Mirëdita/Dobar dan: simboli vietati e provocazioni tollerate

Il consueto festival di quattro giorni volto a dare nuova luce ai rapporti tra Serbia e Kosovo, dove artisti kosovari e serbi presentano le loro opere a Belgrado, è stato oggetto di attacchi da parte della destra nazionalista

05/06/2018, Antonela Riha - Belgrado

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In questi giorni in Serbia si è parlato molto del festival Mirëdita/Dobar dan, tenutosi a Belgrado dal 30 maggio al 2 giugno, ma pochi lo hanno visitato. La quinta edizione del festival che raduna artisti e attivisti kosovari e serbi si è svolta in un clima di alta tensione, tra proteste di strada e interventi di polizia che hanno suscitato molta più attenzione di quanta ne abbia attirato il programma del festival.

Gran parte dell’opinione pubblica serba non ha capito, e forse nemmeno sentito, che l’idea degli organizzatori era quella di “cambiare lo sguardo sui rapporti tra la Serbia e il Kosovo presentando l’arte degli artisti kosovari a Belgrado” e di stabilire legami “attraverso uno scambio culturale al fine di approfondire la comprensione tra le due società”.

Le gusle e l’Internazionale

Il primo incidente è avvenuto alla vigilia dell’inizio del festival quando la polizia di frontiera serba ha sequestrato alla fotografa kosovara Eliza Hoxha tre fotografie riportanti simboli del Kosovo e dell’Uçk (Esercito di liberazione del Kosovo). Nonostante fosse chiaro che si trattava di fotografie documentarie degli anni Novanta, che Hoxha ha scattato in Kosovo mentre lavorava come fotoreporter per il settimanale di Pristina Zeri, la polizia e la cosiddetta opinione pubblica “patriottica” le hanno vissute come una provocazione.

Il più chiassoso è stato il leader del Partito radicale serbo (SRS) Vojislav Šešelj, condannato per crimini di guerra dal Tribunale dell’Aja. Nonostante le autorità abbiano vietato la manifestazione annunciata dai radicali, il giorno dell’apertura del festival, mercoledì 30 maggio, davanti al Centro per la decontaminazione culturale si sono radunati circa 150 sostenitori dell’SRS guidati da Šešelj.

Accompagnato dal suono delle gusle [tradizionale strumento ad arco monocorde, ndt.] e dai canti patriottici, e circondato da cartelli rappresentanti i monasteri serbi del Kosovo, Šešelj ha dichiarato che “per coloro che hanno invitato gli šiptari [termine dispregiativo per indicare gli albanesi, ndt.] a Belgrado […] non ci sarà più posto a Belgrado”.

Mentre Šešelj pronunciava il suo discorso, sul lato opposto della strada alcuni partecipanti al festival cantavano l’Internazionale in albanese e in serbo.

Un ingente dispiegamento delle forze di polizia ha impedito a Šešelj di rovinare l’apertura del festival, non permettendo alle persone non accreditate di avvicinarsi al Centro per la decontaminazione culturale. La strada in cui si trova il Centro è rimasta chiusa fino alla fine della manifestazione dei sostenitori dell’SRS, conclusasi senza incidenti.

Bekim Fehmiu, un passato comune dimenticato

Le notizie che nel frattempo giungevano dal Kosovo hanno contribuito a creare ulteriori tensioni. Una serie di attacchi contro i serbi del Kosovo, avvenuti il 28 maggio a Klina e due giorni dopo a Staro Gacko, nel Kosovo centrale, nonché il divieto imposto a un giornalista belgradese di assistere alla proiezione del suo film a Gračanica, sono diventati il principale argomento degli oppositori del festival concepito come un momento di incontro tra giovani serbi e albanesi.

A protestare contro il festival sono stati anche alcuni partiti di orientamento nazionalista e conservatore e una parte dell’opinione pubblica, che hanno ricordato le uccisioni dei serbi del Kosovo, bollando gli albanesi come “t[]isti e assassini”, mentre l’Iniziativa dei giovani per i diritti umani, che ha organizzato il festival in collaborazione con l’ong Iniziative civiche di Belgrado e Kosovo Foundation for Open Society, è stata definita come un’organizzazione antiserba e traditrice.

Molto meno numerosi erano i cittadini interessati a visitare il festival e, in un’atmosfera di forte tensione, pochi hanno osato farlo. Nei quattro giorni del festival i visitatori hanno avuto l’occasione di assistere alla proiezione del film “Martesa” (Matrimonio) della regista Blerta Zeqiri, a uno spettacolo teatrale che affronta il tema della violenza domestica intitolato “Copë Copë” (Frantumi), al concerto del gruppo “Zánat” (Le fate), nonché a visitare una mostra di caricature a cui ha partecipato – accanto ai due artisti kosovari, Murat Ahmeti e Mentor Llapashtica – anche uno dei più noti caricaturisti belgradesi Predrag Koraksić Corax.

Nell’ambito del festival si è tenuto anche un incontro dal titolo “Kosovo – Serbia: che cosa rappresentiamo gli uni per gli altri?”, a cui hanno assistito poche decine di persone. Il festival Mirëdita/Dobar dan si è concluso con la mostra fotografica di Eliza Hoxha.

Pochi hanno ricordato che questo festival è nato ispirandosi alla figura di Bekim Fehmiu, attore albanese, kosovaro, jugoslavo, internazionale che, come affermano gli organizzatori del festival, è diventato “simbolo di un passato comune”.

Messaggi per tutti

Il disinteresse per i contenuti del festival e il chiasso sollevato attorno all’arrivo degli artisti albanesi a Belgrado sono direttamente proporzionali ai messaggi che arrivano dalla leadership serba in merito alla risoluzione della questione del Kosovo.

I cittadini serbi sono disorientati dalle affermazioni dei rappresentanti del potere: da quella secondo cui lo status del Kosovo verrà deciso da un referendum alle dichiarazioni del presidente Aleksandar Vučić che continua ad annunciare decisioni difficili che dovranno essere prese.

Il presidente Vučić, che esprime la sua opinione su tutto ciò che accade nel paese, ad oggi non si è fatto sentire riguardo ai controversi eventi che hanno accompagnato l’ultima edizione del festival Mirëdita/Dobar dan.

A Vučić giova il fatto che una manifestazione come questa abbia luogo a Belgrado, perché così può dimostrare che la Serbia è aperta verso i suoi vicini, compresi gli albanesi. Può sequestrare alcune opere degli artisti albanesi e permettere che venga esposto quello che non ritiene provocatorio. Può vietare a Šešelj di protestare per poi permettergli di avvicinarsi a 50 metri dal luogo dello svolgimento del festival e di scagliarsi contro “i traditori”.

Così facendo, Vučić trasmette messaggi diversi a pubblici diversi: uno alla comunità internazionale che sta monitorando il comportamento delle autorità di Belgrado; un altro a Pristina che si sta preparando per la riapertura del dialogo a Bruxelles; e un terzo ai suoi elettori, perlopiù di orientamento nazionalista, e all’opinione pubblica locale, ancora divisa sull’interpretazione della guerra combattuta in Kosovo negli anni Novanta.

Così anche quest’anno il festival Mirëdita/Dobar dan si è svolto tra gli incontri di poche persone interessate e aperte al dialogo diretto e gli sfoghi di “patriottismo” di quelli che considerano qualsiasi contatto con l’altra parte come un tradimento.

In pochi hanno sentito le parole di Eliza Hoxha, secondo cui “se non parliamo, questa questione rimarrà irrisolta, e prima o poi qualcuno la userà per fomentare nuovi conflitti”.

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