Ai confini dell’Abkhazia

Un viaggio in Georgia, toccando i confini dell’Abkhazia, regione secessionista fuori dal controllo delle autorità di Tbilisi. La vita al di qua e al di là dei reticolati che delineano il confine de facto

18/07/2018, Paolo Bergamaschi - Zugdidi

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Pixabay - CC0 Creative Commons

Istanbul è sempre lì. Quando l’aereo buca le nubi te la ritrovi di colpo in basso acquattata nell’oscurità, sulle sponde tra lo stretto del Bosforo e il Mar di Marmara, come un gatto marpione che attende le prime luci dell’alba per catturare la preda. È la sera di una domenica d’inverno come tante. Le lampade elettriche delle chiatte lampeggiano intermittenti sull’acqua, mentre sulla terraferma le scie luminose dei fari delle lunghe e ininterrotte code di automobili trasformano i boulevard in fiumane di lava incandescente che scorre irruente verso la pianura. Una breve sosta in aeroporto sul lato asiatico e poi di nuovo in cielo verso Tbilisi per discutere di integrazione europea e politiche di vicinato nel lembo più remoto del vecchio continente anche se la Georgia, a detta dei cartografi, dal punto di vista strettamente geografico appartiene all’Asia trovandosi a sud della catena montuosa del Grande Caucaso che segna per convenzione il confine meridionale dell’Europa.

Viaggi e fake news

Asia o Europa che sia, comunque, poco importa ai georgiani che dal 28 di marzo dello scorso anno affollano gli aerei che collegano il loro paese con le principali capitali europee. In quella data, infatti, è entrato in vigore il nuovo regime che esenta i cittadini della repubblica caucasica dall’obbligo di visto per entrare nello spazio Schengen, l’area dell’Unione di libera circolazione delle persone. Era una delle principali promesse fatte da Bruxelles a Tbilisi quando nel maggio del 2009 fu lanciato a Praga il progetto di Partenariato Orientale. In quella occasione i leader degli allora 27 paesi membri formalizzarono ai capi di stato di Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina la proposta di approfondimento delle relazioni sul piano politico, economico, sociale e culturale. Non solo scambi commerciali, quindi, ma lo sviluppo di un percorso di integrazione che, per il momento, esclude la piena adesione all’Unione Europea. Dei sei potenziali partner solo tre, Georgia, Moldavia e Ucraina, hanno colto appieno l’offerta europea negoziando e sottoscrivendo un accordo di associazione. Due, Armenia e Bielorussia, hanno preferito orientarsi verso l’Unione Economica Euro-asiatica a guida russa mentre l’Azerbaijan mantiene una posizione intermedia di equidistanza attiva fra i due blocchi.

Sono stati 173.396 i cittadini georgiani che da marzo a novembre 2017 hanno viaggiato in Europa sfruttando il regime di liberalizzazione dei visti. Il numero si è ulteriormente allargato a fine gennaio 2018 superando le 220.000 unità. A chi entra è consentito trattenersi per un massimo di 90 giorni per vacanza, affari occasionali, studio o qualsiasi altra ragione fatta eccezione il lavoro continuato. Sono stati però, molti, a detta di qualcuno troppi, i georgiani che hanno fatto richiesta di asilo denunciando presunte situazioni di persecuzione e atti di violazione dei diritti umani nel paese di origine, col solo scopo di prolungare surrettiziamente la permanenza.

In particolare Svezia e Islanda hanno sollevato il problema nell’ambito del meccanismo di monitoraggio che riunisce periodicamente i ministri degli Interni dell’area Schengen con la Commissione Europea, che ha il compito di vigilare sull’applicazione degli accordi. Oltre a questo ha subito un’impennata anche il numero di coloro che non è rientrato in patria alla scadenza dei tre mesi di permesso finendo per gonfiare il sottobosco degli irregolari. Buona parte dei governi europei ha, così, deciso di inserire la Georgia nella lista dei cosiddetti “paesi sicuri”, ovvero quei paesi dove stato di diritto e libertà civili sono tutelate, per accelerare la procedura di esame delle domande di asilo. La Svezia, in questo modo, è stata in grado di respingere in tempi rapidi tutte le 963 richieste presentate ordinando il rimpatrio dei postulanti. Curioso e allo stesso tempo inquietante, invece, è il caso dell’Islanda che ha registrato un incremento vertiginoso in percentuale delle domande di accoglienza (700%), anche se si tratta in termini numerici di cifre risibili (da 5 a 40 poi raddoppiate nei mesi successivi). Perché mai un georgiano con l’ampio ventaglio di opzioni disponibili debba scegliere proprio l’angolo opposto e meno accessibile del continente, percorrendo distanze infinite per approdare in mezzo all’Atlantico è l’interrogativo che hanno cominciato a porsi le autorità di Tbilisi, allarmate dal possibile sforamento di flussi.

Dopo accurate indagini e approfondite analisi la ragione si è rivelata di una banalità disarmante. Tamar Khulordava, giovane e brillante deputata della repubblica caucasica, mi spiega il fenomeno con distaccata ironia. “È tutta colpa dei social network”, dice sorridendo, “qualcuno ha fatto circolare la notizia completamente priva di fondamento che le autorità di Reykjavík offrivano un contributo di 5000 euro ai cittadini georgiani che avessero trovato moglie in Islanda oltre a lauti incentivi per il trasferimento”. “Una volta individuata e smentita l’informazione falsa”, sottolinea Tamar, “il flusso si è interrotto mettendo al riparo, così, la Georgia dall’applicazione del meccanismo di sospensione del regime di liberalizzazione dei visti da poco concesso”. Con l’avvento dei nuovi media sono saltati tutti i filtri che proteggevano i canali tradizionali di distribuzione delle notizie. Le fake news sono pane quotidiano, ogni giorno è il primo di aprile. Sorprende, però, constatare come basti poco per mettere a rischio la sicurezza e gli interessi di un paese. Sui social network la palla di neve che si trasforma in valanga non è più un’eccezione. E se è vero che le fake news corrono veloci in rete, in questo caso hanno fatto correre anche centinaia di georgiani, più o meno ignari, per le vie del cielo.

Quando si viaggia nei paesi dell’ex Unione Sovietica bisogna mettere in conto anche la possibilità se non di notti in bianco almeno di sonno agitato. Non si tratta dei letti ampi e morbidi oltre misura o delle stanze dotate di tutti i possibili comfort. E non è nemmeno una questione di rumore vista la perfetta insonorizzazione degli stabili. I nuovi hotel, specialmente quelli delle catene internazionali, non sono provvisti di finestre tradizionali apribili manualmente dall’interno. Se, come nel mio caso, non funziona o funziona male l’impianto di climatizzazione sei fritto, nel senso letterale della parola. Ti rotoli disperatamente tra le lenzuola dopo avere litigato inutilmente con i tasti del termostato ed esserti letto e riletto le istruzioni che governano il suo funzionamento. Nulla da fare. Ti assopisci e poi ti svegli in un bagno di sudore per rialzarti e cercare, di nuovo, di manomettere il regolatore della temperatura, quindi osservi meditabondo, tra i corposi tendaggi, Tbilisi nell’oscurità con lo sguardo perso nel vuoto. Alla fine non resta che chiamare la reception che nel cuore della notte manda un tecnico in camera che dopo avere inutilmente smanettato a sua volta col termostato apre rassegnato la scatola elettrica di fianco e stacca completamente il climatizzatore. Con buona pace della tecnologia moderna e della categoria stellata dell’hotel. Senza dimenticare i paurosi sprechi energetici che affliggono ancora l’economia georgiana.

Il decennale della guerra

Quest’anno la Georgia si appresta a commemorare il decennale dalla catastrofica guerra in Ossezia Meridionale che nell’agosto 2008 tenne col fiato sospeso la diplomazia internazionale. Le immagini dei carri armati e degli autoblindo russi in marcia verso Tbilisi tra le lunghe colonne di profughi t[]izzati sono ancora drammaticamente stampate nella memoria collettiva del paese. Fu l’ex presidente Mikhail Saakashvili a provocare lo scomodo vicino con un’avventata e irresponsabile operazione militare volta a riprendere la provincia ribelle. Contava, in caso di bisogno, su un aiuto esterno che, forse, qualcuno a Washington gli aveva incautamente promesso, ma mai garantito. Le conclusioni della missione di inchiesta commissionata allora dall’Unione Europea alla diplomatica svizzera Heidi Tagliavini non lasciano alcuna ombra di dubbio sul fatto che l’intervento georgiano fosse ingiustificato sul piano del diritto internazionale. Nel contempo, però, sottolineano come nei mesi precedenti ci fossero state nella regione di Tskhinvali numerose provocazioni oltre ad un flusso crescente di mercenari russi con attacchi mirati dell’aviazione di Mosca e, soprattutto, giudicano sproporzionata la reazione dell’armata rossa che portò alla pulizia etnica di interi villaggi e ampie aeree a ridosso della linea di contatto. Furono più di 800 i morti. 100.000 persone furono costrette ad abbandonare in fretta e furia le proprie abitazioni e ben 35.000 di queste a distanza di dieci anni non hanno ancora fatto ritorno a casa.

Oggi il 20% del territorio della Georgia si trova ancora in una situazione di conflitto congelato. Abkhazia e Ossezia del Sud rimangono fuori controllo per le autorità di Tbilisi, mentre nemmeno agli osservatori europei della missione di monitoraggio è concesso l’accesso alle ex province autonome contravvenendo all’accordo di cessate il fuoco sottoscritto all’epoca tra le parti. Anche se la Georgia da allora ha voltato pagina cambiando completamente la sua classe dirigente la guerra del 2008 rimane una ferita aperta nell’opinione pubblica che il tempo non è ancora riuscito a rimarginare. E da allora Abkhazia e Ossezia Meridionale sono diventati stati indipendenti o, almeno, riconosciuti come tali da Mosca che ne garantisce la sovranità di facciata e la sicurezza.

“È in corso un processo dinamico di militarizzazione e russificazione del territorio”, spiega Ketevan Tsikhelashvili, ministro, anzi, ministra per la Riconciliazione e l’Eguaglianza Civica riferendosi a quanto avviene nelle province ribelli. “Sono più di cento gli accordi bilaterali sottoscritti da Mosca e le cosiddette autorità di Sukhumi e Tskhinvali”, aggiunge durante l’incontro nella sala a lato dei suoi uffici, “con la situazione sul terreno che si fa sempre più difficile sia in termini di sicurezza che sul piano umanitario”. Tsikhelashvili ci illustra, in particolare, il caso drammatico dei numerosi sfollati impossibilitati a ritornare alle rispettive proprietà o di coloro che da un giorno all’altro si sono visti spezzare i poderi dalle matasse di filo spinato srotolate dai soldati russi per marcare unilateralmente un confine che, sulla carta, non dovrebbe esserci ma che, adesso, improvvisamente c’è e separa famiglie, affetti, storie e destini.

“Le esercitazioni militari sull’altro lato”, denuncia la giovane ministra, “sono routine quotidiana con la popolazione locale divenuta ostaggio della strategia aggressiva del Cremlino”. Le manovre dei soldati assomigliano ad un rito tribale per mostrare i muscoli e intimidire le autorità di Tbilisi oltre a silenziare i residenti che ancora resistono e rifiutano di abbandonare i luoghi di origine, malgrado un ambiente sempre più ostile. “Nonostante la campagna insistente di propaganda e disinformazione condotta da Mosca che ha per obiettivo la creazione di stereotipi negativi dei georgiani”, osserva Ketevan, “noi abbiamo scelto il dialogo mettendo da parte, per il momento, le questioni che riguardano lo status delle ex province e sviluppando, nel contempo, misure di ricostruzione della fiducia tra le parti come l’accesso facilitato ai servizi sanitari e all’istruzione”. Quello che conta, tiene a sottolineare Tsikhelashvili, è migliorare le condizioni di vita degli abitanti soggetti a continue vessazioni. “Le comunità locali sono state divise artificialmente”, conclude avvertendo che quello del filo spinato russo è un problema di sicurezza che riguarda ormai l’Europa intera e non solo la Georgia.

A spasso per Tbilisi

C’è sempre una prima volta. Per più di vent’anni ho battuto le strade di Tbilisi. Pensavo di conoscere ogni angolo della capitale, anche se non mi ero mai aggregato ai tour canonici confezionati per le comitive di turisti che sempre più numerosi arrivano in Georgia. È Rebecca Harms, eurodeputata tedesca presidente dell’Assemblea Euronest che raggruppa i parlamentari dei sei paesi del Partenariato Orientale con quelli dell’eurocamera, che mi invita a seguirla alla scoperta di una città dove non è mai stata. La guida è un personaggio di eccezione. Si tratta, infatti, di Aleko Elisashvili, giornalista, storico e attivista urbano noto per le sue battaglie a difesa del patrimonio monumentale di Tbilisi. Nell’ottobre del 2017 Aleko aveva preso parte come indipendente alle elezioni municipali ottenendo con pochissime risorse e senza apparati di partito alle spalle un risultato più che lusinghiero. Il 14% dei voti non gli ha consentito di conquistare la poltrona di sindaco ma lo ha innalzato ad un ruolo di primo piano nella vita sociale della città conferendogli una sorta di leadership morale.

Lo stesso non si può dire del suo avversario Kakha Kaladze, ex terzino del Milan, arrivato alla carica di primo cittadino con il sostegno in pompa magna di stampa e televisioni controllate dietro le quinte da Bidzina Ivanishvili, ex primo ministro nonché principale oligarca della Georgia, ritornato, si fa per dire, al mondo degli affari dopo la breve parentesi politica. “Tbilisi è la città dei mille balconi”, racconta Aleko mentre ci mostra le caratteristiche strutture abitative nei vicoli del centro storico. Per alcune di queste i georgiani usano la dizione di “cortile italiano”. Ricordano per certi versi le nostre case popolari di una volta con i piccoli appartamenti uno di fianco all’altro che si affacciano su di un unico ampio balcone comune che funge da spazio sociale.

Tbilisi, "Il cortile italiano" (Foto di P.Bergamaschi)

“Secondo le mie ricerche storiche solo Gerusalemme ha subito più distruzioni di Tbilisi”, ci dice indicandoci le rovine di costruzioni preesistenti. Mentre ci infiliamo in un gomitolo di viuzze più di una persona riconosce Aleko stringendogli calorosamente la mano per incoraggiarlo a continuare l’impegno per la conservazione e il recupero dell’antico nucleo urbano. “Siamo solo agli inizi”, risponde con un malcelato sorriso, “c’è ancora moltissimo da fare”. Passiamo veloci da un quartiere all’altro camminando sul selciato sconnesso tra edifici che hanno ritrovato lo splendore di un tempo e altri che cadono letteralmente a pezzi sorretti da un’imbragatura esterna di fortuna. Risalta, in particolare, lo stato di abbandono di alcune chiese contese, ci spiega Aleko, fra la comunità ortodossa di Tbilisi e quella armena che fa capo a Yerevan.

Il crollo dell’Unione Sovietica ha comportato la rivendicazione di proprietà religiose fra diversi soggetti con strascichi giudiziari che si trascinano irrisolti fino ad oggi a discapito dello stato di salute degli edifici reclamati. Ancora qualche anno e di quelle chiese non rimarranno che macerie con buona pace del valore simbolico che rappresentano.

Dopo esserci inerpicati lungo il quartiere ebraico, chiamato Betlehem, il tour guidato non può che concludersi nel Meydani, il fulcro del primo insediamento dell’antica Tbilisi dove nel giro di pochi metri quadrati si incontrano la sinagoga, la moschea, una chiesa georgiana e quella armena. “Una volta eravamo una società tollerante”, commenta Elisashvili con ironia.

“Tbilisi città di vita”, era lo slogan di Kakha Kaladze durante la sua vincente scalata elettorale a sindaco della capitale. Gli studenti scesi in piazza in questi giorni, però, parlano di “Tbilisi, città di morte”. Sono mobilitati per denunciare la piaga delle morti bianche. Non a caso hanno chiamato la manifestazione “protesta dell’uomo che cade” per richiamare l’attenzione sui lavoratori che precipitano dalle impalcature. Quello del dumping sociale era uno dei rischi paventati da alcuni eurodeputati, fra questi Rebecca Harms, durante il dibattito avvenuto al Parlamento Europeo al momento della ratifica dell’Accordo di Associazione fra Georgia e Ue. Nel 2017 sono stati 41 gli operai morti sui luoghi di lavoro e 63 quelli che hanno riportato lesioni gravi. “Non possiamo applicare gli stessi standard di sicurezza dell’Unione Europea perché perderemmo posti di lavoro”, ha affermato Akaki Zoidze, presidente della Commissione Sanità del parlamento georgiano, suscitando un inevitabile vespaio di polemiche. Secondo Zoidze occorre trovare un equilibrio fra gli interessi delle imprese e quelli degli operai, come se si potessero negoziare il rischio e la vita di chi lavora. L’accesso della Georgia al mercato unico europeo costituisce una straordinaria opportunità di sviluppo. Ai vantaggi, però, corrispondono anche oneri come le disposizioni in materia di sicurezza del lavoro. Cogliere i primi ignorando i secondi significa tradire, per certi versi, lo spirito del processo di integrazione europea.

In autobus verso il Mar Nero

Didube è la principale stazione di autobus e taxi della capitale. Da qui partono corriere e marshrukte, i taxi collettivi con destinazione fissa, per tutte le più importanti località della Georgia. È un crogiolo di veicoli pubblici e abusivi, bancarelle e ambulanti, profumi di spezie e puzza di fogna, viaggiatori e astanti. Difficile districarsi se non si conosce il georgiano o il russo. Io me la cavo solo grazie al tassista istruito da Aleko al termine del tour guidato che, dopo avere chiesto informazioni tra le colonne di auto, mi porta direttamente agli uffici della compagnia di bus che collega Tbilisi a Zugdidi, capoluogo della Mingrelia ai confini dell’Abkhazia. Il tempo di perdermi nel caos per acquistare qualcosa per cena durante il lungo viaggio, l’immancabile kaciapuri (focaccia imbottita di formaggio), e poi via verso il Mar Nero a ridosso dei monti del Grande Caucaso.

Poco più di 300 chilometri separano Tbilisi dall’ultima città ancora sotto il controllo del governo georgiano prima di avventurarsi nella terra di nessuno autoproclamatasi indipendente a metà degli anni Novanta dopo una feroce guerra civile sobillata da Mosca. Di mano in mano che ci si allontana dalla capitale la strada si fa più tortuosa e accidentata anche se l’autobus confortevole rende più gradevole e, tutto sommato, leggero lo spostamento. C’è anche il wi-fi a bordo che mi consente di sbrigare il carico quotidiano di posta elettronica. La tecnologia aiuta per gli scambi a distanza ma anche per le comunicazioni con gli immediati vicini in caso di necessità.

Sono l’unico straniero sulla corriera. Dopo un paio di ore l’assistente del conducente si avvicina a me mostrandomi lo schermo del suo telefonino dove compare la scritta “Are you ok?”. “Yes, everything is fine”, gli rispondo facendogli segno con il pollice verso l’alto. Basta anche una piccola premura, a volte, per far sentire a suo agio il passeggero superando barriere linguistiche apparentemente insormontabili. È ormai trascorsa la mezzanotte quando il pullman arriva nella piazza principale di Zugdidi dove in un capannello di persone mi aspetta Marina, la signora che gestisce la guesthouse dove alloggio. Mastica un po’ di inglese. Mi dà il benvenuto chiedendomi cosa desidero per colazione. “Yogurt e frutta” ribatto mentre mi mostra la stanza spaziosa che mi ospita in questo breve soggiorno a ridosso dell’Abkhazia. Quadri di epoca e scaffali pieni di libri sulle pareti. Il sonno arriva presto.

Punto di attraversamento tra la Georgia e l’Abkhazia (Foto P.Bergamaschi)

“Sono 10.000 le persone che si spostano ogni giorno tra la Mingrelia e il distretto di Gali, la parte meridionale dell’Abkhazia”, mi dice Gogia Lasha il sindaco di Zugdidi che arriva trafelato in ufficio dribblando un nutrito gruppo di cittadini in attesa davanti alla porta che mi fa sentire in colpa per il tempo sottratto. “Non abbiamo contatti diretti con le autorità dell’altra parte anche se negli ultimi tempi non si registrano conflitti di rilievo”, mi spiega. Sono più di 60.000 gli sfollati che hanno abbandonato Gali per sistemarsi nella regione di Zugdidi. La vita è sempre più difficile oltre i reticolati per i 45.000 georgiani che ancora resistono in quel distretto di fatto sotto il controllo russo. “Stiamo facendo grossi sforzi per migliorare la situazione economica e potenziare le strutture di accoglienza”, racconta, “ma anche l’Europa deve darci una mano in particolare per quanto riguarda le infrastrutture e l’accesso al mercato dei nostri prodotti”. Nocciole e mandarini sono le principali coltivazioni del territorio. Lo scorso anno il raccolto è stato falcidiato dall’invasione della cimice marrone, un parassita delle piante che ha reso ancora più dura la vita degli agricoltori abbandonati a se stessi. Da Gali cercano di trasportare ogni giorno in Georgia quello che resta del loro lavoro. Tengo, uno sfollato dall’Abkhazia che adesso lavora per la municipalità di Zugdidi, mi conduce in auto alle nuove postazioni del mercato fisso appositamente allestito per i contadini che fanno la spola da un lato all’altro del confine per esporre e mettere in vendita la merce. Poco più a lato mi mostra il nuovo ospedale in costruzione. I lavori dovrebbero terminare entro la fine dell’anno. Servirà la popolazione di Gali che avrà accesso gratuito alla struttura. Le autorità georgiane fanno di tutto per mantenere i legami con l’Abkhazia nella speranza di una risoluzione pacifica del conflitto scoppiato 25 anni fa. Dall’altra parte, al contrario, l’obiettivo è di recidere il cordone ombelicale che lega ancora la provincia secessa a Tbilisi rafforzando la presa di Mosca. Dei sei punti di attraversamento della linea amministrativa che separa l’Abkhazia dalla Georgia quattro sono stati chiusi negli ultimi mesi dall’autoproclamato governo di Sukhumi obbligando i residenti dei due lati a lunghe deviazioni per raggiungere la meta. Quello principale si trova all’imbocco del ponte che attraversa il fiume Enguri. Tengo mi porta appena oltre il check-point controllato dai soldati georgiani. C’è un via vai sostenuto di gente che si muove da un capo all’altro del manufatto. L’agenzia per i profughi delle Nazioni Unite mette a disposizione delle navette gratuite ma la maggior parte delle persone si sposta autonomamente a piedi o con carretti trainati da cavalli. “Dall’altra parte”, mi dice Tengo, ”i controlli sono meticolosi e intrusivi non tanto per le guardie abkhaze quanto per i soldati russi che a loro volta hanno installato un proprio punto di controllo”. La Federazione Russa è stato il primo paese a riconoscere l’indipendenza dell’Abkhazia (solo altri tre paesi l’hanno fatto in seguito). Subito dopo Sukhumi ha siglato con Mosca un accordo formale che appalta all’armata rossa la sicurezza e la protezione dei confini. Di fatto il distretto di Gali è stato trasformato in una grande base militare i cui abitanti, tutti di etnia georgiana, rappresentano un ostacolo al pieno controllo del territorio e alla strategia espansionistica della Russia.

Gli attivisti delle poche organizzazioni non governative autorizzate ad operare in Abkhazia si muovono in un ambiente soffocante e ostile. Si occupano di diritti umani e di assistenza alle fasce più vulnerabili della società come le donne e i bambini. È talmente pesante il clima di sospetto che li circonda che quando li incontro mi chiedono espressamente di non citare i loro nomi per paura di ritorsioni. Confermano la pulizia etnica in corso con la chiusura delle scuole georgiane e la russificazione forzata della popolazione. Gli scambi fra le comunità ai due lati del confine sono occasionali e hanno luogo, in genere, lontano dalla terra di origine per evitare azioni di disturbo e intimidazione. L’ultimo incontro, che riguardava un progetto di cooperazione ambientale, si è svolto a Istanbul nel dicembre del 2017. Un altro problema ricorrente è quello della violenza sulle donne. “Nel Caucaso”, racconta una militante, “i soprusi domestici sono un fatto quotidiano che le donne subiscono nella solitudine, rassegnate a custodire il segreto tra le pareti di casa”. Le ong mettono a disposizione medici e consulenti famigliari specializzati nel prestare assistenza psicologica ma è difficile rompere il muro di silenzio radicato nella cultura della regione. Il processo di russificazione, comunque, non si limita all’imposizione della lingua russa o allo stravolgimento della segnaletica e della toponomastica. Le autorità abkhaze, infatti hanno annunciato che alla fine dell’anno in corso non accetteranno più i documenti di riconoscimento in possesso della maggior parte degli abitanti di etnia georgiana. Il vecchio passaporto sovietico, la carta di identità o il modulo 9 (un documento di identità provvisorio) dovranno essere sostituiti da un permesso di residenza. In pratica gli abitanti dovranno richiedere alle cosiddette autorità abkhaze il permesso di risiedere nelle rispettive proprietà. Il pericolo dietro l’angolo che tutti paventano è che con la qualifica di residente provvisorio si perda nelle famiglie georgiane del distretto di Gali il diritto di successione con il passaggio automatico allo “stato” abkhazo di tutti i beni immobili al momento del decesso del titolare. Se così fosse verrebbe meno l’unica vera ragione per cui 45.000 georgiani continuano ostinatamente a vivere in questa terra desolata in abitazioni decrepite spesso prive di acqua corrente e bagno interno e in assenza di servizi di base come l’assistenza sociale o la sanità. La pulizia etnica violenta e feroce che avevo conosciuto durante la guerra nella ex-Jugoslavia in Abkhazia ha subito un’evoluzione meno drammatica e repentina ma altrettanto devastante e efficace. Le persone non vengono più eliminate fisicamente ma se ne cancellano identità e tracce.

Chi giunge a Zugdidi per la prima volta senza conoscere la tragica storia recente della Georgia non può sospettare di trovarsi in zona di conflitto seppure, per il momento, congelato. Non ci sono militari per le vie della città e neppure mezzi blindati a ridosso della linea del cessate-il-fuoco che facciano pensare ad una guerra imminente. La vita scorre paciosa nel centro urbano fino alla piazza principale dedicata a Zviad Gamsakhurdia, il dittatore-letterato, nato da queste parti, salito al potere all’alba dell’indipendenza georgiana dopo il crollo dell’Unione Sovietica. E’ ancora inverno ma la temperatura mite concilia il passeggio lungo l’ampio viale affiancato da negozi che arriva fino ai margini dell’abitato. Zugdidi è un crocevia obbligato per i viaggiatori che si spostano sia ad ovest verso il mar Nero, che dista una trentina di chilometri, sia a nord-est verso Mestia, il capoluogo di Svaneti, la regione montuosa più affascinante e misteriosa della Georgia. La vegetazione mediterranea, in particolare palme e piante del tè, tradisce l’influsso delle correnti calde che arrivano dal mare. L’occhio, però, incoccia sullo sfondo contro le cime abbondantemente innevate dei monti del Grande Caucaso. Meglio, comunque, se si viaggia in auto rimanere concentrati sulla strada per evitare di investire le vacche e i maiali che vagano errabondi. Quello del randagismo degli animali da allevamento è un problema quasi impossibile da risolvere. Il sindaco della città ha provato ad affrontarlo con una apposita ordinanza che intima ai proprietari di mantenere mucche e porcelli nelle fattorie pena il loro sequestro senza ottenere grossi risultati. La consuetudine è dura a morire e così ci si deve abituare agli animali che pascolano beati sul ciglio della strada o nei prati antistanti le abitazioni del centro urbano come elemento del folklore georgiano.

La centrale idroelettrica di Vardnili-Enguri (Foto di P.Bergamaschi)

Anche se non esistono relazioni formali fra le comunità di Zugdidi e quella di Gali resiste, e ha resistito anche in tempo di guerra, un punto di contatto che obbliga le parti ad un’attiva e continua collaborazione. Si tratta della centrale idroelettrica di Vardnili-Enguri. Situata a 510 metri di altezza, a cavallo della linea di confine, con una capacità di 1300 Mw fornisce energia sia all’Abkhazia che alla Georgia. Gia, il direttore dell’impianto, con Nakia, la sua assistente che funge anche da interprete, mi accompagnano in auto lungo i tornanti della gola che arriva fino alla diga ad arco alta 271 metri che si trova appena sotto la prima fascia di costa innevata. L’invaso della centrale è in territorio georgiano mentre i generatori si trovano sul versante abkhazo. Le condotte sono divise a metà. “Dopo la guerra del 1992 l’accordo di ripartizione stabilisce che il 40% dell’energia elettrica prodotta va all’Abkhazia mentre il 60% finisce in Georgia”, mi spiega Gia che prima di assumere l’incarico di direttore ai tempi sovietici lavorava come sovrintendente di tutte le centrali del Caucaso. ”In realtà”, aggiunge, “gli abchazi ultimamente consumano più della quota concessa e inoltre non pagano la bolletta della luce”. Nonostante sia ormai integrata nella Federazione russa, che è il maggior produttore mondiale di idrocarburi, l’Abkhazia non dispone di gas naturale con le famiglie che utilizzano l’elettricità anche per il riscaldamento delle case. La strada che collega i due lati dell’impianto è chiusa. I soldati russi che presidiano la parte opposta non lasciano passare nessuno. Nakia, che abita in un villaggio oltre i reticolati, è, così, costretta ogni giorno ad allungare di 30 km la strada per arrivare al luogo di lavoro e rientrare a casa. Gia è forse l’unico georgiano cui è concesso di recarsi periodicamente a Sukhumi per regolare le questioni pendenti con i soci abkhazi della compagnia elettrica. “Nella centrale impieghiamo circa 300 persone che provengono sia dalla zona di Gali che da quella di Zugdidi”, constata. “Il

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