sub-regionale riflette un bisogno nazionale, strettamente connesso ai cambiamenti socio-demografici che negli ultimi tre decenni hanno interessato l’intera società italiana, ha rappresentato un’opportunità imprescindibile per l’inserimento della componente femminile in un contesto migratorio a carattere prettamente maschile.

Va precisato che nel caso dei pastori salariati, quelli che teoricamente sono dei ricongiungimenti familiari, il più delle volte non sono altro che dei ricongiungimenti parziali, in quanto la coppia, per le particolari condizioni abitativo-occupazionali, in moltissimi casi non può condividere lo spazio residenziale. Questa particolare dinamica non ha però impedito a mogli, figlie e nuore dei pastori salariati di trovare impiego presso le stesse comunità rurali in cui essi stessi lavorano.

L’intero settore agro-pastorale in Italia dipende ormai in larghissima parte dall’apporto di manodopera migrante ed è uno degli ambiti dove maggiormente emergono situazioni di sfruttamento che in alcuni casi sfociano nella schiavitù. Qual è la situazione nella comunità romena in Sardegna?

Nelle primissime fasi di sviluppo del proprio percorso migratorio il neo-migrante è strettamente vincolato agli individui, intermediario e datore di lavoro in primis, che hanno reso possibile l’avvio del percorso stesso. Questa dipendenza, favorita generalmente dalle limitatezze economiche e linguistiche, pone il neofita in una posizione di estrema vulnerabilità. È in questa fase estremamente delicata, in cui la vulnerabilità del singolo è estremamente manifesta, che l’azione di individui privi di scrupoli può dare corpo a vere e proprie pratiche di sfruttamento e vessazione. Ma l’azione di pochi non può di certo pregiudicare una generale situazione di inserimento umano e occupazionale che, nonostante le evidenti criticità che sono proprie dal comparto primario isolano, risulta essere conforme a quelle che sono le aspettative dei migranti che hanno scelto o si sono ritrovati loro malgrado a vivere questa particolare condizione occupazionale.

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